The Emperor's New Mind. Concerning Computers, Minds and the Laws of Physics, Oxford University Press, Oxford 1989
L'autore
Roger Penrose è nato a Colchester, Inghilterra, nel 1931. I genitori entrambi medici, un fratello maggiore matematico e uno minore studioso di psicologia e campione di scacchi, offrono un contesto che favorisce la sua sensibilità scientifica, matematica, fisica e multidisciplinare, quale si riflette nelle sue opere. Compie i suoi primi studi negli Stati Uniti, dove si è trasferita temporaneamente la sua famiglia d’origine, per completarli in Inghilterra a partire dal 1945, anno del ritorno. Ha insegnato ad Oxford fino al 1998, anno in cui è divenuto professore emerito. Una biografia, in lingua inglese, curata da J.J. O’Connor and E.F. Robertson è disponibile in rete sul server della St Andrews University.
È un fisico matematico piuttosto noto ai nostri giorni, sia per la sua collaborazione con Stephen Hawking, con il quale ha lavorato su questioni riguardanti i “buchi neri” e ha pubblicato, tra l’altro La natura dello spazio e del tempo, (tr. it. Rizzoli, Milano 1996), che per le sue opere interdisciplinari di riflessione sul metodo delle scienze e sulla tesi della non computabilità delle operazioni della mente (le operazioni proprie della mente non sono riducibili a procedimenti decidibili mediante il calcolo).
Sono molto note, anche in Italia diverse delle sue opere tradotte nella nostra lingua (basti pensare a Ombre della mente, Rizzoli, Milano 1996), caratterizzate da un approccio ad ampio spettro e improntate ad un’idea di unificazione della fisica di matrice fortemente einsteiniana. Penrose può essere considerato un realista in senso addirittura platonico (definito talvolta dalla corrente tomista come “realismo esagerato”, e che oggi è frequente ritrovare in una forma modernizzata, ma sostanzialmente riconoscibile, nella visione epistemologica di molti matematici), un realismo che egli stesso contrappone alla posizione di Hawking più vicina alla sensibilità dei fisici quantisti (Bohr e la scuola di Copenhagen) per certi aspetti positivista-operazionista e riduzionista, di remota matrice kantiana ed idealista. Lo stesso Hawking scrive in proposito, nel suo contributo al libro di Penrose e altri, Il grande, il piccolo e la mente umana (R. Cortina, Milano 1998): «Penrose e io abbiamo lavorato insieme sulla struttura a larga scala dello spazio e del tempo, incluse singolarità e buchi neri. Eravamo abbastanza d’accordo sulla teoria classica della relatività generale; il disaccordo è cominciato a emergere quando ci siamo avvicinati alla gravità quantistica. Adesso abbiamo approcci differenti al mondo, fisico e mentale. Sostanzialmente Roger è un platonista che crede ci sia un unico mondo di idee che descrive un’unica realtà fisica; io sono, invece, un positivista, convinto che le teorie fisiche siano solo modelli matematici costruiti da noi, e che sia senza significato chiedersi se essi corrispondano alla realtà, solo perché rendono possibili previsioni a livello osservativo» (p. 169).
È interessante notare, notiamo qui incidentalmente, come il problema della verità di una teoria fisica, cioè della sua corrispondenza al modo di operare effettivo della natura, sia ben più antico dei pensatori nostri contemporanei. San Tommaso d’Aquino (sec. XIII) osservava, a proposito dell’astronomia tolemaica, come non basti l’accordo sperimentale per dire che una teoria è certamente vera («Le ipotesi alle quali essi [gli astronomi antichi] sono giunti, non sono necessariamente vere; anche se sembra che, ammesse tali ipotesi, esse siano risolutive, non c’è bisogno di dire che esse sono vere: perché può darsi che le osservazioni astronomiche si possono descrivere in un altro modo non ancora afferrato dagli uomini. Comunque Aristotele si serve di queste ipotesi sulle proprietà dei moti come fossero vere»,Commento al “De coelo” di Aristotele, Libro II, lec. 17, n. 2 [ed. Marietti, n. 51]. E ancora: «In astronomia si suppongono gli eccentrici e gli epicicli per il fatto che, fatta questa ipotesi, si possono salvare le apparenze sensibili dei moti celesti. Tuttavia questa non è una ragione sufficiente a provarne (la verità), perché probabilmente queste si possono salvare anche a partire da un’altra ipotesi», Summa Theologiae, I, q. 32, a. 1, ad 2um). La dimostrazione della verità di una teoria fisica, quando può essere data, non può avvenire all’interno della teoria stessa (una situazione che ci ricorda vagamente i problemi di non completezza di Gödel per i sistemi assiomatici), ma richiede di essere condotta in un ambito di conoscenze più potente, qualitativamente diverso (meta-fisico) della teoria fisico-matematica stessa. Gli autori contemporanei, non disponendo, al momento, di un tale ambito fondativo non hanno altra possibilità che ricorrere ad una opzione extrascientifica per assegnare o rifiutare un valore veritativo alle teorie scientifiche.
La posizione, contro corrente, di Penrose deve, probabilmente, molto alla sua frequentazione giovanile con Dennis Sciama, amico del fratello matematico di Penrose, dal quale egli imparò ad appassionarsi alla fisica geometrica della gravitazione, dell’unificazione, del non lineare, come Einstein la mise a punto nella relatività generale e nelle ricerche per la teoria dei campi unificati.
A differenza della maggior parte dei fisici odierni Penrose si aspetta che vi sia una teoria non lineare, in qualche modo simile alla relatività generale, oggi ancora non trovata, che sta alla base della meccanica quantistica e della relatività stessa.
Il libro
Lo stile letterario del libro è accattivante (sono sempre più frequenti oggi gli scienziati che uniscono doti divulgative e didattiche eccellenti ad una buona penna di scrittore, che sa attrarre anche il lettore non del tutto avvezzo ai temi scientifici) e fa percepire la dimensione “avventurosa” e appassionante della ricerca della verità attraverso la scienza. Non si può mettere in dubbio che, comunque, gli argomenti trattati sono molto difficili e che l’autore non manca di spingersi anche ad un livello tecnico piuttosto impegnativo. Si deve riconoscergli, in pieno, che sa farlo ricorrendo spesso a stratagemmi didattici veramente efficaci; di questo si accorge, soprattutto, il lettore esperto che non può non apprezzare il talento didattico di chi scrive.
La tesi centrale. L’opera è unificata dal filo conduttore del tema dell’intelligenza e della sua irriducibilità ad un procedimento decidibile di calcolo meccanico, così come emerge da considerazioni di tipo strettamente scientifico. Esistono dei problemi per cercare di risolvere i quali una macchina può continuare a lavorare all’infinito non giungendo mai ad un risultato che arresti il processo meccanico del calcolo (indecidibilità, non commutabilità). Per condurre l’analisi delle problematiche scientifiche connesse con i processi di calcolo e paragonarli con quelli dell’intelligenza umana, Penrose offre un quadro assai ampio dei diversi approcci scientifici al reale oggi in campo: i primi capitoli del libro accostano il problema:
— a partire dall’informatica “concreta” dei computer e dall’approccio della cosiddetta “Intelligenza Artificiale (IA)” (cap. 1, ove viene esaminata in dettaglio e contestata la tesi dell’IA forte, secondo la quale si ritiene che «l’attività mentale sia semplicemente l’esecuzione di qualche sequenza ben definita di operazioni, spesso designata col termine algoritmo, […] un procedimento di calcolo di qualche tipo», p. 39);
— spostandosi, gradualmente verso l’informatica “teorica” delle macchine di Turing (cap. 2, in cui si analizza in dettaglio, con numerosi esempi, la nozione di algoritmo, come procedimento “meccanico” di calcolo che si conclude con un numero finito di operazioni. Viene, di conseguenza, chiamata in causa la questione della decidibilità, legata al teorema di Gödel e quella di computabilità di Church);
— passando attraverso la matematica, alla base dei processi di calcolo utilizzati dalle macchine (cap. 3, ove si presenta un bell’excursus didattico sulla teoria dei numeri, per condurre il lettore nel mondo dell’insieme frattale di Mandelbrot, la cui rappresentazione approssimata aiuta a visualizzare geometricamente la nozione di complessità legata a certi processi di calcolo. Ed è in questo capitolo che emerge la visione platonizzante della matematica dell’autore);
— giungendo alla logica che governa questa matematica (cap. 4, in cui si approfondiscono e collegano tra loro dai diversi punti di vista — aritmetico, insiemistico, geometrico, logico, cognitivo — i problemi già posti, introducendo ora anche il concetto di “ricorsività” di una funzione e di un insieme, e riproponendo la preferenza per l’opzione del “realismo platonico” rispetto a quella “formalista” e a quella “intuizionista”, che l’autore sembra ritenere come una sorta di “via media” tra le due estreme: «Ho descritto in breve le tre correnti principali della filosofia della matematica attuale: il formalismo, il platonismo e l’intuizionismo. Non ho nascosto che le mie simpatie vanno decisamente alla concezione platonica secondo cui la matematica è assoluta, esterna ed eterna e non fondata su criteri umani, e gli oggetti matematici hanno un’esistenza propria atemporale, non dipendente dalla società umana né da particolare oggetti fisici», p. 160).
In tal modo il lettore si trova chiaramente di fronte anche ai problemi di ordine filosofico (logico, epistemologico, ontologico) che emergono necessariamente dagli interrogativi che le scienze devono affrontare per essere in grado di proseguire la loro indagine. Oltre alle questioni logico-cognitive, già evidenziate, nel testo vengono affrontate anche questioni assai rilevanti riguardanti direttamente il problema della mente e del suo “soggetto”, come il problema dell’identità di una persona umana come individuo: «Che cos’è che dà a una particolare persona la sua identità individuale? Sono, in qualche misura, gli atomi stessi che compongono il suo corpo? La sua identità dipende dalla particolare scelta di elettroni, protoni e altre particelle che compongono quegli atomi? Ci sono almeno due ragioni per cui non può essere così. La prima è che nei materiali che compongono il corpo di qualsiasi persona viva c’è un ricambio continuo. La seconda ragione deriva dalla fisica quantistica […]. Non è possibile distinguere due particelle dello stesso tipo una dall’altra» (pp. 49-50). Per cui non può essere la sola materia ad identificare l’identità, ma occorre introdurre in essa una qualche altra informazione. E questa può riguardare la disposizione o configurazione spazio-temporale con cui gli elementi sono disposti, ma non solo, in quanto prima o poi chiama in causa anche la consapevolezza che la persona ha di sé (di cui l’A. parlerà alle pp. 516-518).
A questi problemi lo scienziato — e Penrose non si esime dal prendere posizione in tal senso — può dare risposte ricorrendo soprattutto alle concezioni dell’antica filosofia greca (platonica e aristotelica), prese in considerazione come delle ipotesi di lavoro (di tipo ontologico, epistemologico, ecc.) che l’uomo di scienza adotta a fondamento del suo approccio logico, matematico, fisico, o altro. Sono le classiche tesi metafisiche greche e medievali, piuttosto che le filosofie relativiste e idealiste della modernità, ad essere utili alla scienza della “complessità” e alla fisica-matematica del “non lineare”. Fino a quando non sarà stato sviluppato un vero e proprio metodo sistematico (scientifico) all’ontologia (forse la via dell’ontologia formale potrebbe essere una strada da seguire in questa direzione) i fondamenti ontologici delle scienze saranno inevitabilmente una questione di ipotesi, o di opzione, o di gusto dello scienziato e non ancora una questione genuinamente scientifica. Ed è a questo livello ipotetico, ma del tutto legittimo, che Penrose pensa di servirsene per fondare e interpretare la sua visione scientifica, quando lo strumento fisico-matematico non gli basta per proseguire l’indagine.
I capitoli successivi del libro sono dedicati al mondo della fisica:
— del mondo “classico” (nel senso in cui in fisica si adopera questo termine), cioè galileiano e newtoniano con i suoi sviluppi (la meccanica, la teoria cinetica, la termodinamica), maxwelliano (l’elettromagnetismo), e einsteiniano (la relatività), ecc. (cap. 5);
— del mondo “quantistico”, da Planck, Bohr, De Broglie, Schrödinger, Heisenberg, Dirac (cap. 6);
— al mondo della “cosmologia” con la sua asimmetria dovuta alla “freccia del tempo” (cap. 7),
— e dell’unificazione tra relatività e meccanica quantistica che emerge con il problema della “gravità quantistica” non ancora messa a punto (cap. 8).
Dopo averli esaminati, il lettore potrebbe anche chiedersi il perché di una così approfondita divagazione attraverso il mondo matematico prima, e quello fisico poi: e forse potrebbe anche essersi un po’ smarrito e aver perso di vista che il filo conduttore del libro rimane il problema della mente e del carattere irriducibile al calcolo delle sue operazioni specifiche.
Anche se l’autore non è un cognitivista, ma un fisico, egli ne tratterà con precisione dal suo punto di vista; e saranno gli ultimi due capitoli a far ritrovare al lettore la “bussola”: egli allora si renderà bene conto in qual modo Penrose lo abbia guidato a comprendere come il problema dell’intelligenza e del suo rapporto con il cervello, come con la macchina, abbia delle basi sia di natura logico-matematica, sia di natura fisica (i vecchi manuali di filosofia tomista avrebbero detto “cosmologica” o “filosofico naturale”) e inevitabilmente anche ontologica. Questi capitoli, infatti, sono dedicati proprio:
— al problema del cervello e dei modelli di esso che gli scienziati cercano di elaborare (cap. 9),
— e al problema del tipo di fisica (alcune considerazioni nel cap. 10) verosimilmente “non lineare” e “non locale”, che ancora non possediamo, ma di cui cominciamo a saggiare i primi elementi, necessaria a rendere conto delle operazioni che un organo materiale (corporeo o elettronico?) deve poter essere in grado di compiere per offrire una “base fisica” ad una mente che lo fa funzionare e che compie operazioni non computabili, plausibilmente perché non materiali (e qui ci ritroviamo di nuovo a contatto con le teorie cognitive greche e medioevali!).
Pregi e limiti dell’approccio epistemologico di Penrose
La tesi della non computabilità delle operazioni della mente. La tesi centrale di Penrose, a proposito del problema della mente, trattata anche in altri suoi libri, è quella della non computabilità delle operazioni proprie della mente. Inizialmente egli la introduce in una forma molto semplificata, ricorrendo al linguaggio comune («Pare sia diffusa la convinzione che “ogni cosa è un computer digitale”. È mia intenzione, in questo libro, cercare di mostrare perché, e forse come, non sia necessariamente così», p. 47), per poi passare a precisarla in un linguaggio propriamente scientifico. Il fatto che già all’interno della matematica si diano processi non decidibili e quindi non computabili in termini i un calcolo meccanico eseguibile con un numero finito di passaggi, suggerisce a Penrose l’idea che le operazioni proprie della mente umana siano di questo tipo. Certamente l’A., come fisico, manca di un quadro di riferimento cognitivo e metafisico di tipo scientifico, come del resto tutto il pensiero filosofico recente, ma cerca di offrire lo spazio teorico e la base logico-matematica e fisica per l’elaborazione futura di un tale quadro. E questo è certamente di grande interesse. Un limite, forse inevitabile, consiste nel cercare di supplire ad un tale quadro, non ancora elaborato, con delle opzioni filosofiche un po’ spontanee, estetizzanti, e non del tutto all’altezza di una visione propriamente scientifica. Ma se egli si lascia un po’ prendere la mano verso un platonismo cognitivo estetizzante, si pone assai correttamente di fronte al problema della immaterialità della mente, in ordine al quale, come fisico avverte di non avere gli strumenti necessari per rispondere. Non trovando una scienza a livello metafisico, ancora elaborata egli preferisce non cimentarsi oltre e sceglie di parlare dei vantaggi (in ordine alla selezione naturale) derivanti dal fatto di possedere una mente consapevole. Ciononostante il problema viene posto correttamente: «Pare che noi abbiamo, nella “mente” (o, piuttosto, nella “coscienza”) una”cosa” immateriale che, da un lato è suscitata dal mondo materiale e, dall’altro, può influire su di esso» (p. 512). Si notano, poi, una certa confusione tra i concetti di “mente” e di “consapevolezza” e la totale assenza di una teoria dell’astrazione nella formazione dei concetti universali nel processo cognitivo. Ma quest’ultima è una conseguenza dell’opzione platonica, in cui gli universali matematici vengono conosciuti piuttosto per una sorta di “visione” diretta (cfr. p. 541).
La fisica unificata non lineare. Dal punto di vista tecnico-scientifico il modo di affrontare il problema dell’unificazione della fisica, da parte di Penrose è indubbiamente suggestivo e sensato. Con il riemergere della fisica classica “non lineare”, “non locale” e quindi “non riduzionista”, l’idea di una teoria fisica unificata, vicina all’impostazione di Einstein, dalla quale possa emergere una teoria ondulatoria capace di ritrovare il modello particellare come una sua prima approssimazione e interpretazione, e il modello quantistico come approssimazione migliore o come una conseguenza, sembrano essere più che degni di essere indagati. Questa posizione, di remota origine eisteiniana, oggi sta ritrovando un certo credito, dopo essere stata a lungo respinta dai quantisti ortodossi, e Penrose ne è un autorevole sostenitore.
Pare inoltre plausibile che questo tipo di fisica ci avvicini alle conoscenze necessarie per indagare il comportamento fisico del cervello, anche se forse non rappresenta un approccio esaustivo. Certamente la fisica, da sola, non è sufficiente a rendere conto del funzionamento del cervello e qualche elemento caratterizzante e irriducibile della complessità chimica e biologica si rende indispensabile. Se questo è vero si presenterà, prima o poi, una differenza sostanziale tra la ricerca di una IA basata sull’elettronica del non vivente e un accostamento biologico ad un cervello vivente, naturale o artificiale (!) che sia. Ma il nostro A. è un fisico e non si spinge fino a questo punto.
Il realismo di Penrose: un autentico platonismo? Dal punto di vista più propriamente filosofico, il realismo di Penrose, spinto fino al platonismo, alla convinzione tipica dei grandi matematici, che i loro enti di ragione, debbano esistere davvero fuori della loro mente, in un empireo delle idee matematiche perfetto, dove possiamo incontrare l’insieme di Mandelbrot e le scoperte recenti della matematica informatizzata, appare certamente eccessivo e non necessario. Un sano “rasoio di Ockham” ci suggerirebbe, piuttosto che entia non sun multiplicanda sine necessitate… e che gli enti matematici sono da considerare enti di ragione anche se, più o meno remotamente, cum fundamento in re.
Ma sembrerebbe che il realismo esagerato platonizzante di Penrose, sia mosso più dalla preoccupazione di recuperare l’istanza realista contro il relativismo oggi dominante e contro un idealismo soggettivista — impadronitoti di un modo di interpretare anche la meccanica quantistica e che ha prodotto troppi luoghi comuni — piuttosto che dalla razionale adesione al platonismo gnoseologico. Infatti, la motivazione che Penrose sa dare del suo platonismo sembra essere più estetica ed emotiva che dimostrativa. Si esaminino in proposito le seguenti affermazioni: «L’insieme di Mandelbrot fornisce un esempio sorprendente. La sua struttura mirabilmente complessa non fu l’invenzione di una persona, né fu la creazione di un gruppo di matematici. […] L’insieme di Mandelbrot non è un’invenzione della mente umana: esso fu una scoperta. Come il Monte Everest, l’insieme di Mandelbrot ha un’esistenza propria!» (p. 134). «La matematica è un’invenzione o una scoperta? Quando un matematico ottiene i suoi risultati sta solo producendo complesse costruzioni mentali che non hanno alcuna realtà di fatto, ma la cui potenza ed eleganza sono semplicemente sufficienti a ingannare persino i loro inventori, inducendoli a credere che queste mere costruzioni mentali siano “reali”? Oppure i matematici scoprono davvero verità già “esistenti”: verità la cui esistenza è del tutto indipendente dalle attività del matematico? Io penso che, a questo punto, dovrebbe essere chiaro al lettore che io aderisco alla seconda concezione, almeno per quanto concerne strutture come i numeri complessi e l’insieme di Mandelbrot. […] L’opinione che i concetti matematici potrebbero esistere in un tale senso atemporale, etereo, fu espressa nell’Antichità (attorno al 360 a.C.) dal grande filosofo greco Platone» (pp. 136-137). E ancora: «Platone, sulla base di quelle che ai suoi tempi dovevano essere indicazioni molto infrequenti, sembra avere previsto da un lato che la matematica dev’essere studiata e compresa di per sé agli oggetti dell’esperienza fisica; e dall’altro che il funzionamento del mondo esterno reale può essere compreso in ultima analisi solo in termini della matematica esatta: ossia nei termini del mondo delle idee di Platone, “accessibile attraverso l’intelletto”» (p. 210).
Il fatto è che Penrose — e con lui la maggioranza dei fisici — sembra non conoscere il vero Aristotele, ma piuttosto la stereotipata e universalmente derisa caricatura, assimilata sui libri di scuola “canonici”, fattane da un certo positivismo che ha impiegato strumentalmente la posizione galileiana. L’Aristotele genuino è più vicino alla problematica della “complessità” odierna di quanto non lo sia Platone, ed è anche più vicino alla cosmologia einsteiniana (come mostrato già alcuni decenni or sono da Alexandre Koyré), alla fisica “non locale” e a quella “non lineare”, che hanno condotto alla critica al riduzionismo tuttora in corso.