Edizione di riferimento in lingua tedesca: Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Zur Genealogie der Moral, Kritische Studienausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, de Gruyter, 1999.
Introduzione
Genealogia della morale è tra i testi più noti del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, in cui sono presenti alcune tra le sue tesi più provocatorie sulla morale – il sottotitolo è, non a caso, Uno scritto polemico –, che sfidano l’intera tradizione del pensiero occidentale. Pubblicato nel 1887 qualche mese dopo Al di là del bene e del male, in tempi di grandi mutamenti sociali e politici, il saggio verte sulla «origine dei nostri pregiudizi morali», ovvero sul valore e il significato dei concetti di “bene” e “male”, e conduce un’indagine storica sulle diverse maniere in cui questi si formano e il ruolo che svolgono in culture ed epoche segnate da un forte antagonismo tra ceti sociali. Suddivisa in tre dissertazioni, l’opera tratta in particolare della differenza tra la morale aristocratica e quella plebea; della formazione della coscienza e del concetto di “colpa”; del valore degli “ideali ascetici”.
Buono e malvagio, nobili e plebei
La domanda di partenza della trattazione è la seguente: “In quali condizioni l’uomo è andato inventando quei giudizi di valore: buono e cattivo? e quale valore hanno in se stessi? Fino a oggi hanno essi intralciato o promosso il felice sviluppo umano?” (5). Dopo aver dato, in gioventù, una risposta teologica al quesito – “resi l’onore a Dio e feci di lui il padre del male” (5) – è in seguito alla lettura di Schopenhauer e di un volume dell’amico Paul Rée che Nietzsche percepisce la necessità di una “critica dei valori morali” (8) e di abbandonare la convinzione, attraverso l’analisi storica, che a questi corrisponda un significato universale e immutabile.
Nella prima delle tre dissertazioni, dedicata alle coppie concettuali «Buono e malvagio», «buono e cattivo», Nietzsche oppone all’approccio “antistorico” della coeva psicologia inglese la sua tesi fondamentale: sono “i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire” a determinare ciò che è “buono” o “malvagio”, identificando il primo con le proprie azioni (15). “Buono” non sarebbe dunque ciò che è utile, come sostiene l’utilitarismo, bensì lo “spiritualmente nobile e aristocratico, nel senso di spiritualmente bennato, spiritualmente privilegiato” (17), come dimostrerebbero alcune ricerche etimologiche esposte da Nietzsche. I valori morali, secondo tale prospettiva, designano quindi il modo in cui classi e gruppi sociali acquistano coscienza delle differenze che li separano, ovvero hanno un’origine relazionale e antagonistica.
Affermatasi con i Greci e i Romani, la morale aristocratica, in cui il “buono” è associato alla potenza, a “un agire forte, libero, gioioso” (22), sarebbe stata però rovesciata dall’ebraismo: solo con “la rivolta degli schiavi della morale” (23) si sarebbe gradualmente associato il concetto di “buono” alla morale dei ceti inferiori – Nietzsche parla di umili, di poveri, di impotenti – e quello di “malvagità” a quelli superiori, ai nobili, all’aristocrazia. L’ebraismo avrebbe così operato una “trasvalutazione di tutti i valori” (24) in favore del “popolo” (gli “schiavi”, la “plebe”, il “gregge”), che Nietzsche valuta in maniera negativa, definendo il processo una “intossicazione”, un “avvelenamento” (25) della società occidentale, la “retrocessione” (31) irreversibile dell’umanità. L’origine del rovesciamento dei valori è individuata in un sentimento, il ressentiment, provato dalla plebe nei confronti dell’aristocrazia: questa “agisce e crea spontaneamente” affermando “sì” alla vita con “gratitudine e gioia” (26), e ad essa si oppone, per reazione, la morale del gregge, la quale identifica il nemico con il “malvagio”.
Nietzsche delinea così uno schema binario, in cui si trova, da una parte, la morale aristocratica, dove il “buono” corrisponde al nobile, a forza vigore e audacia, alla prevaricazione e al dominio, mentre “cattivo” è il popolo; dall’altra, la morale degli schiavi, governata dal risentimento e dalla sete di vendetta, che giudica “malvagio” ciò che è nobile ed eleva l’uomo “mediocre” – ovvero la persona che “non usa violenza”, “non aggredisce”, è paziente e umile (35) – a ideale di uomo buono (29). Secondo Nietzsche, tale “trasvalutazione” sarebbe una vera e propria rivoluzione semantica, dove impotenza, abiezione, sottomissione e codardia, mutando di segno, diventano valori considerati positivi come bontà, umiltà, obbedienza e pazienza.
Storicamente, la contrapposizione tra questi due paradigmi etici si sarebbe concretizzata nella lotta di “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma” (40), con la civiltà romana intesa come massima esponente della morale aristocratica e la tradizione giudaica quale espressione del risentimento. Quest’ultima avrebbe vinto la battaglia di idee, affermandosi prima con il cristianesimo, poi con la Riforma e infine con la Rivoluzione francese, contrastata dall’ideale classico incarnato dal Rinascimento e da Napoleone.
Colpa, diritto e religione
Nella seconda dissertazione – il cui titolo è «Colpa», «cattiva coscienza» e simili – Nietzsche applica il metodo genealogico a una serie di concetti chiave, come “colpa”, “cattiva coscienza” e “responsabilità”, per indagare il fondamento della morale e del diritto.
La colpa avrebbe la sua origine materiale nel “debito” (Schuld, in tedesco, traduce entrambi i vocaboli), cioè nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore:
Per infondere fiducia nella sua promessa di restituzione […] per imporre, in se stesso, alla propria coscienza la restituzione come dovere e obbligazione, il debitore dà in pegno, in forza del contratto, al creditore, per il caso che non paghi, qualcosa d’altro che ancora «possiede», su cui ha ancora potere, per esempio il proprio corpo o la propria donna o la propria libertà o anche la propria vita (52).
Al creditore è concesso dunque un “diritto alla crudeltà”, ovvero la soddisfazione di “poter scatenare la propria potenza su un essere impotente”, di “disprezzare e maltrattare un individuo” facendo ricorso alla violenza. La sofferenza, il dolore si rivela essere la componente fondamentale alla base del diritto delle obbligazioni e del diritto penale, dove la pena – questa la tesi del filosofo tedesco – non nascerebbe in relazione al concetto di responsabilità, bensì in quanto mera punizione causata da “ira” per un danno ricevuto, da “collera” (51, 54). Nietzsche mostra così come la malvagità disinteressata e la crudeltà determinino i primi rapporti interpersonali della storia umana:
Veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancor meglio – è questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana – troppo umana sentenza fondamentale […] Senza crudeltà non v’è festa: così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo – e anche nella pena v’è tanta aria di festa! (55)
Nietzsche abbozza in queste pagine della parte centrale dell’opera una vera e propria filosofia della storia, riassumibile come segue[1]:
1. Le più antiche “forme fondamentali della compera, della vendita, dello scambio” accelerano l’evoluzione delle facoltà cognitive, della capacità di astrarre e ragionare (59).
2. Tali “forme” offrono inoltre gli strumenti sia per regolare i rapporti che intercorrono fra comunità e gruppi diversi, sia per imporre ordine e disciplina all’interno di ogni raggruppamento sociale. Il delinquente, in conseguenza di ciò, viene trattato come un debitore che trasgredisce il contratto, suscitando così la “collera del creditore danneggiato, della comunità” (60). Al progredire dell’evoluzione storica, la società (il creditore collettivo) è sempre meno minacciata dalle infrazioni dei singoli e dunque tende a rendere più lievi le punizioni.
3. La giustizia nasce, in società primitive, come “buona volontà, tra uomini di potenza pressappoco eguale, di mettersi reciprocamente d’accordo” (59). Col tempo, anche la giustizia attenua la propria violenza e si trasforma in perdono, in “grazia” (60-61).
5. Persino le prime credenze religiose sono interpretate a partire dal rapporto creditore-debitore: gli antenati vengono venerati come divinità, attraverso riti e sacrifici, perché si riconosce il debito che la comunità ha nei loro confronti (78). Il cristianesimo replicherebbe la stessa logica: Dio rappresenterebbe “il maximum del senso del debito” (81). Nietzsche critica aspramente questo rapporto con la divinità, definendolo un “automartirio”,
una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica che non ha assolutamente eguali: la volontà dell’uomo di trovarsi colpevole e riprovevole fino all’impossibilità d’espiazione, la sua volontà di infettare e intossicare col problema della pena e della colpa le più profonde radici delle cose, la sua volontà di pensarsi castigato, senza che il castigo possa mai essere equivalente alla colpa […] la sua volontà di erigere un ideale – quello del «Dio santo» –, e di acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui (83).
Riprendendo la prima dissertazione, Nietzsche riafferma così la propria visione della storia, delineando la teoria della volontà di potenza (sviluppata nel dettaglio in altre opere, in particolare nell’omonima La volontà di potenza), secondo cui il principio che regola la storia umana è quello del dominio e della sopraffazione: l’evoluzione, a differenza di quanto sostengono l’evoluzionismo e Herbert Spencer, non è un progresso verso una meta, bensì “il susseguirsi di processi d’assoggettamento” (67), “un sormontare, un signoreggiare” (66).
La pena, allora, non sarebbe altro che uno strumento per ammansire l’uomo, per “destare nel colpevole il sentimento della colpa” (70). In questo trova la sua origine il concetto di “cattiva coscienza”: impedito lo sfogo degli istinti contro altri individui, con l’affermarsi della morale degli schiavi, “la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione” (74) vengono interiorizzati e rivolti contro se stessi. La cattiva coscienza è dunque un “istinto della libertà represso” (77), la castrazione psicofisica che permette la vita in società. Come combattere allora questa “tirannide su se stessi” (77), come la definisce Nietzsche? Solo l’uomo dell’avvenire, “anticristo e antinichilista” (87), potrà – questo l’augurio di Nietzsche – redimere l’umanità dalla morale del gregge, operando la contro-trasvalutazione dei valori profetizzata già in Così parlò Zarathustra, per dissipare quella “atmosfera da manicomio e da ospedale” (116) che secondo il filosofo tedesco permea tutta l’Europa del tempo.
Ascesi e passioni
Intitolata Che significano gli ideali ascetici?, la terza dissertazione riprende e svolge il motivo del dominio degli istinti già presente nella seconda, indagando ulteriormente gli effetti di una condotta di vita ascetica sulle passioni. L’ideale ascetico – secondo i principi di povertà, umiltà e castità – è interpretato da Nietzsche non tanto un’elevazione spirituale, quanto uno “stratagemma nella conservazione della vita” (114), la manifestazione di una volontà di potenza che l’asceta esercita sul proprio corpo e sulle anime dei “deboli”. Egli dispone di una serie di strategie per anestetizzare il dolore, che prescrive anche ai membri della comunità, tra cui 1) lo spegnimento dei bisogni fisiologici, seguendo l’esempio dei “santi”; 2) il lavoro o “attività macchinale”; 3) la cura, il procurare gioia, l’amore per il prossimo; 4) il risveglio del sentimento comunitario tramite l’associazionismo. Soprattutto, però, l’asceta gioca un ruolo importante nell’impianto della Genealogia della morale perché è la figura che altera la direzione del ressentiment, rivolto inizialmente verso l’esterno (i nobili) e da lui interiorizzato (dominio degli istinti e delle passioni). Alla domanda che si pongono i ceti inferiori sulle origini della loro sofferenza, l’asceta risponde che “qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu ad averne la colpa” (122):
L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a essa un senso! […] In esso la sofferenza venne interpretata (156).
È evidente a questo punto la relazione tra morale del gregge e cristianesimo primitivo. I valori affermati dai cristiani esprimono, secondo Nietzsche, il trionfo del risentimento e dell’impotenza, l’ostilità alla vita, la rinuncia alle passioni, il rifiuto della carne. Nietzsche usa metafore mediche per descrivere lo stato patologico e decadente della civiltà moderna, dominato dallo spirito della fede cristiana e dal messaggio evangelico: se nel Vecchio Testamento si possono trovare “grandi uomini [e] un paesaggio eroico”, secondo il filosofo tedesco il Nuovo è permeato da umiltà, “loquacità del sentimento”, “passionalità” e “aria di conventicola” (140).
A conclusione di questa dissertazione Nietzsche si interroga nuovamente sui possibili antidoti a quella che definisce una “rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita” (157). La scienza è considerata solo in apparente opposizione all’ideale ascetico, così come la storiografia: in entrambe domina quella “volontà del nulla” (157) che dovrà essere un giorno sostituita dall’aristocratica volontà di potenza di un novello Zarathustra.
Conclusioni
La Genealogia della morale ha esercitato un’influenza profonda e duratura sul pensiero filosofico successivo. Il metodo genealogico adottato nell’opera ha aperto nuove strade di ricerca speculativa, invitando a una decostruzione dei sistemi di valori dominanti e a una critica delle nostre assunzioni morali. Su tutti, Michel Foucault va ricordato per aver ripreso e sviluppato il metodo genealogico (che ha commentato in Nietzsche, la genealogia, la storia), applicandolo a una serie di fenomeni culturali e sociali, in particolare alle istituzioni carceraria e psichiatrica.
Per quanto potente e rivoluzionaria, l’opera non è però esente da limiti e criticità, specialmente dal punto di vista etico. La critica nietzscheana ai valori tradizionali – ridotti a dinamiche di potere e conflitti tra classi – non lascia spazio a valori universali condivisi, affermando un relativismo morale distante dall’ideale platonico di verità. La morale “aristocratica”, considerata da Nietzsche qualitativamente superiore rispetto alla morale del “gregge” fondata sul risentimento, sembra giustificare strutture elitarie che generano disuguaglianze sociali e costituisce una critica radicale ai valori cristiani di umiltà, compassione, carità e obbedienza. In questo senso, il pensiero nietzscheano si scontra con il nucleo dell’etica cristiana, basata sull’amore per il prossimo. Se Nietzsche denuncia questi valori come strumenti di assoggettamento, il cristianesimo li esalta come vie per la realizzazione umana e la liberazione spirituale. L’esaltazione della volontà di potenza, inoltre, rischia di sfociare in un’etica dell’arbitrio e dell’egoismo, lontana dall’ideale cristiano di comunità e fratellanza. L’assenza di un orizzonte etico trascendente apre così al rischio di un nichilismo esasperato, che potrebbe spingere l’individuo a perdersi, anziché trovarsi, nella pura affermazione di sé.
[1] Cfr. Andrea Orsucci, La Genealogia della morale di Nietzsche. Introduzione alla lettura, Carocci, 2001, pp. 86-88.