Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità

La prima edizione italiana è del 2014. Originale in lingua ebraica del 2011; tr. in lingua inglese: From Animals into Gods. A Brief History of Humankind (pubblicata anche come Sapiens), Secker, London 2014; Vintage Books, London 2015.


Yuval Noah Harari (1976), docente presso il Dipartimento di Storia della Hebrew University di Gerusalemme, ha raggiunto la notorietà mondiale con la pubblicazione di Sapiens: A Brief History of Humankind (2011). Ha poi pubblicato Homo Deus: A Brief History of Tomorrow (2015) e 21 Lessons for the 21st Century (2018). Nel 2021 questi tre volumi erano stati tradotti complessivamente in 65 lingue con una diffusione totale di circa 35 milioni di copie.[1] I suoi tre best-sellers appartengono alle recenti discipline denominate Macrohistory e Big History.[2] Egli concentra la sua ricerca su tematiche quali: il rapporto tra storia e biologia; la differenza essenziale tra Homo sapiens e le altre forme animali; il ruolo della religione nella storia; le cause del dominio dei Sapiens sulla Terra; le possibili evoluzioni dell’umanità nel prossimo secolo.

 

Breve presentazione delle opere di Yuval Noah Harari

Le riflessioni e la lettura della storia universale offerte da Yuval Noah Harari possono essere considerate una buona sintesi delle tesi, delle argomentazioni e delle preoccupazioni più diffuse oggi sulla posizione dell’uomo nell’universo. Egli è forse, tra i divulgatori più recenti, colui che riassume con maggiore efficacia il percorso compiuto dall’umanità nel corso della storia universale e intravvede i possibili pericoli per il futuro dei Sapiens. Con un’ottima abilità narrativa, ha reso accessibili gli studi accademici e le scoperte delle scienze sperimentali e sociali, inserendoli in una narrazione avvincente e convincente del cammino percorso dall’umanità nella storia.

In Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, egli si propone di offrire una spiegazione del successo dei Sapiens su tutte le altre specie di Homo, attraverso l’analisi di tre tappe decisive: la rivoluzione cognitiva (settantamila anni fa), la rivoluzione agricola (dodicimila anni fa) e la rivoluzione scientifica (cinquecento anni fa). Fra la seconda e la terza “rivoluzione” egli inserisce anche la nascita del progetto di un controllo politico su scala globale, dovuto essenzialmente, in Occidente, all’Impero Romano.

Con Homo deus (2015),[3] Harari intende offrire un contributo al dibattito attuale sul futuro dell’umanità perché assuma scelte responsabili in tre ambiti cruciali: l’intelligenza artificiale, le bio-tecnologie, l’ingegneria genetica. Per lui, uno sviluppo acritico in questi tre campi potrebbe portare alla fine dell’umanità, almeno per come la abbiamo intesa dalla rivoluzione cognitiva in poi.

Harari Books

In 21 Lezioni per il XXI secolo (2018),[4] l’Autore struttura il suo pensiero attorno a 21 temi articolati in cinque parti dai titoli esplicativi: (1) la sfida tecnologica, (2) la sfida politica, (3) disperazione e speranza, (4) verità e (5) resilienza. Lo sviluppo delle tecnologie informatiche e biologiche rappresenta per Harari una minaccia per i valori dell’umanesimo. A suo avviso, il nazionalismo, la religione e la cultura rendono complessa la cooperazione globale. Per affrontare questa complessità è necessario imparare a vivere in questa epoca di disorientamento, controllando la paura, conoscendo la verità sul mondo, senza cadere vittime della propaganda e della disinformazione.

Lo scopo fondamentale che Harari si propone è quello di contribuire alla crescita di consapevolezza dell’umanità, perché possa assumere responsabilmente le scelte decisive per questo XXI secolo. Ecco le sue considerazioni finali a conclusione del suo primo best-seller, Sapiens:

 

Nonostante le cose sorprendenti che gli umani sono capaci di fare, restiamo incerti sui nostri obiettivi e sembriamo scontenti come sempre. Siamo passati dalle canoe, alle galee, dai battelli a vapore alle navette spaziali, ma nessuno sa dove stiamo andando. Siamo più potenti di quanto siamo mai stati, ma non sappiamo che cosa fare con tutto questo potere. Peggio di tutto, gli umani sembrano più irresponsabili che mai. Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica e non dobbiamo render conto a nessuno. Di conseguenza stiamo causando la distruzione dei nostri compagni animali e dell’ecosistema circostante, ricercando null’altro che il nostro benessere e il nostro divertimento, e per giunta senza mai essere soddisfatti. Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?[5]

 

Gli scritti di Yuval Harari sono di carattere divulgativo e non scientifico-specialistico. Hanno uno stile volutamente leggero perché pensati per il grande pubblico. Il suo enorme successo è indicativo della potenza interpretativa del suo paradigma di lettura della storia universale e dell’umanità.

La fascia in cui egli intende collocarsi, come accennato, è quella della divulgazione delle scienze sociali, presentate però entro un’ottica che potremmo chiamare ideale, ovvero di una "grande storia" composta dalla rilettura in chiave narrativa di una selezione arbitraria di fatti ed episodi. Data la vasta scala temporale e la necessaria arbitrarietà nella selezione degli eventi, tale storia si presenta come una narrazione avvincente ma approssimativa e superficiale, con parecchie ingenuità, imprecisioni, talvolta veri e propri errori dal punto di vista storico e scientifico. Come alcuni hanno osservato, le esigenze di riduzionismo della grande narrativa collocano il testo di Harari al di sotto del livello di scientificità proprio della divulgazione scientifica popolare, posizionandolo piuttosto nel genere letterario della narrativa. Nonostante la loro diffusione, le opere del pensatore israeliano hanno avuto scarsa accoglienza in ambito accademico storico e filosofico, e sono state oggetto di recensioni piuttosto critiche da parte di studiosi di tutto il mondo. Illustrative, al riguardo, le differenze fra la popular reception e la scholarly reception come raccolte, ad esempio, nella pagina in lingua inglese di Wikipedia.[6]

Per quanto riguarda la breve presentazione che qui offriamo, ma più in generale per tutta la prospettiva che Harari segue nelle sue opere, lo “sfondo” filosofico culturale con il quale l’Autore si confronta continuamente, in modo sia implicito che esplicito, è quello della visione ebraico-cristiana dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, visione che egli intende superare, volendone “smascherare” l’ingenuità. La fenomenologia dell’essere umano, la sua storia culturale, il suo sviluppo tecnico e sociale, sarebbero frutto esclusivo della lotta per la sopravvivenza e non ammetterebbero alcuna altra interpretazione meta-empirica. L’origine e il destino dell’essere umano vengo letti, ipotizzati e spiegati basandosi su una visione esclusivamente biologica dell’essere umano. La storia dell’umanità è sintetizzabile, appunto, nell’espressione “da animali a dèi”, una storia che non ha bisogno di chiamare in causa la nozione di Dio. Il contrasto dialettico con la visione biblica è subito impostato: il genere umano non proviene da Dio ma, al contrario, tende ad una trasformazione che fa degli uomini dèi.

 

La visione della storia dei Sapiens secondo Harari

Harari identifica il segreto del successo dei Sapiens nella comparsa della “finzione” e nella capacità di generare miti. Egli sostiene che la cooperazione umana su vasta scala si fonda su miti comuni, miti che non esistono nella realtà ma solo nell’immaginazione collettiva.

 

Costruire narrazioni che funzionano non è facile. La difficoltà non risiede tanto nel raccontare una storia, quando nel convincere tutti gli altri a crederla vera. Gran parte della Storia (quella con la S maiuscola) gira intorno a questa domanda: come convincere milioni di persone a credere a narrazioni specifiche circa gli dèi, le nazioni o le società a responsabilità limitata? E tuttavia quando ci si riesce ciò conferisce a Sapiens un immenso potere, poiché fa sì che milioni di estranei cooperino e agiscano in direzione di obiettivi comuni.[7]

 

I “miti”, i “costrutti sociali” e le “realtà immaginate” non sono inganni malevoli, menzogne o bugie: sono finzioni. La “realtà immaginata” è qualcosa in cui tutti credono e che esercita un’influenza nel mondo. Le Nazioni Unite, i diritti umani, il denaro sono solo realtà immaginate, invenzioni della nostra fertile immaginazione; esistono solo nelle storie che noi umani ci raccontiamo a vicenda: «Nell’universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell’immaginazione comune degli esseri umani» (p. 41). Per Harari il potere dei Sapiens sta proprio nella capacità «raccontare storie e di convincere gli altri a crederci» (p. 44). Le argomentazioni di Harari si poggiano in gran parte sull’assunzione che esista una netta distinzione, nella storia culturale di Sapiens e nei fenomeni che egli conosce, fra oggettivo, soggettivo e intersoggettivo:

 

Un fenomeno oggettivo esiste indipendentemente dalla consapevolezza umana e dalle credenze umane. […] Il fenomeno soggettivo è invece qualcosa la cui esistenza dipende dalla coscienza e dalle credenze di un individuo. […] Il fenomeno intersoggettivo esiste all’interno di una rete di comunicazione che collega la coscienza soggettiva di molti individui.[8]

 

Tra i fenomeni intersoggettivi, Harari introduce l’ordine immaginario costituito. È una idea molto importante per la sua interpretazione del cammino dei Sapiens dalla Rivoluzione cognitiva in avanti. «Mentre l’evoluzione umana procedeva, come di consueto, a passo di lumaca, l’immaginazione umana stava erigendo sbalorditive reti di cooperazione di massa, quali non si erano mai viste sulla faccia della Terra» (p. 137). Reti che si basano su un comune credo in miti condivisi: l’ordine immaginario costituito. La storia dei Sapiens può essere allora descritta come un passaggio da un ordine immaginario costituito a un altro. Trattandosi di un fenomeno intersoggettivo, non è facile poter passare da un ordine all’altro. Per cambiare un ordine immaginario costituito vigente, prima è necessario credere in un ordine immaginario alternativo e questo comporta un mutamento nella coscienza di miliardi di individui.

Che cosa porta enormi masse di individui a credere a un ordine immaginario costituito? «Bisogna dire sempre che l’ordine in base al quale si regge la società è una realtà oggettiva creata dai grandi dèi o dalle leggi di natura. […] Occorre poi una sistematica educazione delle persone. Fin da quando nascono, verranno costantemente indottrinate con i principi dell’ordine costituito immaginario» (p. 148). Esso è intessuto nella realtà concreta, è incastonato nel mondo materiale e modella i desideri fin dalla nascita. Per cambiarlo occorre convincere milioni di estranei a cooperare perché non sta solo nella testa di un individuo ma nell’immaginazione di milioni di persone. D’altra parte, corre sempre il pericolo di collassare perché si fonda su miti che possono svanire facilmente. Per salvaguardarlo richiede continui sforzi e non può essere mantenuto nel lungo periodo solo con la violenza. È necessario che ci si creda davvero. Un “ordine costituito immaginario” può reggersi soltanto se ampi strati della popolazione – e in particolare dell’élite e delle forze di sicurezza – credono veramente in esso: «Il cristianesimo non esisterebbe da 2000 anni se la maggioranza dei vescovi e dei preti non avesse creduto in Cristo. […] Il sistema economico moderno non resisterebbe un solo giorno se la maggioranza degli investitori e dei banchieri non credesse nel capitalismo» (ibidem, 148).

Harari formula, così, un’importante regola della storia: «Non c’è modo di uscire dall’ordine costituito immaginario» (p. 155). I Sapiens, dalla Rivoluzione cognitiva in avanti, hanno sempre vissuto all’interno di ordini immaginari. Anzi è stata proprio la capacità di generare ordini immaginari, che ha consentito la cooperazione di milioni di individui, rendendo possibile ai Sapiens il dominio attuale sulla Terra. Pensare di liberarsi da questa dinamica è un’utopia: «Quando noi abbattiamo le mura della nostra prigione e corriamo verso la libertà, di fatto corriamo verso il cortile di ricreazione più ampio di una prigione più grande» (p. 155). Come esemplificazione della sua tesi, Harari mette a confronto il codice di Hammurabi (1776 a.C.) e la Dichiarazione di indipendenza americana (1776 d.C.). In entrambi i casi si afferma l’esistenza di princìpi universali ed eterni di giustizia. Gli americani, però, affermano che tutti gli individui sono uguali, mentre per i Babilonesi le persone non sono uguali e non hanno gli stessi diritti. La sua conclusione è drastica: «In realtà sono in errore entrambi. [...] l’unico posto dove esistono simili princìpi è quello della fertile immaginazione dei Sapiens, quello dei miti che inventano e raccontano a se stessi. Questi princìpi non hanno alcuna validità obiettiva. […] L’idea che tutti gli uomini siano uguali è un mito» (p. 143). Il fenomeno oggettivo, afferma Harari, è invece il dato della biologia: gli uomini non sono stati “creati uguali”, ma sono evoluti diventando ciò che sono, non per essere “eguali”. In biologia, non esistono “diritti” ma solo organi, capacità e caratteristiche. Non ci sono “diritti inalienabili” ma solo “caratteristiche mutabili”. L’idea di eguaglianza è inestricabilmente intrecciata alla nozione di creazione che deriva dal cristianesimo, per il quale gli uomini sono tutti uguali dinanzi a Dio. Invece, gli individui non sono stati “creati eguali” e non c’è nessun Creatore che li abbia dotati di una simile dignità: «C’è stato unicamente un cieco processo evoluzionistico, privo di qualsiasi scopo, e ciò ha portato alla nascita degli individui che siamo» (p. 144).

L’autore di Sapiens è consapevole della reazione che un simile ragionamento può provocare in molti dei suoi interlocutori contemporanei. Se è innegabile che esistano delle differenze biologiche tra gli individui della specie umana, ciò, però, non comporta che vi sia una differenza sostanziale, di natura e quindi di dignità, tra individui della stessa specie. Anzi è proprio questa identica dignità della persona umana che è a fondamento di una società stabile e prospera. Ecco il modo in cui Harari risponde a questa obiezione:

 

In merito a ciò io non ho niente da dire. Infatti, è esattamente quello che intendo con “ordine immaginario costituito”. Crediamo in un particolare ordine non perché sia oggettivamente vero, ma perché crederci ci permette di cooperare efficacemente e di forgiare una società migliore. Gli ordini immaginari non sono cospirazioni maligne o inutili miraggi. Sono invece l’unico modo con il quale grandi numeri di individui possono cooperare efficacemente.[9]

 

Da animali a dèi: una narrazione potente

I Sapiens, dunque, vivono sempre all’interno di un certo ordine immaginario costituito. Esiste un rapporto stretto tra le narrazioni e gli ordini immaginari costituiti: un ordine immaginario, per poter essere convincente, deve essere articolato attorno a una narrazione così potente da poter essere creduta da milioni di individui.

Ci si potrebbe tuttavia domandare se anche la ricostruzione di Harari sia, in definitiva, anch’essa una grande narrazione oggi condivisibile grazie alla specifica contingenza storica, culturale e politica che il genere umano, sostanzialmente in Occidente, sta adesso attraversando. Molte delle prospettive intersoggettive impiegate da Harari poggiano su una visione “filosofica” del mondo costruita e “culturalmente” condivisa, più che su fatti oggettivi “scientificamente condivisi”. Ad esempio, ritenere che la storia di Sapiens sia risultato “cieco processo evoluzionistico, privo di qualsiasi scopo” è un’espressione “intersoggettiva” perché le nostre coscienze individuali ne comprendono il significato, ma non vi è nulla di “oggettivo” in questa espressione perché i concetti di processo cieco o di scopo finalistico sono – nella logica di Harari – finzioni, cioè astrazioni che la mente umana ha compiuto nel corso dei secoli. Come ogni narrazione che convince milioni di individui, anche quella di Harari possiede elementi che si articolano attorno a un ordine immaginario costituito. Potremmo paragonarla ad una “religione” dominante, dotata anch’essa di dogmi, princìpi, valori e norme sociali. Da un punto di vista filosofico, la narrazione di Harari si inserisce nel solco di quelle posizioni filosofiche che qualificheremmo come esempi di immanentismo e di materialismo, per le quali non esisterebbe alcuna realtà oltre il piano empirico conoscibile mediante analisi quantitative. Entro una prospettiva immanentista, il bisogno di senso, di significato o di salvezza, per quanto universale nell’umanità, sarebbe un mero fenomeno biologico e non potrebbe dire nulla sull’eventuale esistenza di un Dio trascendente, verso il quale l’essere umano diriga la sua fenomenologia auto-trascendente: intelligenza, libertà, ricerca di senso. Questi “bisogni”, siano essi naturali o culturali, resterebbero sempre antropologici in senso stretto: nascerebbero e morirebbero con l’uomo, anzi con l’intera umanità come corpo sociale. Essi sarebbero confinati all’interno dell’auto-trascendenza che lo spirito umano esprime con l’arte, la poesia, la musica, la letteratura, la filosofia... L’orizzonte salvifico-escatologico, certamente presente nella storia dell’umanità, sarebbe in ogni caso rinchiuso nell’al di qua. Tale posizione è esplicita in Harari anche nella sua opera Homo deus. Egli sostiene che i tre progetti sui quali i Sapiens del XXI secolo lavoreranno sono: l’immortalità, la felicità globale, l’acquisizione di poteri divini.[10] È facile riconoscere, come in altre forme di immanentismo, una trasposizione in termini immanenti di contenuti che appartengono al senso religioso, in particolare alla salvezza cristiana: vita eterna, beatitudine, partecipazione alla vita stessa di Dio.

Il successo della ricostruzione immanentista di Harari dipende anche dalla forza che tale visione è andata progressivamente acquisendo in una società secolarizzata, nella quale il progresso tecnico-scientifico è stato ideologicamente impiegato a sostegno tanto del materialismo quanto del riduzionismo, sia ontologico che antropologico. La capacità di dominio che l’essere umano ha assunto nei confronti del mondo e di sé stesso, apparente o reale che sia, è tale da confermarlo nell’ipotesi di una completa autosufficienza. Un tempo le divinità sembravano l’unica risorsa disponibile per affrontare le potenze della natura, la malattia, le epidemie, ecc. con risultati, a dire il vero, non sempre convincenti. A tale impostazione arcaica viene opposta, in modo dialettico e sostitutivo, l’idea di una tecno-scienza capace di liberare l’uomo dai suoi mali, dai suoi limiti e dalle sue incompiutezze, anche esistenziali. A proposito delle piaghe che hanno costellato la storia dei Sapiens – carestie, pestilenze e guerre – Harari afferma in modo esplicito che oggi «non abbiamo bisogno di pregare alcun dio o santo che ce ne liberi» (p. 8). Lo sviluppo futuro delle neuro-scienze e dell’ingegneria genetica lascerebbero intravvedere una possibilità di controllo anche della parte “spirituale” del soggetto e una trasformazione da Homo sapiens a Homo deus: «È probabile che spingeremo il genere umano nel suo insieme oltre i suoi limiti. […] È probabile che il tentativo di portare a compimento il sogno umanista provochi la distruzione del genere umano» (pp. 86-87). Il Dio trascendente sarebbe così solo un residuo superfluo del passato e il futuro dell’umanità, anche con esiti drammatici, interamente nelle nostre mani. La religiosità (ridotta a tradizioni con la t minuscola) con la sua proiezione escatologica, sarebbe solo un fenomeno antropologico chiuso su stesso, senza nessun fondamento in un’alterità che trascenda l’essere umano.

Il cristianesimo è esso stesso, secondo Harari, una narrazione che, avendo ormai svolto la sua funzione di regolamentazione intersoggettiva, sarebbe destinata a scomparire o a risultare totalmente marginalizzata nella società del futuro. La stessa cosa può essere detta di numerose altre narrazioni sulla storia dell’umanità che è possibile rintracciare nelle diverse culture, religioni, società e in diverse epoche storiche.

 

La narrazione non è il male. Anzi è vitale. Senza storie accettate da tutti su cose come il denaro, gli stati o le società per azioni, nessuna società umana complessa può funzionare. […] Nel XXI secolo creeremo narrazioni più potenti e religioni più totalitarie che in qualsiasi epoca precedente. […] saranno in grado di modellare i nostri corpi, cervelli e menti e di creare interi mondi virtuali che includono inferni e paradisi. Essere in grado di distinguere la finzione dalla realtà e la religione dalla scienza diventerà sempre più difficile ma più indispensabile di quanto lo sia mai stato.[11]

 

È possibile operare un confronto tra queste narrazioni? Esiste un qualche criterio in base al quale una narrazione possa essere considerata più “vera” di un’altra? E quale potrebbe essere questo criterio? La domanda sulla “verità” non è contemplata da Harari, essa è al più, funzionale allo sviluppo della società umana in determinate epoche storiche. Potrebbe allora avere senso chiedersi per quale ragione la narrazione proposta da Harari dovrebbe essere più “vera” di quella proposta da una filosofia largamente condivisa o da una prospettiva spirituale o religiosa sufficientemente radicata nel tempo e nello spazio, come quella, per Sapiens, dell’esistenza di una vita anche di là della morte… Il pensiero critico, particolarità ed eredità specifica dei Sapiens – e che rende Homo sapiens tale – non sostiene forse che si “possa uscire da una narrazione”, prendere le prospettive da essa, valutarla e giudicarla? Per Harari questo pare impossibile, in quanto ogni giudizio è sempre frutto di un sistema intersoggettivo e probabilmente lo è perfino il giudizio della scienza, che opererebbe entro una trama di concetti e di relazioni pacificamente accettate. Il prezzo da pagare, entro la visione di Harari, è allora quello di un relativismo che mina alla base qualsiasi possibilità di conoscenza critica condivisa, negando anche lo stesso progresso scientifico, contro l’evidenza dei fatti. La prospettiva del pensatore israeliano incontra qui alcuni elementi di incongruenza e diventa suscettibile di recensioni critiche. Vediamone alcune fra le principali.

 

Rilievi critici alla posizione filosofica sostenuta da Yuval Harari

Un’attenta lettura dei saggi di Harari, di quello che qui stiamo principalmente commentando, Sapiens. Da animali a dèi, mette in luce la valenza a priori (e in certo modo “pre-giudiziale”) della sua visione. Non siamo di fronte ad uno studio empirico di un ricercatore di scienze sociali, né alla ricostruzione attendibile di uno storico, né alla proposta di una filosofia antropologicamente fondata. Siamo, piuttosto, di fronte, ad una narrazione unificante, di taglio metafisico e di portata ideale, a tratti anche ideologica. Come sottolineato dai suoi lettori più critici, i saggi di Harari contengono significative imprecisioni di ambito storico: una visione piuttosto stereotipata dell’epoca medievale e del rapporto fra cattolicesimo e pensiero scientifico nell’epoca moderna; giudizi approssimativi sul ruolo giocato dal cristianesimo nella formazione della cultura occidentale, presentato solo come freno al progresso; scarsa conoscenza dei dinamismi interni della ricerca scientifica e dei suoi rapporti con la tecnologia; evidenti ingenuità circa le proiezioni futuriste che affidano alla tecnologia dei prossimi secoli e alle utopie transumaniste obiettivi e risultati fantascientifici. La separazione che Harari stabilisce fra fenomeni “oggettivi” e fenomeni “soggettivi” va stretta alla scienza moderna e non dà ragione dell’epistemologia scientifica contemporanea. La comprensione del mito da parte di Harari, inoltre, è anch’essa poco profonda e in parte stereotipata, in quanto l’Autore lo paragona ad una generica narrazione rivedibile e convenzionale. In realtà il mito possiede una forte base antropologica e consente traduzioni tra una cultura e un’altra, individuando costanti antropologico-culturali che egli sembra ignorare. Da dove hanno origine quelli che Harari chiama “fenomeni intersoggettivi” e per quale motivo tali storie accomunano gli umani? È con la violenza che esse sopravvivono o, piuttosto, per la loro conformità con lo spirito umano? Harari non si pone tali domande. In linea più generale, quelle prospettive filosofiche che hanno messo in luce l’insufficienza dell’immanentismo possono essere ugualmente impiegate per mettere in luce l’insufficienza delle tesi di fondo del pensatore israeliano. La ricerca di senso, cogliere la morte come problema e non come semplice accadimento, interrogarsi in modo significativo sulla direzione verso cui si muove l’auto-trascendenza umana sono atteggiamenti qualificanti che, se negati o “risolti” in modo immanente, lascerebbero insoddisfatto l’essere umano. L’enigma dell’uomo, anche per coloro che negassero Dio come origine e meta dell’auto-trascendenza umana, è destinato a restare un enigma aperto. Per comprendere l’essere umano non possiamo guardare solo la storia della biochimica e dei suoi processi, perché l’esperienza umana e le testimonianze dello spirito umano ci raccontano anche un’altra storia, fatta di altruismo gratuito, di aspirazioni e di speranze, di motivazioni profonde per vivere e per morire.

In merito al modo di considerare il cristianesimo, la cui influenza nella storia dell’Occidente Harari valuta in modo esclusivamente negativo, andrebbe anche ricordato che, contrariamente a quanto egli sostiene, il cristianesimo non è, in senso stretto, una narrazione. La visione del mondo e dell’uomo che esso ha generato nasce da un evento, ovvero l’incontro con il Risorto, l’annuncio storicamente documentabile di un gruppo di discepoli che affermano essere vivo Colui che era stato crocifisso e sepolto. Inoltre, se di “narrazione” si volesse proprio parlare, andrebbe riconosciuto che il cristianesimo ha avanzato (ed avanza) la pretesa di recare con sé alcuni motivi di credibilità, tratti dall’ambito antropologico, storico, sociale. A differenza di altre tradizioni religiose, esso si rivolge alla filosofia e alla ragione e le considera ambiti di conoscenza dai quali lasciarsi mettere salutarmente in crisi; ambiti che esso intende anche illuminare, per rivelarne una tensione verso la trascendenza.

La ricostruzione accattivate di Harari sottoscrive una realtà evidente: l’unicità della specie umana e della sua storia evolutiva. Ciò che le scienze chiamano human uniqueness è un dato di fatto. Si può discutere su quali siano le cause di una simile unicità, ma la fenomenologia che la manifesta è condivisa da tutti. In questo senso, non è corretto affermare che l’essere umano è soltanto un animale, bensì, più precisamente, che egli appare non soltanto come un animale. L’essere sapiens è propriamente ciò che indica tale eccedenza. Negarlo equivarrebbe a sottoscrivere un riduzionismo antropologico a priori e condurrebbe alla negazione della verità della libertà, un prezzo che molti considererebbero troppo alto da pagare. Nella narrazione di Harari, la libertà è una finzione, non è reale. La scelta di credere a una certa narrazione piuttosto che a un’altra, non è veramente libera, ma è frutto del determinismo, non meglio precisato, delle reazioni bio-chimiche cerebrali. L’essere umano è certamente soggetto di una “grande storia”, che Harari descrive e schizza con grande vivacità. Questa, però, non lo proietta verso scenari frutto del caso o della pulsione, ma risulta dall’impegno responsabile della sua libertà. È questo impegno che, fra le righe, Harari sembra talvolta evocare, contraddicendo se stesso. Da un lato egli lancia un appello alla responsabilità dei “sapiens” perché proseguano nel migliore di modi la loro “storia”, dall’altro nega la verità della loro libertà, cioè l’unica cosa che potrebbe conferire senso a quella responsabilità. Come osserva Nick Spencer: «Harari ha ragione a scuotere il trono a cui gli umani sembrano pensare che apparteniamo naturalmente. Al loro meglio, Sapiens e Homo Deus offrono una frizzante e stimolante provocazione a tale saggezza ricevuta. Ma lo fanno sulla base di un approccio crudamente riduzionista e positivistico che non riesce a rendere giustizia ai complessi e stratificati organismi umani di cui sta scrivendo».[12] È al ruolo della libertà nella costruzione del futuro storico degli esseri umani che Benedetto XVI si riferiva in un’occasione:

 

L’uomo non è il frutto del caso, e neppure di un insieme di convergenze, di determinismi o di interazioni psico-chimiche; è un essere che gode di una libertà che, pur tenendo conto della sua natura, la trascende, e che è il segno del mistero di alterità che lo abita. […] Questa libertà, che è propria dell’essere uomo, fa sì che quest’ultimo possa orientare la sua vita verso un fine, possa, con le azioni che compie, volgersi verso la felicità alla quale è chiamato per l’eternità. Questa libertà dimostra che l’esistenza dell’uomo ha un senso.[13]

 

È sul perché della inabitazione di questo “mistero” nelle proprie vite che la ragione dei “sapiens”, ed anche Yuval Harari, devono interrogarsi.

 

[1] Cfr. https://www.ynharari.com/about/ consultato il 19 ottobre 2021.

[2] Sullo statuto della Macrohistory e della Big History si vedano: D. Christian, Macrohistory: The Play of Scales, «Social Evolution & History» Volume 4 (2005/1), 22–59; Idem, Maps of Time: An Introduction to Big History, University of California Press, Berkeley 2011.

[3] Y.N. Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Giunti/Bompiani, Firenze/Milano 20193 (traduzione dall’inglese di Marco Piani; ed. or.: Homo deus. A brief history of tomorrow, 2015).

[4] Y.N. Harari, 21 Lezioni per il XXI secolo, Giunti/Bompiani, Firenze/Milano 2018, (traduzione dall’inglese di Marco Piani; edizione originale: 21 Lessons for the 21st Century, 2018).

[5] Citiamo dalla nona edizione italiana rivista, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Giunti - Bompiani, Firenze - Milano 2019, p. 516.

[6] Sono facilmente consultabili all’indirizzo https://en.wikipedia.org/wiki/Sapiens:_A_Brief_History_of_Humankind

[7] Harari, Sapiens, pp. 45-46.

[8] Ibidem, pp. 153-154.

[9] Ibidem, 145. Per Harari un ordine “naturale” è un ordine stabile come, ad esempio, quello fisico della legge di gravitazione universale.

[10] «Diversi indizi inducono a pensare che nel XXI secolo gli umani faranno un serio tentativo di diventare immortali» (Homo Deus. Breve storia del futuro, Giunti/Bompiani, Firenze/Milano 2019, p. 32). «Sembra che il secondo grande progetto del XXI secolo – garantire una felicità globale – includerà una ristrutturazione di Homo sapiens dalle sue fondamenta affinché possa godere di un piacere senza fine» (ibidem, p. 58). «Nel XXI secolo, il terzo grande progetto del genere umano riguarderà l’acquisizione di poteri divini di creazione e di distruzione ed eleverà Homo sapiens a Homo deus. […] sono in tanti a ritenere che i nuovi programmi dell’umanità alla fine si riducano a un unico progetto (con tante diramazioni): acquisire le condizioni di esseri divini» (ibidem, p. 63). Si veda il primo capitolo Il nuovo programma dell’umanità in Homo deus, 7-89.

[11] Ibidem, pp. 219-220.

[12] Si veda la recensione pubblicata il 14.7.2020 su ABC Religion and Ethics, disponibile all’indirizzo https://www.abc.net.au/religion/the-problem-with-yuval-noah-harari/12451764 .

[13] Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno “L’identità mutevole dell'individuo” promosso dalla “Académie des sciences” di Parigi e dalla Pontificia Accademia delle Scienze, Sala dei Papi, 28 gennaio 2008.

 

Vincenzo Arborea
Pontificia Università della Santa Croce, Roma e IPE Business School, Napoli
2021