Introduzione
L’Etica di Baruch Spinoza è tra le opere più significative della storia della filosofia occidentale. Il suo obiettivo è l’elaborazione di una dottrina – metafisica, gnoseologica, psicologica, etica e teologica – che si propone di liberare gli uomini dalle passioni. Suddiviso in cinque parti, il testo rappresenta forse il tentativo più ambizioso di applicare il metodo geometrico di Euclide alla filosofia (da cui il sottotitolo: dimostrata secondo l’ordine geometrico): da un ristretto numero di definizioni vengono ricavate infatti centinaia di dimostrazioni che trattano di Dio, della mente o della morale.
Genesi e struttura dell’opera
Spinoza respira il clima dell’Olanda del XVII secolo, luogo in cui Cartesio si era trasferito per redigere il suo Discorso sul metodo e dove la filosofia cartesiana aveva iniziato a diffondersi, suscitando i primi dibattiti. Potenza economica e culturale di primo piano, l’Olanda attraversa a quell’epoca anche momenti di crisi, tra cui i contrasti con la Spagna, la bolla speculativa dei tulipani e le epidemie di peste. In questo contesto, Spinoza viene espulso dalla comunità ebraica nel 1656 a causa delle sue idee filosofiche eterodosse.
Prima dell’Etica, egli redige un Trattato sull’emendazione dell’intelletto (1656-57), in cui si propone di individuare, secondo il metodo cartesiano, il sommo bene – un “bene vero e partecipabile” –per consentire alla maggior parte delle persone di perseguirlo. Spinoza distingue tra quattro forme di conoscenza: la conoscenza mediata da altri (per sentito dire); l’esperienza vaga e casuale; la conoscenza deduttiva razionale; infine, la conoscenza intuitiva. Il raggiungimento del sommo bene è possibile unicamente tramite la conoscenza intuitiva. Sia l’aspirazione a una rigenerazione morale dell’umanità sia la classificazione delle modalità di conoscenza saranno poi presenti anche nell’Etica. Nel Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene (1660-61) si trova invece una prima esposizione organica del sistema filosofico spinoziano, in cui si sostiene una tesi radicale: Dio e la natura coincidono, e tutto avviene secondo necessità.
Nel 1662, Spinoza compone una prima versione dell’Etica, con una scansione in tre parti. L’opera viene poi ampliata e completata tra il 1670 e il 1675, raggiungendo la struttura definitiva in cinque parti. Benché rimanga inedito durante la vita dell’autore, il testo circola tra amici e intellettuali fino alla pubblicazione postuma nel 1677, lo stesso anno della morte dell’autore, in latino e neerlandese. Le parti di cui si compone sono dedicate rispettivamente alla metafisica (1), alla teoria della conoscenza (2), alla psicologia e alle passioni (3), alla morale (4 e 5). L’opera è strutturata in: definizioni, che chiariscono i termini fondamentali; assiomi, che enunciano principi autoevidenti; proposizioni, dimostrate a partire dalle definizioni e dagli assiomi. A quest’ultime si aggiungono corollari e scolii, dove si approfondiscono le tesi argomentate e si confutano quelle degli avversari. L’impianto razionalistico del progetto di Spinoza è emblematico di un secolo “che ha massimamente esaltato il potere della ragione umana ed esteso gli ambiti ai quali essa può applicarsi”[1].
La metafisica
La grande originalità dell’Etica risiede nel ricavare conclusioni dirompenti a partire da definizioni concettuali largamente condivise e tradizionali. Nella prima parte vengono esplicitati i concetti centrali di tutto il sistema – Dio, sostanza, attributo, modo, libertà, eternità, causa – e già emergono rotture significative con la tradizione filosofico-teologica occidentale. A partire dalla definizione di sostanza come “ciò che è in sé e per sé si concepisce” (I, def. 3), Spinoza argomenta che esiste un’unica sostanza, che egli chiama Dio. Ciò implica che nell’universo non ci sia spazio per qualcosa che non sia in Dio, che è dunque una sostanza infinita. Tutto ciò che esiste, cioè la natura, è pertanto una sua modificazione. Emerge qui la prima tesi sovversiva, che vale a Spinoza l’accusa di ateismo: il suo Dio non è quello delle religioni monoteiste, bensì una realtà immanente, infinita, necessaria. È il cosiddetto panteismo di Spinoza, altrimenti interpretato anche come panenteismo, in quanto – scrive Spinoza – “tutto ciò che è, è in Dio” (I, prop. 15).
Tale sostanza, per Spinoza, è causa di sé, ovvero la sua natura non può essere pensata se non come esistente, e libera. In questo quadro, la libertà non è libero arbitrio, non è il contrario della necessità: è libero ciò che esiste e agisce da sé, ovvero solo la sostanza, mentre tutto il resto è determinato da altro. La necessità è quindi una coazione esterna ad agire o a essere. Quello di Spinoza è un mondo pienamente deterministico, in cui governa la legge della causalità e non c’è spazio per la contingenza. In esso, Dio è causa efficiente e necessaria di tutto ciò che esiste, l’unico ente libero in quanto non determinato da altro bensì unicamente dalla propria natura a esistere e operare (I, prop. 17).
Diversamente da Cartesio, che aveva postulato l’esistenza di due sostanze distinte (pensiero ed estensione), Spinoza dimostra l’unicità della sostanza, la quale è costituita da attributi che ne esprimono l’essenza e sono pertanto eterni al pari della sostanza (I, prop. 19). I suoi attributi non sono quelli che la tradizione giudaico-cristiana attribuisce a Dio – immensità, onnipotenza, bontà… – ma sono infiniti, anche se noi ne conosciamo solo due: pensiero ed estensione. A differenza che in Cartesio, è Dio – e non l’individuo – a essere dunque res cogitans e res extensa (II, prop. 1 e 2). Insieme, sostanza e attributi costituiscono la natura naturante. Se Dio coincide con la natura e la natura è divina, per natura naturante si intende la natura dal punto di vista dinamico e generativo, nel divenire della sua perfezione, mentre l’espressione natura naturata rimanda alla natura come risultato compiuto della processualità immanente (I, prop. 29, scolio).
Gli attributi si manifestano attraverso quelli che Spinoza definisce i modi infiniti ed eterni, come intelletto e movimento, e i modi finiti, ossia gli enti fisici e le idee, la cui dimensione propria è la durata. In quest’ottica, tra gli attributi della sostanza deve esserci anche l’estensione, altrimenti non sarebbe possibile spiegare l’esistenza dei corpi (modi finiti): le cose esistono perché la sostanza possiede l’attributo dell’estensione, e allo stesso modo i pensieri esistono perché essa ha l’attributo del pensiero. L’universo è caratterizzato quindi da una duplice dimensione, “quella parziale e limitata dell’esperienza sensibile, nella quale la durata, attraverso la misura temporale, è tradotta in una quantità determinata – un anno, un giorno –, e quella eterna, nella quale gli eventi sono concepiti come conseguenza della natura divina senza far riferimento al tempo”[2].
Secondo Spinoza, la tradizione teologica ebraico-cristiana sarebbe macchiata da un errore fondamentale, ovvero da un pregiudizio finalistico radicato nella mente degli uomini:
gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose della natura agiscano, come essi stessi, in vista d’un fine, e anzi ammettono come cosa certa che Dio stesso diriga tutto verso un fine determinato: dicono, infatti, che Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo, e ha fatto l’uomo affinché lo adorasse (I, appendice).
A un Dio trascendente, antropomorfo, buono e provvidente, Spinoza contrappone dunque un Dio immanente a cui non competono valori morali: bene e male non esistono in natura. Una concezione che risente in maniera evidente della rivoluzione scientifica a lui coeva, che aveva scardinato l’antropocentrismo rinascimentale.
La mente, il corpo, la conoscenza
A uno dei modi della sostanza è dedicata la seconda parte dell’opera, che si concentra sulla mente e sugli aspetti cognitivi della conoscenza. Non si tratta tanto di una psicologia nel senso moderno, quanto piuttosto di una gnoseologia, cioè una teoria della conoscenza, inquadrata all’interno di una metafisica rigorosamente determinista.
Per definire la mente, Spinoza parte dalla constatazione che ogni corpo è un aggregato di altri corpi più semplici, che nel loro insieme formano un individuo (II, ass. 2, def.). Il corpo è un modo dell’estensione, ossia un modo della sostanza considerata sotto l’attributo dell’estensione: nei termini di Spinoza, “un modo che esprime in una maniera certa e determinata l’essenza di Dio, in quanto è considerata come una cosa estesa” (II, def. 1). Analogamente, la mente è un modo della sostanza considerata sotto l’attributo del pensiero. Essa è una struttura composta da una molteplicità di idee corrispondenti alla molteplicità delle parti del corpo. Ogni idea riferita a una parte del corpo può a sua volta contenere altre idee, generando una rete complessa e articolata. Ciò che percepiamo non sono i corpi esterni in sé, ma le modificazioni che questi producono nel nostro corpo. Spinoza sottolinea così che è inevitabile conoscere tramite le affezioni del corpo. Anzi, senza di esse non potremmo nemmeno conoscere il nostro stesso corpo.
La mente è idea del corpo umano perché essa è un modo finito dell’infinito attributo del pensiero, quindi è l’idea che, in Dio, rappresenta il corpo umano. Nello stesso tempo, la mente umana ha idea del proprio corpo e degli altri corpi, ossia li percepisce e li conosce[3].
Spinoza nega tuttavia un rapporto causale diretto tra corpo e mente, in quanto essi appartengono a due ordini differenti (pensiero ed estensione), e la causalità è ammessa solo all’interno di uno stesso ordine. Vi è piuttosto corrispondenza tra mente e corpo, in quanto modi della stessa sostanza, espressa attraverso due attributi diversi. Questa impostazione comporta una negazione radicale del dualismo cartesiano: non c’è subordinazione del corpo alla mente o viceversa. Mente e corpo percorrono un binario parallelo: esiste in verità “un solo e medesimo ordine, o una sola e medesima connessione di cause” (II, prop. 7, scolio). In questa prospettiva meccanicistica, ciò implica che non ci sia alcuna volontà assoluta o libera della mente, che è invece “determinata a volere questo o quello da una causa” (II, prop. 48). Non si dà una facoltà del volere, bensì solo singole volizioni determinate da altro. Concludendo la seconda parte, Spinoza afferma pertanto che “noi agiamo per il solo volere di Dio” (II, prop. 49, scolio) – cioè secondo le leggi della natura.
Spinoza distingue a questo punto tra idee adeguate e inadeguate, dove le prime permettono di dedurre le proprietà dell’oggetto che rappresentano, ovvero ne definiscono l’essenza, e le seconde, al contrario, non consentono la conoscenza dell’essenza di ciò che rappresentano. Le idee adeguate sono vere, in quanto corrispondono al loro oggetto (II, prop. 34). Le idee inadeguate sono proprie del primo stadio della conoscenza, quella immaginativa, fondata sulle percezioni sensibili e per questo falsa, “confusa e mutilata” (II, prop. 29, corol.). Oltre che a quelle inadeguate, la mente umana può però accedere anche a idee adeguate, attraverso la ragione e l’intelletto. La ragione consente di ottenere una conoscenza universale, espressa dalle proprietà comuni a tutti gli enti, sia fisiche (estensione e movimento) che logiche (gli assiomi della geometria, ad esempio). Ci sono cioè “idee o nozioni comuni a tutti gli uomini” (II, prop. 38, corol.). Il terzo genere di conoscenza, quello che Spinoza definisce “scienza intuitiva”, ha carattere immediato e concerne l’essenza delle cose (II, prop. 40, scolio 2). L’immaginazione concepisce le cose come contingenti, mentre dal punto di vista della ragione sono necessarie ed eterne. Dal punto di vista sensoriale, la realtà ci appare infatti frammentaria e contingente: ogni esistenza è finita, soggetta alla durata e al mutamento. Al contrario, al livello della conoscenza adeguata, cioè dell’intera catena causale (Spinoza parla di una conoscenza “sotto una specie di eternità”), ogni realtà, anche la più effimera, partecipa dell’eternità, in quanto esiste come modo della sostanza, la quale è appunto eterna. È un’altra tesi centrale di Spinoza: l’uomo è in grado di raggiungere la stessa dimensione della conoscenza divina, perfetta e completa.
Le emozioni
Dopo aver analizzato come funziona la mente, nella terza parte Spinoza analizza in modo sistematico la vita emotiva dell’essere umano. Le emozioni non sono intese da Spinoza come anomalie o deviazioni dalla razionalità, bensì come fenomeni naturali, radicati nella struttura dell’essere umano come parte della natura. Studiarle “come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi” (III, pref.), comprenderle e ricondurle alla loro causa è allora il primo passo per poterle governare e accedere a una vita buona. Le emozioni non sono infatti qualcosa di irrazionale o estraneo alla natura: fanno parte della stessa rete causale che determina ogni cosa, e sono sia affezioni del corpo sia idee di queste affezioni, che ne aumentano o diminuiscono la potenza. Spinoza riconosce a Cartesio il merito di aver cercato di spiegare gli affetti attraverso le loro cause fisiche, applicando il meccanicismo al mondo interiore. Tuttavia, Cartesio riteneva che la mente fosse libera, mentre il corpo, in quanto res extensa, fosse soggetto alle leggi della fisica. Per Spinoza anche la mente segue leggi necessarie, come qualunque altro fenomeno naturale.
La riflessione parte da un assunto fondamentale: ogni ente tende alla propria autoconservazione e ad accrescere la propria potenza. Questo sforzo (conatus) è l’essenza di ogni modo finito, che tende a mantenersi nella sua esistenza per quanto è in suo potere (III, prop. 7). Lo sforzo di autoconservazione riferito alla mente si chiama volontà, se riferito insieme alla mente e al corpo appetito. La consapevolezza di questo appetito è definita cupidità. La spinta all’azione assume dunque la forma di un desiderio di mantenersi in vita.
In questo quadro, Spinoza si distanzia sia da Aristotele che da Cartesio, che tendevano a identificare gli affetti con le passioni, cioè con uno stato di passività dell’anima. Per Spinoza, invece, ogni stato della mente – ogni idea, emozione, impulso – può essere interpretato come un’espressione di attività oppure di passività. Siamo attivi quando siamo la causa adeguata di ciò che ci accade, cioè la causa “il cui effetto può essere percepito chiaramente e distintamente per mezzo di essa” (III, def. 1); passivi quando invece subiamo le cause esterne, che ci determinano in modo parziale o confuso. Quando un corpo esterno agisce sul nostro, il nostro corpo ne è modificato, e siamo passivi. Alla modificazione del corpo corrisponde, secondo il principio del parallelismo, una modificazione della mente, cioè un’idea dell’affezione. Il risultato è un affetto, che è insieme una modificazione del corpo e l’idea mentale che lo accompagna. Finché la mente conosce in modo immaginativo, cioè attraverso idee inadeguate, rimane passiva. Solo quando riesce a comprendere le cause di ciò che accade – ha quindi idee adeguate – può diventare attiva.
Dal conatus derivano altri due affetti primari: la gioia, che nasce da un aumento della nostra potenza d’azione, e la tristezza, che deriva invece da una sua diminuzione. Spinoza costruisce una teoria degli affetti a partire da questi tre elementi originari – desiderio, gioia e tristezza –, che ritiene sufficienti a spiegare l’intero panorama delle emozioni attraverso un procedimento deduttivo e razionale. Ad esempio, sarà provato amore per qualcosa che procura gioia e odioverso ciò che procura tristezza. Su tutte le emozioni vige un principio egoistico: siccome la mente tende a trattenere il pensiero di ciò che aumenta la propria potenza, gli individui esaltano se stessi e le proprie azioni, denigrando quelle altrui. Simpatia e ira, speranza e paura, commiserazione e indignazione, invidia e superbia sono solo alcuni degli affetti studiati da Spinoza nella terza parte dell’opera, con l’unico fine di comprendere come moderarli e dominarli.
La morale
Nella quarta parte, intitolata Della schiavitù umana o della forza degli affetti, Spinoza affronta la condizione di passività dell’essere umano, cioè la sua generale sottomissione agli affetti, che lo rendono spesso incapace di agire secondo ragione malgrado la conoscenza del bene. Si passa dunque dal piano descrittivo a quello valutativo.
Per Spinoza, le passioni non possono essere eliminate o represse: un’affezione può essere contrastata solo da una più forte. È per questo che, se vogliamo affrancarci dalle passioni, dobbiamo coltivare affetti che siano più forti. Spinoza chiama fortuna (o caso o contingenza) tutto ciò di cui ignoriamo la causa vera. Ciò che ci sembra imprevedibile o fortuito lo è infatti solo dal punto di vista della nostra ignoranza. In questo senso, le passioni nascono dall’inadeguatezza della conoscenza immaginativa: quando non comprendiamo, subiamo. Così, per esempio, il suicidio, all’apparenza un atto libero e volontario, non è per Spinoza un’azione, bensì il risultato della totale prevalenza delle cause esterne su quelle interne; non tanto un’espressione della libertà, quanto della sua assenza (IV, prop. 18, scolio).
I concetti di bene e male, centrali nella tradizione morale occidentale, non sono allora tanto valori oggettivi quanto piuttosto valori relativi alla potenza dell’uomo, cioè alla sua capacità di perseverare nel proprio essere. Il giudizio di valore – cosa è bene per noi – è subordinato al desiderio di autoconservazione. Scrive Spinoza:
verso nessuna cosa noi ci sforziamo, nessuna cosa vogliamo, appetiamo o desideriamo perché la giudichiamo buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona qualche cosa perché ci sforziamo verso di essa, la vogliamo, l’appetiamo e la desideriamo (III, prop. 9, scolio).
Qual è però il ruolo della ragione, se l’uomo è mosso da appetito? Spinoza definisce il bene come ciò che ci è utile (IV, def. 1), e la conoscenza di ciò che ci è utile è generata dalla ragione. L’utile genera gioia, aumenta la nostra potenza, ed è per questo che lo reputiamo un bene. Buoni saranno dunque gli affetti che alimentano la gioia (l’ilarità, ad esempio) e cattivi quelli che derivano dalla tristezza (odio, paura). Il mondo dei valori si dimostra così essere tutto interno agli affetti, al punto che non ci sarebbero bene e male senza questi ultimi. Non c’è spazio, in questa prospettiva, per la nozione di merito o di colpa. Inoltre, “un desiderio non può essere eliminato dalla conoscenza che la cosa che desideriamo è veramente nociva, ma può essere contrastato solo da un affetto contrario”[4] e più forte: la ragione non può contrastare direttamente gli affetti in quanto si trova su un piano differente, ma può generare affetti che contrastino le passioni prodotte dalla conoscenza inadeguata. Ciononostante, la ragione si rivela spesso impotente, poiché la “potenza delle cause esterne, se è confrontata con la nostra, la supera indefinitamente” (IV, prop. 15). In quanto parte della natura – ovvero di una dimensione temporale – l’uomo sarà sempre soggetto alle passioni (IV, prop. 4, corol.) e non potrà mai realizzare pienamente l’ideale della ragione: è questa la “schiavitù umana” cui fa riferimento il titolo della quarta parte. Contro ogni intellettualismo etico, l’uomo può, come scrive Spinoza richiamando un detto di Erasmo da Rotterdam, vedere il meglio e approvarlo, ma seguire il peggio (IV, prop. 17, scolio).
La virtù non è la conformità a una legge morale esterna, ma ciò che conduce al vero utile dell’uomo, cioè all’accrescimento della sua potenza: virtù e potenza coincidono. Agire secondo virtù significa favorire il conatus, cioè ricercare il proprio utile (IV, prop. 24): agire secondo la propria natura, conoscendo le cause dello stesso agire – ovvero conoscere Dio, la natura nella sua necessità. Solo la conoscenza delle cause degli affetti consente di moderare la loro forza. Per questo Spinoza scrive che lo “sforzo per conoscere è il primo e l’unico fondamento della virtù” (IV, prop. 26).
La beatitudine
L’uomo virtuoso è l’unico libero in quanto vive sotto il dettame della ragione (IV, prop. 67). E proprio alle possibilità della mente di imporsi sulle passioni è dedicata la quinta parte dell’Etica. Spinoza delinea in essa alcune tecniche per controllare la forza delle passioni: conoscere in maniera adeguata gli affetti; affermare la maggiore forza della ragione nei confronti di una passione causata da un oggetto assente; distribuire la causa delle passioni su più agenti; favorire uno stato emotivo dominato dalla gioia.
La conoscenza adeguata permette alla mente di raggiungere la dimensione dell’eternità. Per il principio del parallelismo, come il corpo è composto dal corpo che esiste temporalmente e dall’essenza del corpo, così la mente si compone dell’idea del corpo nella durata e dall’idea dell’essenza del corpo. Della mente rimane “qualche cosa che è eterna” (V, prop. 23), cioè gli atti della ragione e dell’intelletto. Quando pensiamo un assioma matematico o le leggi del movimento, accediamo a una dimensione atemporale della conoscenza, che è la stessa di Dio.
Spinoza ragiona in questo modo: l’emergere nel tempo della parte eterna della mente che si verifica ogni qual volta la mente accede a una conoscenza adeguata fa sì che l’eternità entri nella dimensione della coscienza individuale; lo stesso io che vive nel tempo,nella misura in cui conosce adeguatamente, sperimenta una dimensione estranea al tempo sia per quel che soggettivamente rende possibile la conoscenza adeguata –la parte eterna della mente – sia per quel che è oggetto della sua conoscenza. In questo modo, nel tempo stesso della sua durata, una parte dell’io si trova a vivere fuori dal tempo, e, per questa parte, l’io rimarrà fuori del tempo né potrà rientrare nella dimensione temporale per perire assieme alla sua parte mortale. L’esperienza dell'eternità non può essere interrotta.[5]
Solo una volta soddisfatti i presupposti della conoscenza razionale si può accedere al terzo genere di conoscenza, quella intuitiva, che si manifesta quando “sentiamo e sperimentiamo di essere eterni” (V, prop. 23, scolio), ovvero quando conosciamo l’essenza delle cose. Ma la conoscenza dell’essenza delle cose e della catena causale significa allo stesso tempo conoscere Dio e come Dio. Alla conoscenza eterna corrisponde un affetto di gioia, una emozione eterna che Spinoza chiama appunto amore intellettuale di Dio. Questa è “la più grande soddisfazione della mente che si possa dare” (V, prop. 27), e chi la prova si trova in una condizione di beatitudine, che è la vera libertà dell’uomo. Come già in Platone con la contemplazione dell’idea del bene, e in Aristotele con la virtù contemplativa, così anche nella teoria di Spinoza l’uomo può raggiungere la beatitudine nella vita terrena. L’opera si conclude con un appello accorato e indimenticabile a tentare di percorrere la via della conoscenza, per quanto ardua e accessibile a pochi:
Da ciò risulta chiaro quanto grande sia la potenza del Sapiente, e quanto egli sia superiore all’ignorante che è condotto dal solo appetito sensibile. L’ignorante, infatti, oltre a essere sballottato qua e là in molti modi dalle cause esterne, e senza conquistare mai una vera soddisfazione dell’animo,vive quasi inconsapevole di sé e di Dio e delle cose, e appena cessa di patire, cessa pure di essere. Il Sapiente, invece, in quanto è considerato come tale, difficilmente è turbato nel suo animo, ma, essendo consapevole di sé e di Dio e delle cose per una certa eterna necessità, non cessa mai di essere, ma possiede sempre la vera soddisfazione dell’animo. Se, ora, la via che ho mostrato condurre a questa meta, sembra difficilissima, tuttavia essa può essere trovata. E senza dubbio dev’essere difficile ciò che si trova sì raramente. Come mai, infatti, potrebbe accadere, se la salvezza fosse a portata di mano, e si potesse trovare senza grande fatica, che essa fosse trascurata quasi da tutti? Ma tutte le cose sublimi sono tanto difficili quanto rare.
La fortuna dell’opera
Già nel 1678 l’Etica e le altre opere di Spinoza vengono bandite in Olanda, in quanto il loro autore è considerato un ateo. Un’interpretazione che avrà grande fortuna sarà quella di Pierre Bayle, che nel suo Dizionario storico-critico (1697) definirà Spinoza appunto un ateo virtuoso, cercando di dimostrare l’assurdità della sua metafisica. Solo verso la fine del Settecento il suo pensiero viene riscoperto, in Germania, e genera una discussione tra autori come Mendelssohn, Jacobi e Lessing. Da quel momento, l’opera suscita l’entusiasmo di Herder e Goethe, diventando un elemento di confronto imprescindibile per qualsiasi speculazione filosofica, da Hegel (secondo cui “filosofare è spinozare”) a Nietzsche (che individua in lui un suo precursore).
Il pensiero francese del Novecento, con autori come Althusser e Balibar, ha attinto all’Etica e alle opere politiche di Spinoza per aggiornare il marxismo, o, nel caso di Deleuze, per sviluppare un pensiero dell’immanenza. In Italia, particolare attenzione a Spinoza è stata dedicata da Antonio Negri e dall’operaismo, tra gli altri. Oggi, le tesi avanzate dal filosofo olandese – il panteismo, il rapporto mente/corpo, il determinismo – sono ancora oggetto di dibattito, dalla neurologia (per cui si vedano le opere di Antonio Damasio) alla filosofia analitica, fino alla teoria politica.