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Lettera sulla tolleranza

John Locke
Laterza, Roma-Bari 2005
pp. 125
ISBN:
9788842045021

 

Inquadramento storico

Nel 1685 dall’Olanda, dove si era recato volontariamente in esilio già a partire dal settembre del 1683, John Locke (1632-1704) scrive un’epistola in lingua latina il cui tema centrale è l’idea di tolleranza. A ricevere la lettera è Philipp van Limborch, amico di Locke, che ne ordina la pubblicazione ad insaputa dell’autore nel 1689.
La stesura di questo testo avviene in un delicato momento storico segnato da profondi tumulti politici e religiosi e da nuovi equilibriche cambiano in modo radicale il volto e l’assetto dell’Europa per lungo tempo. Il 1618 è l’anno di inizio della Guerra dei Trent’anni – continuazione ed inasprimento delle lotte religiose del secolo precedente –, dichiarata poi conclusa nel 1648 con la pace di Vestfalia.
La promulgazione della pace di Vestfalia porta con sé delle conseguenze a lungo termine che determinano molteplici cambiamenti nell’assetto politico e ideologico dell’Europa e che hanno come scopo primario quello di garantire la stabilità di una pace duratura. Uno dei princìpi stabiliti nel 1648 riguarda il riconoscimento dell’assoluta sovranità nazionale, che garantisce il rispetto degli equilibri tra le potenze europee. Ciò determina, da un lato, un meccanismo di riconoscimento delle singole identità nazionali, che vengono perciò percepite come autonome, delimitate ed assolutamente sovrane all’interno dei propri confini; dall’altro lato, però, si delinea anche l’idea di un’identità comune europea che lascia fuori tutti i paesi extraeuropei, che diventano così legittimamente colonizzabili.
Assieme al principio della sovranità nazionale, la pace di Vestfalia porta con sé un’ulteriore conseguenza: porre fine all’idea di un’Europa unita sotto il sigillo della religione cristiana. Ancora nel secolo precedente, infatti, era diffusa l’idea di uno spazio europeo cristiano, tenuto insieme dalla professione di un’unica religione. Dal 1648, invece, si fa avanti il principio del cuius regio, eius et religio, principio che garantisce l’assoluta sovranità al principe anche in materia di religione. Le ragioni sono chiare: 1) evitare che motivazioni religiose possano diventare cause di nuovi conflitti; 2) impedire che il principio della sovranità nazionale venga eluso in nome di princìpi più alti. Così l’Europa, che prima si univa ed allo stesso tempo si scindeva sotto la bandiera della cristianità, adesso si ritrova ad essere pacificamente divisa al suo interno in singoli territori nazionali ed allo stesso tempo a fare fronte comune all’esterno, nei confronti dei paesi non europei. Con lo scopo di tutelare l’unità interna e la stabilità di ogni Stato, la pace di Vestfalia crea i presupposti per la messa in atto del principio della religione di Stato e, conseguentemente, della sovranità assoluta. Si tratta, in linea generale, del punto di inizio per la legittima assolutizzazione del potere, sia politico che religioso.

È in questo quadro che si inserisce la stesura della Lettera sulla tolleranza. Siamo in presenza di un principio che permette ad ogni regnante di imporre al proprio popolo la confessione religiosa da lui scelta e ritenuta più idonea o più “vera”. Il principio di non ingerenza tra le potenze europee conduce inevitabilmente al principio di ingerenza nei confronti delle vite dei singoli sudditi e, di fatto, ad un incremento del controllo statale. In questo modo, dal 1648 diventa possibile, in linea di principio, stabilire un forte equilibrio europeo capace di impedire nuovi e disastrosi conflitti.
Da quanto scritto, pertanto, si evince che ogni sovrano – ogni “magistrato” dirà Locke – ha adesso il potere di imporre all’intero suo popolo ogni verità da lui riconosciuta, attraverso mezzi coercitivi propri del potere statale. Diventa così legittimo e anzi doveroso, in vista di un più saldo mantenimento dello Stato, obbligare ogni suddito ad accettare e professare la religione che il suo governo sceglie per lui. 

I presupposti

Assolutismo monarchico, imposizioni e persecuzioni religiose: questo il quadro globale europeo che Locke osserva dalla sua residenza olandese. Ciò che si chiede ed a cui intende rispondere con questa lettera è se tutto ciò sia legittimo. È legittimo, ovvero, che un sovrano abbia un così immenso potere, tale da imporre la propria verità ad ogni suddito del suo regno? È legittimo che Stato e Chiesa, potere politico e religioso, siano gestiti da una persona sola, che può disporre di tutto e di tutti a proprio piacimento?
Per offrire una risposta adeguata a tali quesiti è necessario ricomporre per sommi capi il pensiero politico dell’autore attraverso un testo successivo alla Letterain questione, ma sicuramente più completo ed organico. Si tratta dell’opera intitolata Due trattati sul governo [1] del 1690, nella quale Locke offre al lettore una visione coerente e strutturata della propria riflessione politica. Il secondo trattato si rivela particolarmente utile per comprendere una questione che nella Lettera rimane sullo sfondo: quella, cioè, relativa al potere assoluto. Il primo punto da mettere in luce, infatti, è che ad essere categoricamente illegittimo secondo l’autore è lo stesso potere assoluto.
Nel secondo dei Due trattati sul governo, Locke tenta di immaginare e descrivere il cosiddetto “stato di natura”, cioè la condizione iniziale degli uomini sulla Terra (prima ancora che venisse costituito qualsiasi ordine politico), nel tentativo di comprenderne la natura originaria. Se guardiamo «in quale stato si trovino naturalmente gli uomini, scopriremo che questo è uno stato di libertà e perfetta uguaglianza» [2]. Il punto di partenza è proprio questo: gli uomini sono originariamente – e quindi costitutivamente – tutti liberi e uguali. La giustificazione di tale principio è insita nell’idea stessa di un Dio creatore che, con la creazione, ha dato vita ad un ordine naturale (la cosiddetta “legge di natura”) che governa il mondo e stabilisce le regole fondamentali della convivenza tra gli uomini. Tale legge di natura, che ogni uomo con sforzo ed impegno può conoscere, stabilisce secondo Locke, tra le altre cose, che tutti gli uomini sono e saranno uguali e liberi. Libertà è possibilità «di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro» [3]. Lo stato di uguaglianza, invece, è quello in cui «ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, nessuno avendone più di un altro» [4].

L’uguaglianza presuppone che vi sia uguale libertà per tutti; nessuno ha più potere di un altro, tutti sono egualmente liberi e, pertanto, ognuno ha un potere nei confronti delle proprie azioni e dei propri averi che gli altri non hanno. Essere uguali significa per Locke non dipendere da nessuno, non essere assoggettati a nessuno, poiché Dio ha creato gli uomini secondo il principio di uguaglianza e, perciò, non ha posto alcuno di essi al di sopra di altri. Ciò significa che non esiste un fondamento ontologico né teologico al potere di un uomo su un altro uomo; non esistono uomini che siano, per essenza, atti a comandare ed altri invece ad essere comandati. Tutti gli uomini sono liberi di disporre delle proprie azioni e dei propri averi, senza in ciò dipendere o essere assoggettati a qualcun altro: non c’è uomo sulla Terra che abbia un diritto naturale al potere sugli altri uomini.

I princìpi

Il potere assoluto risulta delegittimato in partenza. Secondo l’autore, non esiste né mai esisterà uomo capace di arrogarsi un potere tale da disporre liberamente e assolutamente della vita degli altri suoi simili: «I prìncipi nascono superiori agli altri uomini per potere, ma uguali ad essi per natura, né il diritto di governare o la perizia nell’arte di governo porta con sé una conoscenza certa delle altre cose, tanto meno della religione vera» (p. 24). Il governante, pertanto, non potrà far altro che legiferare con l’unico fine di tutelare e salvaguardare la proprietà di ogni singolo individuo posto sotto la propria giurisdizione. Se consideriamo tale principio come presupposto, allora ne seguirà che il potere politico non è in alcun modo legittimato a legiferare in materia di religione e, pertanto, ad imporre coercitivamente una credenza religiosa piuttosto che un’altra.

A tal proposito, nella Lettera sulla tolleranza Locke si inserisce nel cuore della questione seguendo un’altra prospettiva, definendo i termini del problema in modo alquanto precoce e perspicace: «Ma perché nessuno invochi la sollecitudine per lo Stato e l’osservanza delle leggi come pretesto per una persecuzione e una crudeltà poco cristiana e, reciprocamente, altri non pretendano, sotto il pretesto della religione, di poter praticare costumi licenziosi o che sia loro concessa l’impunità dei delitti, perché nessuno, dico, come suddito fedele del principe o come sincero credente, inganni sé o gli altri, io penso che prima di tutto si debba distinguere l’interesse della società civile e quello della religione, e che si debbano stabilire i giusti confini tra la Chiesa e lo Stato. Se non si fa questo, non si può risolvere nessun conflitto tra coloro che hanno effettivamente a cuore, o fanno finta di avere a cuore, la salvezza dell’anima o quella dello Stato» (p. 8).

Stato e Chiesa sono distinguibili e distinti e non devono in alcun modo essere confusi né lasciati alla gestione di un uomo solo. Essi hanno fini, mezzi e poteri diversi, che non possono e non devono essere confusi. Locke procede, pertanto, alla distinzione per definizione di entrambi. «Mi sembra che lo Stato sia una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili ecc.» (p. 8). I beni civili sono qui ciò che nei Due trattati sul governo verrà indicato con il termine “proprietà”: la vita, la libertà e gli averi di ciascun individuo. In tale definizione, pertanto, Locke specifica non soltanto cosa si intenda per Stato, ma anche per quale scopo esso è stato costituito e quale fine persegue. In definitiva, lo Stato è una comunità di uomini riunitisi sotto un unico potere centrale per la preservazione della proprietà (vita, libertà e averi). Lo spazio di legittimità del potere politico qui descritto è ben delimitato: l’unico suo fine è quello di promuovere e tutelare i “beni civili”, mentre il raggio di azione delle sue competenze è mirato alla salvaguardia della vita, della libertà e dei beni degli uomini. Il mezzo che tale potere impiega per la salvaguardia della proprietà è la forza: «Ma poiché nessuno si punisce spontaneamente privandosi neppure di una parte dei propri beni, tanto meno della libertà o della vita, il magistrato, per infliggere una pena a coloro che violano il diritto altrui, è armato con la forza, anzi con tutta la potenza dei suoi sudditi» (p. 9).

Tipica caratteristica del potere politico è dunque la forza: il magistrato ha non solo il compito, ma anche il dovere di punire coloro i quali non rispettano quelle leggi che tutelano gli interessi civili di tutti gli uomini. Stabilita la definizione di Stato, Locke giunge a definire il significato di Chiesa: «Mi sembra che una Chiesa sia una libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accettato alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima» (p. 11). Da questa definizione si evincono almeno quattro elementi caratterizzanti di una Chiesa: in primo luogo, essa è una società, e cioè un’aggregazione di individui accomunati da interessi comuni; in secondo luogo, tale società è volontaria, dal momento che i soggetti che ne fanno parte hanno la libertà di aggregarvisi o di abbandonarla in qualsiasi momento, poiché «nessuno nasce membro di una Chiesa, altrimenti la religione del padre e degli avi perverrebbe a ogni uomo per diritto ereditario, insieme con le proprietà, e ciascuno dovrebbe la propria fede ai propri natali: non si può pensare nulla più assurdo di questo»(p. 12); infine, la Chiesa è una società caratterizzata da pubblicità e libertà di culto, giacché gli uomini che ne fanno parte hanno il diritto di decidere liberamente i modi ed i tempi del proprio culto e di manifestarlo ed esercitarlo pubblicamente. Ne consegue, allora, che anche la Chiesa, come lo Stato, ha un ordine ben delineato, possiede leggi e regole da osservare scrupolosamente; difatti, «è necessario che anche la Chiesa abbia le sue leggi, per stabilire i tempi e i luoghi delle riunioni, le condizioni di accettazione e di esclusione e infine le differenze di cariche, l’ordine delle cose e così via» (p. 12). Però, dal momento che si tratta di una società volontaria, libera e spontanea, tale ordine dovrà essere stabilito dalla comunità stessa o da rappresentanti che la comunità ha scelto a questo fine. Infine, tali leggi devono avere come scopo ultimo quello di regolare la vita degli uomini per garantire alle loro anime la salvezza e la vita eterna.

Dalle definizioni fornite dall’autore, Stato e Chiesa sembrano avere molteplici punti in comune. Innanzitutto, ambedue sono delle società, delle aggregazioni di uomini costituitesi in vista di un unico fine; in secondo luogo, sono società libere, dove cioè la libertà del soggetto – entro il rigoroso rispetto delle regole stabilite – sta alla base della stessa comunità; in terzo luogo, in quanto società, vivono attraverso un ordine che stabilisce leggi uguali per ciascuno dei membri; infine, tali leggi hanno come fine ultimo la tutela e la salvaguardia della vita degli uomini. Ma è proprio a partire da quest’ultimo punto che le due società si dividono: mentre l’una tutela la vita esteriore dell’uomo, vale a dire le sue proprietà, l’altra si cura invece della vita interiore, della salvezza dell’anima e della vita eterna. Stato e Chiesa si dispiegano così come due ordinamenti paralleli e complementari, che lavorano insieme senza mai però sovrapporsi né confondersi.

Rimane ancora un punto da mettere in luce, quello relativo ai mezzi che la Chiesa possiede per far rispettare le proprie leggi. Se lo Stato ha la possibilità di punire con la forza quei trasgressori che arrecano danno alla vita, alla libertà o ai beni degli altri uomini, allo stesso modo la Chiesa avrà il potere di opporre la forza a quegli uomini che decidono di non rispettare le regole che tale società religiosa ha imposto? Locke lo nega categoricamente, adducendo come motivazione il fatto che «la religione vera e salutare consiste nella fede interna dell’anima, senza la quale nulla ha valore presso Dio» (p. 10). Non esiste coercizione capace di convincere la mente di un uomo né forza capace di assicurargli la vita eterna. Le punizioni coattive riescono ad ostacolare la capacità di azione esterna di un individuo, rivelandosi così particolarmente adatte a limitare la possibilità di arrecare danno agli altri; lo stesso certamente non può dirsi di ciò che impedisce il raggiungimento della salvezza nell’altra vita: se anche si impedisse ad un uomo di commettere azioni che minano la salvezza della sua anima, comunque non lo si potrebbe convincere di essere nel giusto né in questo modo gli si riserverebbe un posto in paradiso. Nel caso della Chiesa, afferma Locke: «le esortazioni, i moniti, i consigli sono le armi di questa società, quelle con le quali i suoi membri debbono essere mantenuti entro i limiti dei loro doveri. Se con l’uso di questi mezzi i trasgressori non si correggono e gli erranti non vengono ricondotti sul retto cammino, non resta altro che cacciare ed eliminare del tutto dalla società i riluttanti e gli ostinati, che non danno speranza di potere essere corretti» (p. 15). Detto in altro modo: nel caso in cui non si riesca a “correggere i trasgressori”, non rimane altro da fare che scomunicare ed allontanare. Scomunica ed allontanamento sono allora le sole forze estreme di cui le società religiose dispongono per tutelare il resto della comunità e la sua integrità; la Chiesa non può in alcun modo opporsi con la forza costringendo nessuno, non soltanto perché ciò esula dai suoi compiti, ma soprattutto perché tali strategie si rivelerebbero assolutamente inefficaci.

Da quanto detto, si evince chiaramente che Stato e Chiesa sono separati e divisi e che pertanto «la cura della salvezza dell’anima non può in alcun modo spettare al magistrato civile, perché, anche ammesso che l’autorità delle leggi e la forza delle pene sia efficace nella conversazione degli spiriti umani, tuttavia ciò non gioverebbe affatto alla salvezza delle anime» (p. 11). Il principio, sancito dalla pace di Vestfalia, del cuius regio, eius et religiorisulta in tal modo delegittimato a priori: primo, perché non rispetta la fondamentale libertà degli uomini; secondo, perché esula dai compiti e dai fini dello Stato; terzo, perché lo Stato non ha mezzi efficaci per attuarlo. Il principio di non ingerenza, sancito a livello internazionale nel 1648, viene trasposto da Locke nelle relazioni tra Stato e Chiesa che, distinte e separate, non possono e non devono scambiarsi ruoli, compiti e fini: così come il magistrato non può costringere un uomo a professare una determinata religione, allo stesso modo la Chiesa è delegittimata nei suoi propositi quando tenta di riportare un fedele sulla retta via con la forza.

La tolleranza. Riflessioni conclusive

Tutti gli uomini sono uguali e liberi, perché così ha voluto il creatore dell’universo. Non esiste uomo posto al di sopra degli altri né che possa pretendere di imporre la propria verità. La diversità tra gli uomini, le differenze nelle loro credenze soprattutto in materia di religione sono parte costitutiva della loro libertà che, appartenendogli per essenza, non può essere sottratta o ridotta per nessuna ragione. Per queste motivazioni, tali differenze devono essere tollerate, cioè rispettate e non perseguitate. «Non la differenza delle credenze, che non può essere evitata, ma il rifiuto della tolleranza, che poteva essere concessa, a quelli che nutrono credenze diverse, ha prodotto la maggior parte delle lotte e delle guerre, che nel mondo cristiano sono nate dalla religione» (p. 52). Locke sancisce il principio di non ingerenza tra Stato e Chiesa e tra uomo ed uomo: i confini che sulla carta geografica sancivano i limiti di uno Stato nazionale assolutamente sovrano, rappresentano qui i limiti tra società distinte, tra “la terra ed il cielo” (cfr. p. 18), limiti imposti dalla tolleranza, che tutelano la sovrana libertà di ciascun uomo. Se con la pace di Vestfalia si era tentato di creare una stabilità internazionale solida e duratura, con il principio della tolleranza Locke intende invece porre radicalmente fine alle lotte tra gli uomini, alla violenza in nome di verità assolute che pretendono di essere imposte con la forza: «E non potranno mai stabilirsi e sussistere tra gli uomini la sicurezza o la pace, tanto meno l’amicizia, se dovesse prevalere l’opinione che il dominio si fonda sulla grazia e che la religione deve essere diffusa con la forza e con le armi» (p. 19).

In conclusione, è possibile considerare la Lettera sulla tolleranza come uno scritto a favore della non violenza, un testo che crede nell’uguaglianza e nella libertà degli uomini e che fa di questi elementi la base per la costruzione di qualsiasi ordine di civile convivenza; è una lettera che confida nella forza intellettiva dell’uomo, nella sua “ragione naturale”, nello sforzo personale di raggiungere la verità. Una verità che non riguarda questa o quella confessione religiosa, questo o quel Dio; ma una verità universale, che induce a comprendere l’uguaglianza degli uomini, creature di Dio. «In conclusione noi chiediamo i diritti che sono concessi agli altri cittadini»(p. 49).



[1] J. Locke, Due trattati sul governo, ed. it. a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 2010.
[2 ]Ivi, p. 229 (II, 4).
[3] Ibidem (II, 4).
[4]Ibidem (II, 4).

Dottorando in Studi umanistici transculturali, Università degli Studi di Bergamo