La questione della tecnica

Martin Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1957, trad. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27.

L’autore

Senza dubbio la filosofia di Martin Heidegger rappresenta una delle stelle più luminose nel firmamento filosofico del Novecento, al punto da indurre moltissimi studiosi a sostenere che Essere e tempo (1927), il suo capolavoro teorico, rappresenti l’opera filosoficamente più importante dell’intero secolo. Tuttavia, pur volendo evitare affermazioni così nette, è indubbio che Heidegger sia stato uno dei pensatori più rilevanti nell’intera storia della filosofia contemporanea. Nato nel 1889 a Meßkirch (Germania), la sua vicenda biografica incrocia quelle di alcune fra le maggiori figure intellettuali nell’Europa del Novecento, nonché eventi storici di portata globale, come le due guerre mondiali e l’avvento del regime nazionalsocialista in Germania durante gli anni Trenta.

Il giovane Heidegger si forma studiando prima teologia e poi filosofia presso l’Università di Friburgo, ottenendo il dottorato nel 1913. Il nome dell’ateneo della città tedesca, in quell’epoca, è associato soprattutto a quello di Edmund Husserl, padre della fenomenologia contemporanea e figura di capitale importanza per la filosofia del XX secolo. Heidegger diviene suo assistente a partire dal 1919. Nei corsi universitari tenuti fra il 1919 e il 1921, le categorie della fenomenologia husserliana sono impiegate originalmente da Heidegger per compiere un’indagine su alcuni autori cruciali per la formazione del pensiero filosofico e religioso occidentale (soprattutto san Paolo, Agostino d’Ippona e la Mistica medioevale). Le trascrizioni e gli appunti di alcuni di questi corsi saranno pubblicati poi in volume con il titolo Fenomenologia della vita religiosa ([1995]; tr. it. Adelphi, Milano 2003). Su invito di Paul Natorp, che lo nomina professore straordinario, nel 1923 si trasferisce a Marburgo, dove resterà fino al 1928. I corsi e i seminari che tiene nell’ateneo della cittadina tedesca rappresentano il materiale preparatorio per il suo libro più importante, Essere e tempo ([1927]; tr. it. Longanesi, Milano 1970) che gli vale l’ottenimento della cattedra di Filosofia a Marburgo (nell’ottobre del 1927) e, più in generale, una fama filosofica di primissimo piano. In questo ponderoso saggio, Heidegger tenta di elaborare una definizione esaustiva della questione ontologica che, a suo avviso, a partire da Platone ha rappresentato il cuore pulsante e, al tempo stesso, il grande “rimosso” della metafisica occidentale. Obiettivo del filosofo tedesco è quello di mostrare come la struttura stessa dell’essere umano, che egli chiama «esserci» (Dasein), lo conduca a interrogare il problema fondamentale dell’essere. Nel 1928, grazie all’intercessione di Husserl che gli lascia la propria cattedra, Heidegger fa ritorno a Friburgo (tuttavia, nonostante ciò, i rapporti fra i due diverranno progressivamente più complicati, al punto che Heidegger non parteciperà nel 1940 ai funerali del più importante fra i suoi maestri) dove resterà fino al 1942. Ed è a questo periodo che risale una delle vicende biografiche più importanti che lo riguardano. Dopo la presa del potere da parte di Hitler nel 1933, infatti, Heidegger è nominato rettore dell’università di Friburgo, carica che ricoprirà dal 21 aprile 1933 al 27 aprile 1934. L’adesione politica e ideologica di Heidegger al nazismo e alla sua dottrina antisemita è un tema delicato e ancora oggi largamente dibattuto, anche in virtù della recente pubblicazione degli Schwarze Hefte (i cosiddetti Quaderni neri), diari privati che il filosofo ha tenuto dal 1931 al 1957 e dove è possibile leggere alcune riflessioni di capitale importanza per comprendere il suo rapporto con le vicende storiche che lo hanno riguardato.

Parallelamente agli eventi storici qui ricordati, gli anni Trenta rappresentano un momento molto rilevante anche sotto il profilo teorico. È in questo periodo, infatti, che la filosofia di Heidegger conosce un’importante svolta concettuale e stilistica che i suoi studiosi e i suoi commentatori sono soliti identificare con un termine utilizzato – seppur raramente – dallo stesso filosofo: la cosiddetta Kehre. Dopo la comparsa di Essere e tempo e alcuni testi coevi, fra cui la celebre trascrizione della conferenza intitolata Che cos’è metafisica? ([1929] tr. it. Adelphi, Milano 2001), il pensatore tedesco riplasma il proprio pensiero discostandosi progressivamente dalle categorie e dai concetti esistenzialistico-fenomenologici che lo avevano caratterizzato in precedenza, per fare spazio, invece, a un’impostazione e a un linguaggio maggiormente calibrati su temi e problemi di natura estetica. Sono soprattutto la poesia e il rapporto ch’essa intrattiene con la verità a interessare Heidegger a partire dagli anni Trenta, come testimoniato dai numerosi volumi e dai corsi universitari dedicati a Friedrich Hölderlin o al tema della lingua poetica – ad esempio, si vedano in merito le raccolte In cammino verso il linguaggio ([1985] tr. it. Mursia, Milano 1973) e La poesia di Hölderlin ([1981] tr. it. Adelphi, Milano 1988). Ed è proprio all’interno di questa svolta del pensiero heideggeriano che s’inscrive il saggio intitolato La questione della tecnica ([1953] tr. it. Mursia, Milano 1976). Altro tratto caratteristico della filosofia sviluppata da Heidegger in questo periodo è il rifiuto dell’umanismo, ch’egli ravvisa ancora all’opera, in qualche misura, in Essere e tempo e, più generalmente, nelle sue ricerche degli anni Venti. Com’è illustrato dalla famosa Lettera sull’“umanismo” ([1947], tr. it. Adelphi, Milano 1987), attraverso la quale Heidegger polemizza con Jean-Paul Sartre e, più in generale, con l’esistenzialismo francese, attribuendo un ruolo preminente alla volontà e alla soggettività l’umanismo oblia la «differenza ontologica» (espressione con cui è indicata la distinzione fra essere ed ente che domina la filosofia heideggeriana) e perpetua una posizione metafisica. Piuttosto, secondo il pensatore tedesco, l’uomo dovrebbe assumere il ruolo di «pastore dell’Essere» e prendersi «cura» della sua trascendenza nei confronti di ogni ente. D’altronde, per Heidegger assumere tale posizione significa pure riscattare la condizione dell’Esserci dai rischi connessi al predominio, nel mondo contemporaneo, della tecnica e della tecnologia. Heidegger scomparirà nel 1976 a Friburgo, lasciando in eredità ai posteri un denso corpus filosofico (la cui pubblicazione è ancora in corso) nonché una fra le filosofie più incisive del Secolo.

 

L’essenza della tecnica

La questione della tecnica è una conferenza pronunciata da Heidegger il 18 novembre 1953 presso l’Auditorium Maximum della Technische Hochschule di Monaco di Baviera, all’interno di un ciclo d’incontri organizzato dall’Accademia di Belle Arti. La prima pubblicazione del testo risale all’anno successivo (1954), nel terzo volume dell’annuario della stessa Accademia. Il medesimo scritto sarà poi inserito, nel 1957, come primo articolo, in un’importante raccolta di scritti heideggeriani intitolata Saggi e discorsi. Senza dubbio La questione della tecnica è uno dei testi brevi più letti, più citati e più discussi di Heidegger e, sebbene rappresenti il primo saggio esplicitamente dedicato dal filosofo tedesco al tema della tecnica, in esso confluiscono riflessioni e spunti che percorrono carsicamente tutta la sua opera – come, ad esempio, le pagine sull’utilizzabilità degli oggetti in Essere e tempo.

Sin dalle prime battute l’autore rivela l’intento principale che innerva il testo, ovvero l’impostazione di una ricerca sulla tecnica capace di oltrepassare quella ch’egli definisce la sua «definizione strumentale e antropologica della tecnica» (p. 5), ovvero l’idea secondo cui essa è «un mezzo e un’attività dell’uomo» (ibidem). Ciò che di questa definizione comune della tecnica non convince il filosofo è l’incapacità di porci in contatto con la sua essenza: per Heidegger, infatti, «l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico» (p. 5). In altre parole, non è nello studio dei fenomeni tecnici o della scienza moderna ch’è possibile rintracciarne la sua essenza, e per comprendere l’importanza che essa riveste nel mondo contemporaneo non è sufficiente additarla come mezzo per il raggiungimento di un fine.

Più fruttuoso, invece, è interrogarla a partire dalla costellazione semantica che la definisce e che le gravita attorno, fedele a quella Kehre linguistica della filosofia heideggeriana all’interno della quale s’inscrive appieno questo saggio. Così Heidegger passa in rassegna alcuni termini che sin dalla Grecia classica si accompagnano alla tecnica, per sondare le oscillazioni e i cambiamenti che hanno consentito la trasformazione della tecnica “classica” in tecnica moderna. In particolare, sono i concetti di ποίησιςe di τέχνη a essere inquadrati criticamente: il primo indica genericamente la produzione, mentre il secondo vale come una sua specificazione, riguardando il “saper fare” tanto artigianale quanto artistico.

Il perno dell’argomentazione heideggeriana risiede nel dimostrare che entrambi i termini, implicati nel processo produttivo, intrattengono pure un rapporto cruciale con l’atto di condurre qualcosa all’apparizione. Pertanto, la «pro-duzione» (questa la resa italiana della terminologia heideggeriana che sottolinea l’atto di portare innanzi qualcosa) è in una relazione fondamentale con l’ἀλήθεια, che in greco è letteralmente il “disvelamento” ma è utilizzato anche per indicare l’apparizione della verità. In tal senso, in quanto ποίησις la tecnica «non è semplicemente un mezzo» ma è (anche) un «modo del disvelamento» (p. 9). Per esempio, è un disvelamento la tecnica che governa il processo di fabbricazione di una nave, poiché porta all’apparizione qualcosa che prima non esisteva. Sotto questo profilo, tanto la tecnica classica quanto quella moderna condividono, nella propria essenza, un rapporto con la verità poiché entrambe sono modalità del disvelamento.

Tuttavia, quel che accade con l’avvento della tecnica moderna consiste nella trasformazione della modalità propria di questo disvelamento e, dunque, dell’essenza che le è propria. Mentre, come abbiamo visto, la tecnica classica ha soprattutto una funzione produttiva, quella moderna si definisce, invece, per la propria funzione provocativa: più che produrre, la tecnica moderna provoca, «ha il carattere del “richiedere” nel senso della pro-vocazione» (p. 12). La prestazione precipua di tale provocazione consiste nel disvelare le forze che abitano la natura per lavorarle, trasformarle, immagazzinarle: «l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni» (ibidem).

La tecnica moderna dunque ci pone di fronte a un ciclo continuo in cui il mondo naturale non appare più come un insieme di oggetti (Gegenstand) che stanno di fronte al soggetto, bensì come un «fondo» (Bestand). Attraverso questo termine Heidegger intende sottolineare il mutamento radicale che investe il rapporto fra l’uomo e il mondo a partire dall’avvento della tecnica moderna dacché il disvelamento che opera in quest’ultima configura l’orizzonte dell’operare umano nel segno dell’impiego (Bestellen). Lungi dal figurare come un semplice oggetto che ci sta di fronte, i prodotti della tecnica moderna richiedono e delineano un orizzonte che li renda impiegabili, orizzonte che investe, in fin dei conti, l’intero mondo.

Per afferrare l’essenza della tecnica moderna occorre muovere un passo ulteriore. Tutto quel che abbiamo osservato sin ora, infatti, trova per Heidegger compimento nella categoria di «imposizione», resa italiana del tedesco Gestell (che letteralmente indica lo “scaffale” o la “intelaiatura” ma che può voler dire anche il “fermare qualcuno per chiedergli conto di qualcosa”). Interrogandosi circa il ruolo del soggetto all’interno del disvelamento che avviene nella tecnica moderna – che, lo ribadiamo, disvela il mondo come un “fondo” di energie lavorabili – Heidegger sottolinea la posizione ambivalente occupata dall’uomo. Questi non è semplice l’attore volontario della manipolazione della natura, ma è anche “chiamato” a impiegare la natura come “fondo” da un appello. Il nome di questo appello è appunto Gestell (im-posizione), il quale indica l’essenza non-tecnica della tecnica moderna: «Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell’essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico» (p. 15). La nozione di Gestell, dunque, manifesta ciò che costituisce il nucleo centrale della tecnica moderna, la sua essenza. Ovvero l’appello ch’essa rivolge all’uomo di impiegare il mondo alla stregua di un “fondo” di energie da lavorare, trasformare, immagazzinare.

 

«Là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva»

L’intera riflessione sul tema della tecnica, sulla quale Heidegger ritornerà poi in altre occasioni, è percorsa dall’intento di approcciare criticamente le trasformazioni e le evoluzioni del mondo scientifico e sociale contemporaneo, sottraendole ad alcune interpretazioni errate, frettolose o poco accorte. Una di queste, lo abbiamo visto, coincide con l’interpretazione della tecnica alla stregua di un semplice mezzo per l’ottenimento di un fine: la tecnica nasconde e disvela qualcosa di più profondo, di cui testimoniano le trasformazioni del mondo contemporaneo. Il filosofo prende come esempio la differenza che passa fra l’espressione “il Reno”, riferita all’oggetto rappresentato da un’opera d’arte, e la medesima espressione utilizzata per indicare, invece, il «fiume incorporato nella centrale» (p. 12) energetica. In quest’ultima circostanza, l’oggetto in sé scompare per lasciare spazio soltanto al suo carattere «impiegabile», che si rivela, ad esempio, nelle «escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su una industria delle vacanze» (ibidem).

La lettura heideggeriana, inoltre, è attenta a puntualizzare il rapporto che questa modalità del disvelamento, implicata dall’essenza della tecnica moderna, intrattiene con le scienze, indagando brevemente anche il rapporto fra progresso tecnico e progresso scientifico. Secondo il filosofo tedesco bisogna rilevare, innanzitutto, come essi siano mutualmente implicati. Vale a dire che non vige fra di essi un rapporto di causalità esclusiva dell’uno rispetto all’altro: il progresso tecnico e quello scientifico hanno interagito suscitandosi vicendevolmente, dal momento che ciascuno ha bisogno dell’altro per avanzare e progredire. Ma, soprattutto, occorre sottolineare come entrambi siano resi possibili proprio dall’essenza della tecnica moderna. Per affrontare quest’aspetto Heidegger pone in tensione due termini la storiografia (Historia rerum gestarum, o Historie in tedesco) e la storia (res gestae, o Geschichte). Infatti, seppur storiograficamente siamo soliti ammettere che la fisica moderna abbia reso possibile la tecnica e le sue applicazioni contemporanee, storicamente le cose sono andate all’opposto: «quello che è posteriore per l’osservazione storiografica, cioè la tecnica moderna, è in realtà, rispetto all’essenza che in essa vige, ciò che viene storicamente prima» (p. 17). Ciò accade perché, secondo il pensatore, all’uomo «l’origine principale», la vera scaturigine degli eventi, «si mostra solo da ultimo» (p. 16).

Partendo sempre dal presupposto che per Heidegger «l’essenza della tecnica risiede nell’im-posizione» (p. 19), un altro aspetto fondamentale da considerare è il «destino» verso il quale conduce questo modo del disvelamento in cui il reale è inquadrato dall’uomo come fondo da impiegare. Da quanto emerso sin ora, infatti, sembra che l’essere umano sia inesorabilmente condannato a «perseguire e coltivare soltanto ciò che si disvela nell’impiegare, prendendo da questo tutte le sue misure» (ibidem). In altri termini, Heidegger condivide la preoccupazione che l’essenza della tecnica governi e disponga il rapporto dell’essere umano col reale esclusivamente nei termini di uno sfruttamento del secondo da parte del primo. In tal senso, l’uomo sembra esposto non a un pericolo, ma al «pericolo supremo», che si declina in una duplice maniera. Da una parte l’uomo rischia di divenire esso stesso «fondo» impiegabile, al pari del resto del reale; dall’altra, proprio in questa imposizione generalizzata che giunge a lambire anche la sua stessa essenza, l’uomo s’illude fino a vestirsi «orgogliosamente della figura di signore della terra» (p. 21). Questa minaccia non proviene «dalle macchine e dagli apparati tecnici», bensì dall’essenza stessa della tecnica, per il fatto che «là dove si dispiega e domina l’im-posizione, ogni disvelamento è improntato nel segno della direzione e della assicurazione di “fondo”» (ibidem).

Eppure, richiamandosi ai versi di Friedrich Hölderlin, Heidegger rileva un’opportunità di salvezza per l’uomo: «Ma là dove c’è il pericolo, cresce / Anche ciò che salva». Secondo il filosofo, infatti, in questa minaccia totalizzante dispiegata dall’essenza della tecnica moderna, balugina pure la possibilità di comprendere, al contrario, il meccanismo al quale si rischia di rimanere assoggettati. Il pericolo supremo coabita con la salvezza e il riscatto: chi è in grado di affrontare e riflettere a pieno sul senso della tecnica comprende il dominio dell’impiego e diviene consapevole custode «dell’essenza della verità» (p. 25). È pur vero che, a tal riguardo, Heidegger sembrerà sempre piuttosto laconico, e lungi dall’esplorare con maggiore precisione le forme che questa salvezza è possibile d’assumere, si limiterà perlopiù a rilevarne la cogenza e la necessità.

Sulla condizione necessaria per l’accoglimento e il raggiungimento di questa salvezza, invece, il filosofo tedesco si profonde maggiormente, non stancandosi di ripetere che essa coincide con la capacità di cogliere «nella tecnica ciò che ne costituisce l’essere, invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche», poiché fin quando «pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla» (ibidem). Riflettere sull’essenza della tecnica, comprendere il peculiare disvelamento ch’essa c’illustra e c’indica, cogliere in esso la dinamica di velamento e disvelamento «in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità» (ibidem): sono questi i compiti principali indicati da Heidegger per lo zoon technikon.

L’arte sembra rappresentare uno degli ambiti privilegiati per compiere un simile confronto con l’essenza della tecnica, dal momento che essa le è, per un verso, sommamente affine (Heidegger riallaccia qui la “poetica” alla ποίησις, che abbiamo già menzionato e che in greco, abbiamo visto, significa “produzione”), per l’altro, lontana e distinta (dacché l’arte è una delle attività umane che meno si rapporta al reale nei termini dell’impiegabilità). Per questo motivo, se la «meditazione dell’artista […] non si chiude davanti alla costellazione della verità» sull’essenza della tecnica, allora «quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva» (p. 27).

 

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Claudio D’Aurizio
Dottore di ricerca in Filosofia, Università della Calabria