I. Kant, Kritik der Praktischen Vernunft, Riga, Hartknoch 1788.
Trad. It. Vittorio Mathieu, Critica della Ragion Pratica, Milano, Bompiani 2004.
La filosofia pratica di Kant
Nella Critica della Ragion Pura, Kant scriveva che l’interesse della sua ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si concentrava su tre domande: «che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa ho diritto di sperare?».
Con la prima Critica Kant risponde al primo interrogativo. Operando la famosa “rivoluzione copernicana” e rovesciando la prospettiva osservativa, delimita in maniera rigorosa i limiti dell’attività conoscitiva. L’ambito della conoscenza umana afferisce esclusivamente il fenomeno (dal greco phainòmenon), ossia la realtà di come le cose ci appaiono. Kant introduce quindi il concetto di “noumeno” (dal greco noùmenon, “cosa in sé”). Esso è il modo in cui il pensiero cerca di rappresentare ciò che va oltre la sua capacità di conoscere, è quindi un concetto-limite, che risiede nella mente umana, è un’idea della ragione (ambito della metafisica).
La Critica della Ragion Pratica vuole dare risposta al secondo interrogativo e, insieme alla Fondazione della Metafisica dei costumi, è l’opera di riferimento della filosofia morale di Kant, nella quale egli riprenderà il concetto di noumeno quale postulato dell’azione virtuosa.
Kant aveva tenuto lezioni di filosofia pratica (ethica) presso l’università di Königsberg dal semestre invernale 1756-57. Sin da allora le tematiche affrontate sembrano avere per lui un interesse pari a quello rivestito dalla filosofia teoretica. Le dottrine morali di riferimento per Kant sono quelle di Christian Wolff (“promuovere la perfezione totale”), di August Crusius (“agire in conformità del volere di Dio”) e di Francis Hutcheson (“teoria del sentimento morale”). Nell’attenzione per il razionale e il sensibile si trova la duplice esigenza kantiana di trovare un principio assoluto, fondamento dell’obbligo morale e di comprendere la specificità dell’ambito pratico rispetto a quello conoscitivo. Secondo il filosofo, i concetti della filosofia pratica sono in una situazione di maggiore incertezza rispetto a quelli della “filosofia speculativa”. Il problema essenziale del principio della moralità viene formulato da Kant già attorno al 1772: come può essere concepito un dovere incondizionato? La ragione umana può definire cosa sia il bene e determinare la volontà in base ad esso?
Nella conclusione alla seconda Critica il filosofo scrive: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose non ho da cercarle fuori della portata della mia vista, avvolte in oscurità, e nel trascendente; né devo, semplicemente, presumerle: le vedo davanti a me, e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza». (p. 341) Appare chiaro come, secondo Kant, esista in ciascun uomo, naturalmente, una legge morale a priori, che non dipende dall’esperienza e da essa non può essere desunta. Essa indica a ciascuno la forma del dovere. Su questo assunto egli fonda la sua filosofia pratica.
Il progetto di scrivere una “critica della ragione pratica” va collocato probabilmente nel periodo appena precedente la pubblicazione dell’opera (entrata in circolazione nei primi giorni del 1788). Kant ritiene che la ragione serva a dirigere non solo la conoscenza, ma anche l’azione. Secondo il filosofo, la ragione determina la volontà ad agire secondo principi empirici (pratico-formali) che garantiscono validità universale alla nostra volontà. Accanto all’uso teoretico della ragione ce n’è uno pratico. La ragion pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura (quando opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità) perché in questa essa si comporta in modo perfettamente legittimo, obbedendo ad una legge universale. Nella seconda critica Kant esamina invece le pretese della ragion pratica di restare legata sempre e solo all’esperienza. Egli non ha il proposito di “dire alcunché di nuovo”, ma di “esprimere solo tutto ciò che gli altri già sanno, salvo il precisarlo e l’inquadrarlo in un insieme coerente”. (p. XIII) La ragion pura pratica viene quindi illustrata nelle sue strutture e funzioni ma anche nei suoi limiti (va preservata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l’attività di un essere infinito).
Contenuto e struttura dell'opera
La seconda Critica, affronta la tensione rilevante nel pensiero pratico di Kant: la filosofia morale non può non essere in qualche modo trascendentale se deve fondare la validità apodittica di leggi pure della ragione, ma non può esserlo se queste leggi devono in ogni caso riferirsi all’empirico. L’universo del noumeno, estraneo alla prima Critica, diviene così la condizione dell’impegno morale. Se l’uomo fosse solo pura sensibilità, le sue azioni sarebbero dominate dagli impulsi del desiderio e obbedirebbero a massime puramente soggettive; e se fosse solo pura ragione agirebbe solo mosso da una “volontà santa” incapace di farlo agire contro la legge morale.
Per la prima Critica, la causalità naturale si determina sempre solo in virtù di una causa precedente, l’agente è legato a catene causali. Noi saremmo liberi come cose in sé, come noumeni, cioè, non come oggetti della sensibilità, ma come esseri intellegibili. La coscienza morale ci rivela che abbiamo il dovere di pensarci liberi, rivolgendosi a noi come ad esseri capaci di determinare incondizionatamente la nostra volontà. Nell’opera si legge: «Dovere, nome grande e sublime, che non contieni nulla che lusinghi il piacere, ma esigi sottomissione; né, per muovere la volontà, minacci nulla che susciti nell’animo ripugnanza o spavento, ma presenti unicamente una legge, che trova da se stessa accesso all’animo, […] qual è l’origine degna di te […]? Non può essere nulla di meno di ciò che innalza l’uomo al di sopra di se stesso (come parte del mondo sensibile): di ciò che lo lega a un ordine di cose che solo l’intelletto può pensare, e che al tempo stesso ha sotto di sé l’intero mondo sensibile e, con esso, l’esistenza empiricamente determinabile dell’uomo nel tempo, e l’insieme di tutti i fini. […] Non è nient’altro che la personalità – cioè la libertà e l’indipendenza dal meccanismo della natura –, considerata al tempo stesso come la facoltà di un essere sottoposto a leggi pure pratiche, a lui proprie, dategli dalla sua stessa ragione». (pp. 183-185)
La libertà è il primo presupposto (postulato) della vita etica, è la ratio essendi della legge morale, e quest’ultima è la ratio conoscendi della libertà. «La libertà è la sola, tra tutte le idee della ragione speculativa, di cui sappiamo a priori che è possibile pur senza sapere come sia fatta: perché essa è la condizione della legge morale che noi conosciamo». (p. 5) La morale è ab-soluta, cioè sciolta dai condizionamenti istintuali non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad essi. È la bidimensionalità dell’essere umano a far sì che l’agire morale si concretizzi in una lotta permanente tra la ragione e gli impulsi egoistici. La forza evidente di desideri e impulsi non può essere considerata un movente morale (l’etica deve avere valore universale).
L’assunto kantiano è quindi che esista scolpita nell’uomo una legge morale a priori. Tale legge non va dedotta, va constatata, è un fatto della ragion pura. «La legge morale ci è data come un fatto della ragion pura, di cui siamo coscienti a priori, e che è apoditticamente certo. […] La realtà oggettiva della legge morale non può, dunque, essere dimostrata con nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragione teoretica, speculativamente o empiricamente appoggiata. […] Quella realtà sussiste saldamente per se stessa». (p. 97) Questa legge morale non ci dice che cosa dobbiamo fare ma come dobbiamo farlo. Sta poi ad ogni singolo individuo il compito di tradurre in concreto, nell’ambito delle varie situazioni esistenziali, sociali e storiche, la parola della legge. La morale kantiana ha quindi carattere antiutilitaristico e rigoristico. Nemmeno la felicità, che pure è innegabilmente uno dei principali motivi dell’azione dell’uomo, può costituire il fine del dovere. La moralità consiste nel puro dovere-per-il-dovere. L’essenza dell’imperativo morale (imperativo categorico) è che l’uomo debba operare in modo che la massima della sua volontà possa valere come principio di una legislazione universale. È necessario considerare gli altri come fini e non come mezzi. La morale kantiana non prescrive dei contenuti ma delle “forme pure” dell’agire secondo dovere. Questa moralità si oppone alla “santità”, che è propria soltanto di Dio.
«La congiunzione della causalità come libertà con la causalità come meccanismo naturale – la prima assicurata dalla legge morale, la seconda dalla legge di natura, e precisamente in un medesimo soggetto, l’uomo – è impossibile, se l’uomo stesso non è rappresentato in rapporto alla prima come un essere in sé, e in rapporto alla seconda come fenomeno: quello nella coscienza pura, questo nell’empirica. Senza di ciò la contraddizione della ragione con se stessa sarebbe inevitabile». (p. 9)
Il risultato dell’analisi della conoscenza morale comune è che gli esseri razionali sono in grado di pensare un dovere assoluto e agire in base ad esso. La morale di Kant definisce l’essere razionale (uomo) come indipendente rispetto al mondo, libero giudice di esso e attivo rispetto ad esso.
Analogamente alla Critica della Ragion Pura, anche la Critica della Ragion Pratica si divide in due parti fondamentali: la dottrina degli elementi e la dottrina del metodo. La prima tratta degli elementi della morale e si divide in analitica (esposizione della regola della verità etica) e dialettica (antinomia legata all’idea di sommo bene). La seconda tratta del modo in cui le leggi morali possono accedere all’animo umano ovvero del modo di “rendere anche soggettivamente pratica la ragione oggettivamente pratica".
La Critica della Ragion Pratica ha anche il compito di mostrare, a coloro che avevano visto nella prima Critica una semplice negazione della possibilità di pensare i concetti soprasensibili, che essi hanno piena legittimità dal punto di vista pratico. Vale a dire, è possibile scorgere l’unità della ragione pura teoretica e pratica attraverso la possibilità di pensare, dal punto di vista pratico, il soprasensibile.
E’ nell’universo della moralità, in cui afferma la propria libertà, che l’uomo ritrova l’idea di Dio a cui la ragione lo chiama ma di cui l’intelletto non poteva dare dimostrazione: la moralità chiama ad un progresso infinito che non sarebbe possibile senza ammettere l’immortalità dell’anima, l’esistenza del mondo come dominio della libertà umana e Dio come garanzia dell’unione finale tra virtù e felicità. Come le idee della ragion pura erano condizioni del progresso conoscitivo, così i postulati della ragion pratica sono le condizioni dell’impegno morale e dell’infinito perfezionamento umano. La morale kantiana porta ad un atto di fede razionale che non è conoscenza intellettuale ma è comunque fondato a priori.
Si può davvero agire moralmente nel mondo in mancanza di un senso complessivo (sommo bene) di questo agire? Quella di Kant è una morale non fondata teologicamente, in cui la ragione, autonomamente, definisce i suoi principi morali e attribuisce loro statuto di leggi provenienti da Dio. La fede razionale nel sommo bene originario fornisce la speranza di partecipare un giorno alla felicità nella misura in cui avremo procurato di non esserne indegni. L’essere razionale finito è parte del mondo (della natura), è necessario postulare “l’esistenza di una causa di tutta la natura, differente dalla natura, la quale contenga il principio di questa connessione”. È necessario pensare un sommo bene originario, Dio, la cui realtà va postulata come condizione della possibilità del sommo bene derivato del mondo.
Kant espone la sostanziale coincidenza tra cristianesimo e principi della ragion pura pratica, interpretando il cristianesimo come una dottrina morale dell’autonomia, che contiene la coordinazione tra virtù e felicità. Per questo egli si riferisce a tale religione come a quella che consente di conoscere tutti i doveri in forma di comandamenti divini e non come sanzioni. Leggiamo nella seconda Critica: «Senza timore di apparire bigotti, si può dire con piena verità della morale del Vangelo, che essa, in primo luogo grazie alla purezza del principio morale, ma inoltre anche adeguandolo ai limiti degli esseri finiti, ha assoggettato ogni comportamento buono dell’uomo alla disciplina di un dovere postogli davanti agli occhi […]». (p. 183)
Bibliografia
F. Gonnelli, Guida alla lettura della Critica della Ragion Pratica di Kant, Laterza, Bari 2004
L. Goldmann, Introduzione a Kant, Mondadori, Milano 1975
A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Bari 2002
I. Kant, Critica della Ragion Pura, Laterza, Bari 1966
I.Kant, Fondazione della Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari 2003
I. Kant, La Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari 1970