Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa

Mind & Cosmos. Why the Materialist Neo-Darwinian Conception of Nature is Almost Certainly False, Oxford University Press, Oxford UK 2012


L’Autore e l’opera

Nato a Belgrado nel 1937 e cittadino degli Stati Uniti d’America dal 1944, Thomas Nagel è uno dei più influenti filosofi dell’epoca contemporanea. La sua produzione riguarda gli ambiti dell’epistemologia scientifica, della filosofia della mente e della filosofia morale. Professore emerito di filosofia e di diritto presso la New York University, gli è stato conferito in Italia nel 2008 il Premio Balzan. L’ampiezza interdisciplinare della sua formazione e della sua produzione intellettuale gli ha permesso di integrare la sua riflessione scientifica, sviluppata nell’ambito della biologia e delle neuroscienze, con una prospettiva umanista recatagli dalla sua preparazione in diritto e in filosofia morale. Alcuni dei suoi libri sono stati più volte pubblicati in italiano, fra i quali L’ultima parola. Contro il relativismo (Feltrinelli, 1999); È possibile una giustizia globale? (Laterza 2009); Una brevissima introduzione alla filosofia (Il Saggiatore, 2009); Questioni mortali. Le risposte della filosofia ai problemi della vita (Il Saggiatore, 2015); Uno sguardo da nessun luogo (Mimesis, 2018). Per popolarità e diffusione, l’opera più nota di Nagel è, probabilmente, Cosa si prova ad essere un pipistrello, un breve saggio pubblicato originariamente nel 1974 e diffuso all’interno di opere collettanee, oggi presente anche nella forma di una singola conferenza (Castelvecchi, 2020). In esso l’A. esplora la natura soggettiva della coscienza e i limiti della nostra comprensione delle “altre menti”: in sostanza, anche se raccogliessimo tutte le informazioni oggettive possibili sulle caratteristiche fisiche e sul comportamento di un pipistrello, non riusciremmo mai a comprendere appieno cosa significhi vivere il mondo come lo fa questo mammifero volante e cieco.

L’opera che qui commentiamo si muove nel medesimo alveo concettuale, ma si preoccupa di estrarne precise conseguenze sul piano dell’epistemologia delle scienze biologiche, in particolare circa il loro tentativo di comprendere il mondo della vita secondo una visione globale e unitaria. Mente e Cosmo viene pubblicato ad Oxford nel 2012 e tradotto in italiano per i tipi di Raffaello Cortina nel 2015, giovandosi della cura editoriale di Michele Di Francesco, un filosofo della mente italiano noto e apprezzato. Il sottotitolo, piuttosto provocante, ovvero Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa, merita subito un chiarimento. Non siamo di fronte a un’opera polemica nei confronti del darwinismo. L’A., infatti, riconosce al darwinismo il merito di teoria che regola in modo efficace e comprovato l’evoluzione biologica dei viventi. Non siamo neanche di fronte ad un libro di taglio ingenuamente apologetico, che desideri riaffermare un principio di creazione o una visione teologica del cosmo e della vita allo scopo di porla in contrasto con una visione scientifica che faccia uso della comprensione evolutiva della storia del mondo. Il nostro A. non ha per nulla questa intenzione, in quanto egli non reclama alcuna appartenenza confessionale ad una specifica religione, anzi nel volume si dichiara ateo. Cosa indica allora questo sottotitolo? Nagel contesta in primo luogo il fatto che la sintesi neodarwiniana, come teoria scientifica, possa spiegare la vita compiutamente, incluse la mente e la coscienza. In secondo luogo, egli desidera problematizzare la concezione filosofica secondo la quale una visione evolutiva della vita compresa secondo un’epistemologia riduzionista – ove cioè la biologia venga ridotta a chimica-fisica, e dunque ad un’analisi puramente quantitativa – sia adatta a comprendere non solo la vita, ma l’intera realtà.

Il volume, che impegna poco più di 130 pp., è introdotto da un breve saggio di Michele Di Francesco, la cui lettura è assai utile per una corretta comprensione del pensiero del filosofo statunitense. Lo integrano 6 capitoli. Una Introduzione dello stesso Nagel; L’antiriduzionismo e l’ordine della natura (cap. 2), che contiene il nucleo del pensiero dell’A. sul tema in oggetto; La coscienza (cap. 3); La cognizione (cap. 4); I valori (cap. 5), e infine appena due pagine di sintetiche Conclusioni (cap. 6). Come il lettore comprenderà, non è un libro prolisso ma denso, e richiede una certa attenzione per seguirne con profitto lo sviluppo logico-argomentativo. Può essere utilizzato da chiunque abbia una cultura media in ambito scientifico e una sufficiente cognizione dei principali temi suscitati dalla filosofia della biologia. Non contiene formule, né schemi; non presenta una bibliografia finale, ma solo un utile indice dei nomi citati

 

Perché nel cosmo sorge la mente? La tesi centrale di Nagel e la sua fondazione epistemologica

La tesi che soggiace l’intero libro è efficacemente riassunta, in poche parole, da alcune frasi dell’Introduzione preparata da Michele di Francesco: «Se la coscienza non è spiegabile (per ragioni di principio) da fisica e biologia nella loro forma attuale, e se la mente biologica è il prodotto dell’evoluzione (se gli organismi coscienti non sono tali per un miracolo ma fanno parte dell’ordine naturale), allora la biologia non può essere una scienza puramente fisica» (p. X). Come lo stesso Di Francesco mette in luce, Mente e cosmo sembra sviluppare in modo maturo e articolato quanto intuito e sostenuto 40 anni prima in Cosa si prova ad essere un pipistrello. In quel breve saggio, Nagel aveva già teorizzato, in modo conciso, l’insufficienza della tesi riduzionista che si adopera per spiegare la coscienza umana facendo ricorso ai soli processi fisici, suggerendo la necessità di includere (sebbene non sapendo come) un aspetto soggettivo irriducibile e sfuggente alla spiegazione scientifica.

Se il metodo scientifico, tradizionalmente inteso, è sorto e si è sviluppato proprio mettendo fra parentesi gli stati mentali del soggetto, il mondo soggettivo della sua coscienza, puntando tutto sulla misurabilità quantitativa e sull’oggettività, risulta allora paradossale (e in certo modo contraddittorio) invocare questo medesimo metodo per dare ragione di quegli stati mentali. Il paradosso epistemologico e la dichiarata insufficienza del riduzionismo metodologico non riguardano solo la coscienza o le neuroscienze in quanto tali, come tematiche o discipline per affrontare le quali si invoca un metodo differente, o almeno più ampio; ne viene coinvolto anche il piano storico-interpretativo: infatti, non sapremmo come leggere la comparsa della coscienza entro una globale interpretazione evolutiva di tipo quantitativo-riduzionista, se questo metodo risulta insufficiente a spiegare il suo prodotto finale, cioè la coscienza stessa. Con parole dell’A., «il problema mente-corpo non è semplicemente un problema localizzato che concerne la relazione fra mente, cervello e comportamento negli organismi animali viventi, ma pervade la nostra comprensione dell’intero cosmo e della sua storia» (p. 5). Ciò implica, secondo Nagel, modificare la nostra concezione circa il posto che le scienze fisiche, matematizzabili e quantitative, occupano nella nostra descrizione dell’ordine naturale. Questo ordine sembra trascenderle perché esso ha prodotto una realtà, gli stati mentali della coscienza umana, che non è pienamente interpretabile ricorrendo ad un riduzionismo psicofisico. La conseguenza di questo stato di cose è che una teoria completa che intenda dare ragione della comparsa della coscienza debba mettere in campo dei principi diversi da quelli meramente meccanicistici. Proviamo ad esprimere la tesi in altre parole: se riconosciamo che l’organizzazione del vivente, quella della coscienza umana e del nostro io in particolare, risponde a criteri non meramente analitici e meccanicistici, ma deve invocare anche criteri olistici, sintetici, teleologici o perfino principi attualmente a noi ignoti, allora quei criteri non sono adatti a descrivere in modo completo e soddisfacente la storia che ci ha portato fino a qui. A ciò va aggiunto, osserva l’A., che le leggi della fisica, per lo più, sono time reversible, cioè esse esprimono un modo di rappresentare la natura indipendente dalla freccia del tempo, mentre i fenomeni della vita si sviluppano proprio nella storia e attraverso la storia. Non sorprende allora che proprio la legge fisica più incomprensibile e asimmetrica, ovvero il II° Principio della termodinamica, sia anche quella più imparentata con il mondo della biologia.

Nella lettura dell’evoluzione proposta dalla “sintesi moderna”, la selezione naturale e le mutazioni genetiche sono ancora parte di una “teoria fisica”, perché basata su transizioni probabilistiche e quantitative che individuano dei “meccanismi”. Qui però, osserva Thomas Nagel, nasce un problema: «Se la biologia evoluzionistica è una teoria fisica – come solitamente si ritiene che sia – allora non può rendere conto della comparsa della coscienza e di altri fenomeni che non sono deducibili fisicamente. Perciò, se la mente e un prodotto dell’evoluzione biologica – se gli organismi con una vita mentale non sono un’anomalia miracolosa, ma sono piuttosto parte integrante della natura – allora la biologia non può essere una scienza puramente fisica. Si apre così la possibilità di una concezione pervasiva dell’ordine naturale molto diversa dal materialismo, una concezione che assegna un ruolo centrale alla mente, piuttosto che considerarla un effetto secondario delle leggi della fisica» (p. 19). In termini più generali, siamo portati dall’A. verso una conclusione di carattere più ampio: se si dubita della riducibilità del “mentale” e di tutto ciò che lo accompagna (coscienza, morale, significati, ecc.) al “fisico”, allora è lecito anche dubitare che il fisico-matematico sia adatto per comprendere l’intera storia della natura, anche quella relativa al mondo materiale (l’evoluzione del cosmo fisico, ad esempio).

L’affermazione dell’importanza originaria, non sussidiaria o accidentale della mente, è in accordo con quanto segnalato anche da altri autori in campi di ricerca diversi dalla biologia. Tale constatazione non equivale a formulare un’inferenza logica mediante la quale dedurre dal solo piano delle scienze naturali l’esistenza di una Mente (con maiuscola) o un’Intelligenza creatrice, ma esprime soltanto il desiderio di una conoscenza integrata, oltre il materialismo, capace di inglobare ciò che trascende la materia: intelligenza, mente, informazione. Si consideri, ad esempio, questa affermazione di Freeman Dyson, che emerge dal contesto della cosmologia contemporanea: «Dall’esistenza di queste coincidenze fisiche ed astronomiche ricavo la conclusione che l’universo è un luogo straordinariamente ospitale, come possibile habitat di creature viventi. E poiché sono uno scienziato abituato ai modi di pensiero e al linguaggio del ventesimo secolo, e non a quello del diciottesimo, non affermo che l’architettura dell’universo dimostra l’esistenza di Dio. Affermo soltanto che l’architettura dell’universo è coerente con l’ipotesi che la mente abbia un ruolo essenziale nel suo funzionamento».[1] La percezione è praticamente identica, tratta qui dall’ambito della cosmologia non da quello della biologia. Sia Dyson che Nagel sono convinti che l’intelligibilità della realtà naturale non sia un carattere accidentale ma sostanziale della realtà. La mente sembra connessa all’ordine naturale in un duplice modo: da un lato, la natura è in grado di dare origine a delle creature senzienti, che posseggono una mente; dall’altro, la natura è comprensibile da parte di quelle menti che essa ha generato nel suo seno, capaci inoltre di comprendere anche esse stesse (autocoscienza, autoriflessione). Questo stato di cose, osserva Thomas Nagel, è costitutivo del cosmo, non può essere un suo prodotto secondario, circostanziale o collaterale: «Il fatto incontrovertibile di cui si deve dar conto in ogni concezione compiuta dell’universo è che la comparsa degli organismi viventi ha infine dato origine alla coscienza, alla percezione, al desiderio, all’azione e alla formazione di credenze e intenzioni sulla base di ragioni. Se tutto questo ha una spiegazione naturale, allora la loro possibilità era insita nell’universo molto prima che ci fosse la vita, e insita nelle prime forme di vita molto prima della comparsa degli animali. Una spiegazione soddisfacente dovrebbe mostrare che la realizzazione di queste possibilità non era così improbabile da essere trascurabile, ma era anzi significativamente verosimile, date le leggi della natura e data la composizione dell’universo. Essa rivelerebbe la mente e la ragione come aspetti fondamentali dell’ordine naturale non materialistico» (pp. 35-36; cf. anche pp. 21-22).

 

Pertinenza dell’analisi e insufficienza delle soluzioni

Il problema epistemologico suscitato da Nagel è corretto. Un materialismo o un naturalismo che cerchino dall’interno delle loro analisi quantitative fisico-matematiche di dare ragione di tutta la natura, e dunque anche della mente, una volta che quest’ultima viene riconosciuta come elemento fondante e non collaterale dell’evoluzione del cosmo e della vita, sono visioni interpretative destinate al fallimento. La critica di Nagel al materialismo riduzionista include, anche se non la esplicita, l’insufficienza della “sintesi moderna” (neodarwinismo contemporaneo) messa oggi in luce dai fautori della “sintesi estesa”, fra i quali principalmente Kevin Laland, responsabili di aver segnalato l’esistenza di un’evoluzione biologica non innescata primariamente da mutazioni genetiche, bensì dal comportamento (cosciente e cognitivamente connotato) dei viventi a livello fenotipico (rimandiamo il lettore interessato all’articolo di I. Colagè). La critica di Nagel al neodarwinismo, come abbiamo visto, non riguarda però soltanto i “meccanismi” dell’evoluzione, ma pone in discussione anche la “lettura globale” della storia naturale. Per tale ragione, si tratta di una critica filosofica che egli muove al neodarwinismo come filosofia, non a Darwin come osservatore e scopritore della selezione naturale. Quest’ultima, sebbene resti insufficiente a dare ragione di tutta la fenomenologia dei viventi, è nondimeno adeguata e irrinunciabile per comprendere gran parte delle loro variazioni morfologiche.

Il dibattito su cosa sappiamo o non sappiamo dell'evoluzione biologica non viene indirizzato da Nagel verso un confronto fra materialismo e teismo, intese come due concezioni contrapposte, anche se in alcuni passaggi l’A. sembrerebbe sottintenderlo (cf. pp. 26-27, 30-31). Il filosofo statunitense non opta per un superamento del materialismo che sfoci nel riconoscimento di un’Intelligenza trascendente il cosmo, ma si chiede piuttosto se possa esistere una concezione unificata dell’ordine naturale di tipo “secolare” (cioè non religioso) capace di assegnare alla mente il ruolo di “principio fondamentale” della natura, e dunque capace di lavorare con elementi più ampi e diversi rispetto a quelli forniti dalla fisica matematica. «[L]e rispettive inadeguatezze di materialismo e teismo – egli scrive – come concezioni trascendenti e l’impossibilità di abbandonare la ricerca di una visione trascendente del nostro posto nell’universo conducono alla speranza di una comprensione estesa, e tuttavia naturalistica, che eviti il riduzionismo psicofisico. Il carattere essenziale di tale comprensione sarebbe spiegare la comparsa della vita, della coscienza, della ragione e della conoscenza non come effetti collaterali accidentali delle leggi fisiche della natura né come risultato di un intervento intenzionale nella natura dall’esterno, ma come conseguenza non sorprendente, se non addirittura inevitabile, dell’ordine che governa il mondo naturale dall’interno. Tale ordine dovrebbe includere le leggi fisiche, ma, se la vita non è solo un fenomeno fisico, l’origine e l’evoluzione della vita e della mente non potranno essere spiegate solo dalla fisica e dalla chimica. Una forma di spiegazione estesa, e tuttavia unificata, sarà necessaria e sospetto che dovrà includere elementi teleologici» (pp. 36-37).

A quale “teoria unificata” dobbiamo allora rivolgerci per dare ragione della complessa fenomenologia che dalla materia porta alla mente, una mente fondamentale e non collaterale, perché si riconosce che la materia stessa del cosmo è modellata sulla mente? Se il riduzionismo fisico-quantitativo non è più sufficiente dobbiamo forse rivolgerci all’intelligent design o a qualche forma di teismo che invochi delle Agenzie diverse dalla natura stessa? Nagel giudica il “teismo” inadeguato, ma impiega questo termine in modo piuttosto generico, non troppo distante da quanto la storia della filosofia intenderebbe con “deismo”. Da come egli ne parla, si coglie che non vi associa i contenuti dell’immagine di Dio rivelata dalla tradizione ebraico-cristiana, i cui risvolti teologici più profondi l’A. sembrerebbe ignorare (cf. p. 30). Egli ritiene infatti, erroneamente, che ogni forma di teismo proponga la soluzione di un Creatore come causa “esterna al mondo”, o comunque di fronte ad esso, una sorta di causalità solo efficiente, non cogliendo le possibili dimensioni di una causalità trascendente capace di sostenere il mondo anche dall’interno, o di una causalità formale in grado di determinare le proprietà e le qualità che fanno sì che ogni ente naturale sia ciò che è e non qualcos’altro. Nella teologia cristiana il rapporto fra Creatore e creatura non è qualificabile con aggettivi come interno o esterno: Dio non è il mondo perché lo trascende, ma il mondo è sostenuto da Dio in modo immanente, quasi come contenuto in Lui. L’immagine di un Creatore è giudicata da Nagel inadeguata semplicemente perché si tratterebbe di una causa “non appartenente alla natura”, mentre chi studia il mondo naturale cerca qualcosa di cui la storia naturale gli possa e gli sappia parlare. «Le mie speculazioni su un’alternativa alla fisica in quanto teoria del tutto – afferma Nagel – non invocano un essere trascendente, ma tendono a complicare il carattere immanente dell’ordine naturale» (p. 14).

Sebbene egli menzioni Dio, un’Intelligenza trascendente o un Creatore intenzionale, la finalità dell’A., lo ripetiamo, non è quella di un confronto fra teologia e scienza, bensì perorare l’idea che una scienza riduzionista e materialista non è sufficiente. Egli vuole incoraggiare la formulazione di una scienza non riduzionista, non materialista e esente da riduzionismo psicofisico. Ci sia tuttavia consentita una digressione. L’autore di Mente e cosmo ritiene che il teismo spinga la ricerca dell’intelligibilità verso qualcosa che sia “fuori del mondo”, come farebbe il platonismo. In realtà, la dottrina cristiana del Logos è diversa dal platonismo perché, nel riconoscere la presenza dell’informazione come qualcosa di irriducibile alla materia, la dichiara inserita nella materia come sua “forma”. Dalla prospettiva cristiana dell’Incarnazione del Logos, l’intelligenza è compresa come “incarnata” nel mondo naturale, essendo il mondo stato creato nel Verbo, per mezzo del Verbo, e in vista del Verbo incarnato. L’intuizione di Nagel che il “mentale” sia indissociabile dal cosmo e lo presieda fin dalle sue origini è in fondo in sintonia una teologia cristiana della creazione se si restituisce al mentale il suo significato filosofico-teologico più pregnante: logos, informazione, progettualità, fine intenzionale.

 

Coscienza, cognizione, valori

Nei capitoli dedicati alla “coscienza” e alla “cognizione”, Nagel continua a commentare l’eccedenza degli “stati mentali” sulla materia e sulla descrizione psico-fisica che di essi può fornire il metodo scientifico. Anche se fossimo capaci di descrivere con un metodo fisico-quantitativo tutti i processi e i comportamenti associati al mentale, non potremmo comprendere quegli stati che corrispondono all’esperienza interna del soggetto, alla sua coscienza in prima persona, al suo “modo di essere un pipistrello”, per restare nell’immagine del titolo del suo saggio prima citato (cf. pp. 42-45). Anche il comportamentismo e il funzionalismo, per quanto modi raffinati di approcciare la descrizione del mentale e della sua interazione con il mondo, non potranno mai superare la barriera della coscienza del soggetto. «I soggetti coscienti e le loro vite mentali sono componenti ineliminabili della realtà e non possono essere descritti dalle leggi fisiche» (p. 45). Anzi il rapporto fra fisico e mentale sembra pervadere l’intero universo e non solo il nostro essere (cf. p. 46).

Ciò porta nuovamente alla ribalta la tesi segnalata nel capitolo dedicato alla critica del riduzionismo: se cerchiamo una teoria in grado di descrivere la storia del cosmo dalle sue origini fino alla comparsa mente – e questa storia esiste, perché la osserviamo e la sperimentiamo – allora dobbiamo impiegare un metodo capace di inglobare anche la coscienza, cosa che il metodo scientifico tradizionalmente inteso non è in grado di fare. La spiegazione della comparsa della coscienza (nell’essere umano o anche in alcune forme animali superiori) non può essere una questione “separata” dalla spiegazione della comparsa del vivente in quanto tale. Attualmente, riconosce Nagel, non siamo in possesso di una lettura consistente di tutto l’intero fenomeno, diciamo così, dal Big Bang fino alle cellule e dalle cellule fino agli stati mentali. «Dal momento che una spiegazione puramente materialistica non può ottenere questo risultato, la versione materialistica della teoria evoluzionistica non può essere tutta la verità. A organismi come noi non capita semplicemente di essere coscienti; perciò nessuna spiegazione del carattere fisico di tali organismi potrà essere adeguata se non è anche una spiegazione del loro carattere mentale. In altre parole, il materialismo è incompleto persino come teoria nel mondo fisico, poiché il mondo fisico include organismi coscienti tra i suoi abitanti più sorprendenti» (p. 49). Di qui ne derivano importanti conseguenze per la nostra spiegazione del reale: se le scienze fisiche, nonostante il loro sforzo di interpretare la vita e la sua origine, non riescono a dirci nulla su quanto riguarda la nostra coscienza e i nostri stati mentali, allora ciò dimostra che esse, da sole, non possono fornirci la soluzione circa la causa ultima dell’intelligibilità di questo mondo.

Sono solo tre le piste, o gli scenari, che l’A. vede possibili per affrontare il paradosso della presenza della mente nel cosmo (cf. pp. 62-63). La prima concerne la possibilità di trovare una spiegazione unitaria dei fenomeni materiali e mentali, non riduzionista, capace di legarli entro un’unica storia, ma ricorrendo ad un metodo più soddisfacente di quello che impieghiamo quando trattiamo gli enti non fisico-matematici in modo fisico-matematico. La ricerca di questa visione unitaria dovrebbe essere incoraggiata dal fatto che gli elementi che compongono i viventi (particelle elementari, atomi, molecole) sono gli stessi che compongono gli altri enti presenti nel cosmo (pietre, galassie, oceani…). La seconda pista è ammettere la presenza di principi teleologici di auto-organizzazione e di sviluppo della complessità che si esplichino secondo leggi diverse da quelle che regolano i componenti materiali del cosmo, come noi li conosciamo: si tratterebbe di un mondo di leggi a noi ancora sconosciuto e da esplorare. Il terzo scenario è riconoscere la presenza, nel cosmo, di intenzionalità. Sebbene la natura fornisca tutto il materiale e le condizioni costitutive per avere degli organismi coscienti, questi ultimi sono frutto di un’intenzionalità personale, che Nagel chiama qui col nome di Dio (cf. p. 63). Anche un aereo a reazione è costruito con elementi tratti tutti dall’ordine fisico-materiale, ma essi, da soli, non bastano a dare origine a un Airbus 380: ci vuole l’intenzione di coloro che lo hanno progettato e costruito.

Così come accade per la coscienza, anche la ragione umana, le sue capacità di conoscere il reale, interpretarlo ed elaborare un pensiero critico, non sembrano interpretabili in base alle leggi fisico-matematiche che applichiamo all’ordine materiale. Se alcune delle nostre capacità cognitive potrebbero essere state selezionate darwinianamente perché hanno favorito la nostra sopravvivenza, molte altre manifestano invece delle capacità originarie che abbiamo però messo in campo solo successivamente, avendo noi scoperto a posteriori una sintonia fra il linguaggio razionale della natura e la razionalità della nostra mente. Nagel sostiene, inoltre, che spiegare le (nostre) capacità cognitive richieda qualcosa di più che spiegare la coscienza e le sue forme adattive: la ragione ci porta oltre le apparenze, è capace di cogliere gli universali e si conforma ad una verità oggettiva che riconosce indipendente dai nostri stati mentali. Inoltre, poiché la ragione è inseparabile dalla vita fisica e materiale degli organismi senzienti che la posseggono, e si manifesta a partire dagli elementi fisici di cui siamo fatti, qualunque teoria che risultasse capace di comprenderla finirebbe col dover rileggere e ricomprendere anche la materia di cui siamo fatti, secondo un’epistemologia che non potrebbe essere più quella di un metodo scientifico riduttivo e solo quantitativo. Noi non possediamo una simile teoria, ma non potremo mai dire di aver davvero “capito” il mondo prima di averla formulata: «Una teoria del tutto deve spiegare: non solo l’emergenza da un universo senza vita di organismi che si riproducono e il loro sviluppo per evoluzione fino ha complessità funzionali sempre maggiori; non solo la conoscenza di alcuni di quegli organismi e il suo ruolo centrale nelle loro vite; ma anche lo sviluppo della coscienza in uno strumento di trascendenza che può cogliere la realtà oggettiva e i valori oggettivi» (p. 89)

Il ragionamento del filosofo statunitense, infine, si estende dalla coscienza e dalla cognizione fino ad una riflessione sulla moralità (valori). Nagel è perfettamente consapevole che esiste anche una lettura convenzionalista dei principi morali, che dipenderebbero dal particolare stadio evolutivo e culturale della specifica epoca in cui Homo sapiens vive ed opera. Chi abbraccia questa visione, egli dice, dovrà necessariamente attribuire il valore “vero” una teoria evolutiva che desiderasse spiegare la continuità dalla materia inerte fino ai giudizi mentali-morali degli esseri senzienti, e il valore “falso” al contenuto dei giudizi morali stessi, perché ritenuti appunto, sovrastrutture convenzionali senza fondamento oggettivo. Nagel, a questo punto, ribalta il ragionamento a suo favore: dal momento che il giudizio morale è “vero” perché ci fornisce i fini e i moventi del nostro comportamento nel mondo, allora un resoconto meramente darwiniano dei moventi che determinano i nostri giudizi morali deve essere “falso” (cf. p. 109). «Una concezione adeguata del cosmo deve contenere le risorse per rendere conto di come esso abbia potuto dare origine a esseri capaci di pensare con successo a ciò che è bene e male, giusto e sbagliato e di scoprire verità morali e valutative che non dipendono dalle loro stesse credenze. Questa implicazione è analoga alle implicazioni per l’ordine naturale dell’esistenza della coscienza e della cognizione che ho difeso in precedenza, ma va ben al di là di quelle» (p. 110). L’esistenza dei valori, aggiunge il nostro A., non può essere un fatto accidentale poiché essa è in fondo parte della spiegazione del perché esista la vita, oltre ad influire sulle sue possibilità di sviluppo e sul corso della sua storia (cf. p. 127). Il tema del valore oggettivo o soltanto soggettivo dei principi morali è certamente assai complesso e, per essere sostenuto, richiede approfondimenti certamente più solidi rispetto a quanto Nagel qui suggerisce: tuttavia, il contributo proveniente dalla sua particolare prospettiva non può essere trascurato.

 

Emergenza di domande sensate e ricerca di risposte che le trascendono

Cosa apporta il volume di Thomas Nagel al dibattito contemporaneo circa le domande sull’origine, sul senso e sul fine, che sempre più spesso sorgono dalla riflessione filosofica sul cosmo e sulla vita e assai facilmente confluiscono nei testi di divulgazione scientifica? Il principale contributo del filosofo americano è ricordare che una “teoria del tutto”, da alcuni decenni in voga stimolata dai successi delle teorie di unificazioni delle forze fondamentali della fisica, se mai riuscirà a farsi strada, dovrà necessariamente includere anche il fenomeno della vita e della mente e, nel farlo, dovrà mettere in campo un’epistemologia diversa da quella che, a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento, ci ha abituato a comprendere il mondo in termini di analisi fisico-matematica della materia e l’ascesa della vita solo in termini di selezione naturale.

Un secondo risultato è che questa messa in questione della razionalità logico-quantitativa quando quest’ultima desidera accedere alla comprensione della mente, della cognizione e dell’intenzionalità, nasce da un’osservazione scientifica del cosmo e della vita, non dalla recensione della filosofia o da una visione religiosa. Qualcosa di analogo era accaduto, ad esempio, con i Teoremi di incompletezza di Kurt Gödel o con la scoperta dei limiti intriseci della logica computazionale ad opera di Alan Turing. Come hanno fatto in passato altri autori, Nagel legge il corso della natura “dal basso” per capire cosa dover includere nella sua origine, verso dove la natura si sia sviluppata e possa svilupparsi ancora. Da questo punto di vista, la sua analisi può ricordare quella proposta oltre un secolo fa da Henri Bergson con L’evoluzione creatrice (1907), che Nagel conosce e cita, o quella avanzata da Pierre Teilhard de Chardin con Il fenomeno umano (1948), che Nagel invece non cita. Entrambi i pensatori francesi avevano centrato la loro analisi sulla fenomenologia della vita, cercando di capire se esistesse una storia capace di abbracciarne l’intero fenomeno.

La riflessione proposta in Mente e cosmo offre una risposta filosofica interessante ad alcune visioni riduttive di una “teoria del tutto” avanzate ad esempio da Stephen Hawking, ma anche alle varie forme di naturalismo sostenute da Jacques Monod, Stephen Weinberg, Richard Dawkins o Samuel Harris, tutte accomunate dall’idea che un discorso sui fini dovesse andare definitivamente espunto da una seria rappresentazione scientifica della natura.

Come già osservato, la trattazione di Nagel circa l’insufficienza del materialismo fisicalista e del neodarwinismo è svolta da una prospettiva non confessionale. Tuttavia, egli non può evitare di introdurre, fra le possibili spiegazioni della storia del mondo, l’ipotesi dell’esistenza di un’intenzionalità personale, da lui poi rifiutata. Egli ritorna spesso, erroneamente, su una visione “interventista” dell’intenzionalità e dell’Intelligenza creatrice, che, giustamente, non ritiene “maneggiabile” sul piano della conoscenza scientifica, naturale, empirica. Eppure, diversamente da quanto l’A. stesso possa forse immaginare, la sua prospettiva si aprirebbe con naturalezza a un dialogo con una filosofia della natura di ispirazione aristotelico-tomista e una teologia della natura di ispirazione cristiana, dialogo che sarebbero evidentemente altri autori a dover promuovere. Vi sono, in particolare, quattro questioni che, partendo dalla visione di Nagel, potrebbero essere esplorate: a) la necessità di introdurre il concetto filosofico di “forma” accanto a quello di materia, nonché lo stretto legame fra la causa formale, e l’intenzionalità della causa finale; b) una comprensione delle leggi di natura in termini di manifestazioni della natura metafisica (physis) degli enti fisici, nozione in sé già teleologica; c) la necessità di “ri-categorizzare” la nozione di materia, in quanto quella ereditata dal materialismo scientifico risulta ormai insufficiente di fronte alla nostra odierna comprensione del cosmo e della vita; d) la possibilità di accedere alla nozione filosofico-teologica di Logos come progetto intenzionale del mondo creato e origine ultima dell’informazione presente nel cosmo.

Al momento di avanzare proposte circa la ricerca di una nuova epistemologia in grado di unificare la storia del mondo e della vita, Nagel sembra optare per la ricerca di una legge teleologica generale, tuttora ignota, che non possiamo né comprendere né formulare nel contesto delle leggi non teleologiche che rappresentano la nostra visione scientifico-quantitativa del mondo fisico. «Una qualche forma di teleologia naturale […] costituirebbe un’alternativa al miracolo, nel senso di una coincidenza estremamente improbabile o nel senso di un intervento divino nell’ordine naturale. La tendenza della vita a formarsi potrebbe essere una caratteristica fondamentale dell’ordine naturale, non spiegata dalle leggi non teleologiche della fisica e della chimica» (p. 128). Il pensiero va immediatamente ad alcune letture del Principio Antropico, specie nella sua “versione forte”, che sembrerebbero in continuità con quanto Nagel afferma in sede epistemologica. Ma una filosofia della natura capace di inglobare in modo fondato, non improvvisato né solo euristico, queste prospettive è ancora tutta da scrivere.


 


[1] F. Dyson, Turbare l’universo, Boringhieri, Torino 1979, pp. 290-291.

Giuseppe Tanzella-Nitti
Ordinario di Teologia Fondamentale, Pontificia Università della Santa Croce
2024