Quando venne pubblicato nel 1987, La chiusura della mente americana ebbe un successo che forse nemmeno l’autore, Allan Bloom, si aspettava. Egli intendeva proporre una riflessione rigorosa, franca e coraggiosa sulla nuova cultura che ancora sta attraversando l’Occidente, a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, e sugli effetti che tale cultura ha prodotto sull’intero sistema universitario. Bloom intende soffermarsi su questo paradosso: animata da un desiderio quasi ossessivo di diffondere quanto più possibile un atteggiamento di apertura mentale, la nuova cultura avrebbe veicolato esattamente l’attitudine opposta, producendo cioè un’attitudine alla chiusura.
Il paradosso del relativismo
Secondo Bloom, questo paradosso ha una ben precisa spiegazione, che egli intende argomentare in maniera articolata nel corso del libro. Bloom lo fa partendo proprio da una riflessione sulla generazione di studenti che si trovava di fronte, quella stessa che oggi costituisce la nostra classe dirigente e/o l’asse portante dell’attuale corpo di professori all’università. Pur così diversi tra loro sotto tanti aspetti, tali studenti gli apparivano solidamente accomunati da una convinzione: che la verità fosse relativa e che solo l’assunzione di una posizione relativistica rendesse possibile l’apertura mentale. Tale genere di apertura è dunque diventata, non a caso, «l’unica virtù che l’istruzione primaria per più di cinquant’anni si è impegnata ad inculcare» (p. 22). Questo «cultura dell’apertura», spiega Bloom, ne avrebbe sostituito una precedente, che si fondava invece sull’idea cioè che esiste una verità, che gli uomini dovrebbero impegnarsi a cercare e che su di essa si fondano i loro diritti, considerati come «naturali».
Bloom osserva che in quest’ultimo contesto ci si aspettava che fosse l’aspirazione alla verità, non la sua messa in dubbio, a far nascere l’attitudine all’apertura mentale. Mettendosi alla ricerca della verità, infatti, la ragione appare quasi spontaneamente portata a cercare ciò che vale in sé, superando così gli unilateralismi e ogni visione particolaristica. Perciò, osserva Bloom, non ci dovrebbe sorprendere che laddove si impone un clima relativistico, le persone non siano affatto spinte ad andare oltre le ristrettezze del particolarismo, bensì a chiudersi in esso. Se infatti nulla può essere considerato vero, si intima, certo, di rispettare le diverse culture, ma lo si fa, in fondo, perché nessuna di esse vale veramente. Questo tipo di persuasione, però, osserva Bloom, fa sì che gli studenti «e noi tutti, siamo spogliati della fondamentale eccitazione che viene alla scoperta della diversità, l’impulso di Odisseo che, secondo Dante, viaggia per il mondo per vedere i vizi e le virtù degli uomini. […] La vera apertura nasce dal desiderio di conoscere, quindi dalla coscienza dell’ignoranza. Negare la possibilità di conoscere il bene e il male significa sopprimere la vera apertura» (p. 39). Questa è dunque la tesi che Bloom intende articolare nel corso del libro: il relativismo millanta di essere la cultura adatta a favorire l’apertura e la democrazia, in realtà produce chiusura mentale, spegne il desiderio dello studio e mina le basi dell’ordine socio-politico su cui il modello democratico americano si regge.
Gli studenti
Per raggiungere un tale obiettivo, spiegando le radici e le ragioni dell’avvento di questa mentalità di chiusura, Bloom articola il proprio testo in tre parti, che intitola in questo modo: 1) gli studenti, 2) il nichilismo in stile americano, 3) l’università.
Nella prima parte, Bloom ci offre una vera e propria «anatomia» dello studente universitario, che pure a distanza ormai di qualche decennio non manca di suscitare una profonda riflessione sulla nostra cultura di fondo, sui desideri, sulle aspettative che animano noi e i nostri giovani. Il ritratto dello studente americano viene svolto in quattro capitoli, il primo dei quali concerne il suo background. Il fatto che egli arrivasse solitamente all’università meno colto di quanto non lo fosse un pari grado europeo poteva generare, secondo Bloom, un curioso e paradossale vantaggio per lo studente americano: proprio perché il contatto con la grande cultura letteraria e filosofica non poteva apparirgli scontata o già nota, essa poteva suscitare in lui un sincero entusiasmo. Inoltre, Bloom sottolinea che il contesto famigliare e sociale in cui il giovane americano si trovava inserito non fosse affatto povero, perché poteva contare su due veri e propri pilastri: la Dichiarazione d’Indipendenza (con il fondamento filosofico-politico che si portava dietro) e la Bibbia.
Sulla base di questi due punti di riferimento, erano le famiglie, prima ancora della scuola, a veicolare idee e storie che nutrivano la mente e spingevano a superare ogni orizzonte particolaristico, portando i giovani che divenivano adulti a prendere il volo. La Bibbia si costituiva quindi, nella mente americana fino agli anni Sessanta, come una sorta di «libro globale», capace di produrre una ben determinata forma di vita. Questa è, secondo Bloom, la vera funzione di quei libri che noi chiamiamo «classici»: dare forma alle vite delle persone, alle loro passioni, alle loro anime. «Quando un giovane come Lincoln cercava di istruirsi – nota Bloom – le cose immediatamente ovvie da imparare per lui erano la Bibbia, Shakespeare ed Euclide. Era davvero in una situazione peggiore di chi cerca la propria strada nel buffet tecnico del sistema scolastico contemporaneo, con la sua totale incapacità di distinguere tra ciò che è importante e ciò che non lo è, se non attraverso la domanda del mercato?» (p. 64).
Ebbene, è proprio questo orizzonte che oggi, secondo l’analisi di Bloom, non c’è più: la famiglia ha smesso di veicolare e custodire questo patrimonio, adottando un modo di vivere e di stare assieme disincantato e orientato a fini più limitati, come il benessere personale e la carriera: «Padri e madri hanno smarrito l’idea che la più alta aspirazione che possono avere per i propri figli è che siano saggi – come sono saggi preti, profeti o filosofi. Competenza specialistica e successo sono tutto ciò che riescono immaginare» (p. 62).
Date queste premesse, si può comprendere, osserva Bloom, perché a partire dalla fine degli anni Sessanta stiamo assistendo ad una profonda crisi della lettura, ovvero dell’idea stessa che qualcosa come alcuni libri possano essere dei veri e propri compagni di vita. Alla minore incidenza della lettura nella vita delle persone avrebbe fatto da contrappeso l’onnipresenza della musica. Bloom lo considera un fenomeno ormai irreversibile e assolutamente invincibile: tra i giovani del 1987 (e questo vale certamente anche oggi), la musica classica è sostanzialmente morta, sostituita invece dal gusto per una sonorità nuova, segnata dall’emotività e dalla sensualità.
L’analisi sugli studenti culmina nel capitolo che egli intitola Rapporti. Con una straordinaria lucidità, egli osserva che la vita degli studenti universitari è segnata dall’egocentrismo, che non è però da intendersi in un senso morale, come a voler denunciare che questi giovani siano egoisti o malvagi. Il punto è diverso: a questi giovani non è stato consegnato altro scopo nella vita che quello di realizzare se stessi. «Oggi – scrive Bloom – gli studenti sono simpatici, cordiali e, seppur non di animo eccelso, almeno non particolarmente meschini. La loro principale preoccupazione sono loro stessi. […] Una certa retorica dell’autorealizzazione dà una patina di fascino a questa vita, ma i ragazzi sono in grado di vedere che in essa non c’è niente di particolarmente nobile. […] Patria, religione, famiglia, idee di civiltà, tutte le forze sentimentali e storiche che si ergevano tra l’infinità del cosmo e l’individuo, dando l’idea di un luogo nel tutto, sono state razionalizzate e hanno perso il loro irrefrenabile potere» (pp. 92-96)». Bloom sostiene che questa forma di «smobilitazione» dalle grandi narrazioni del passato ha reso i giovani più fragili e più poveri, soprattutto sul piano delle relazioni personali. La fondamentale cartina di tornasole di questo cambiamento è il nuovo modo di intendere la sessualità, come pure le relazioni di amore e di amicizia. Bloom ne offre una disanima ad un tempo acuta e spietata, sostenendo senza giri di parole che l’impoverimento del legame familiare e la banalizzazione della sessualità provocano un danno colossale alla crescita culturale e intellettuale degli studenti: in un mondo in cui si tende ad avere rapporti e non relazioni, e in cui le separazioni e i divorzi dei genitori già segnano l’infanzia di così tante persone – si chiede Bloom – in che modo il desiderio potrà dare forma allo studio?
Dal nichilismo europeo a quello americano
Nella seconda parte del testo, Bloom vuole mostrare come, negli ultimi decenni, la cultura americana abbia subito un’influenza negativa dal diffondersi di una certa cultura europea, che egli indica innanzitutto nello storicismo tedesco e nel nichilismo veicolato da Nietzsche e Heidegger. Così, quasi alla maniera di una battuta, Allan Bloom osserva che «dopo la guerra, mentre l’America diffondeva i suoi blue jeans per unire i giovani di tutte le nazioni, una forma concreta di universalismo democratico che aveva avuto effetti liberatori su molte nazioni in schiavitù, importava una veste per la sua anima, di produzione tedesca, che era in contrasto con tutto ciò» (p. 174). Alle spalle di questo «cambio d’abito», Bloom vede la contrapposizione tra Locke e Rousseau. Gli americani, insiste Bloom, sono eredi del primo, non del secondo: quando infatti costoro hanno concepito lo «stato di natura», Locke ha indicato nella natura il fondamento di quei diritti in cui gli americani si riconoscono; Rousseau invece ha posto una frattura insanabile tra natura e cultura, che rende problematico il nostro rapporto con la natura stessa dell’uomo. Così, quando la forma mentis rousseauiana ha cominciato a diffondersi negli Stati Uniti, ha contemporaneamente veicolato un’immagine de-naturalizzata, che ha contribuito a fornire un’immagine fortemente «psicologizzata» dell’io, esaltando la sua creatività, concepita quindi come una forma di sostanziale autocompiacimento. «Creatività e personalità – scrive Bloom – prendono il posto di parole più antiche come virtù, operosità, razionalità e carattere, influenzano il nostro giudizio, ci forniscono scopi formativi. Sono il modo borghese per non essere borghese. Sono quindi fonti di snobismo e presunzione, estranee alle nostre reali virtù» (p. 213). Questa sorta di coabitazione tra Locke e Rousseau nella cultura americana spiega secondo Bloom la presenza ambivalente di due diverse concezioni di cultura, difficili da armonizzare tra loro, perché provenienti da due interpretazioni contraddittorie di ciò che è importante per l’uomo: la radice lockiana spingerebbe a ritenere importante quello che tutti uomini hanno in comune, quella rousseauiana tenderebbe invece a enfatizzare ciò che è particolare, quindi il rispetto per le culture, al plurale.
Un’analoga ambivalenza si può riscontrare, secondo Bloom, intorno all’enfasi sui «valori», che egli trova coerente con la diffusione del relativismo: mentre infatti l’uomo può solo scoprireil bene e il male, può invece essere creatore, costruttore, produttore di «valori». Bloom attribuisce la diffusione della retorica dei valori negli Stati Uniti all’impatto e alla divulgazione della filosofia di Nietzsche e della sociologia di Weber. Queste sono le matrici culturali di un relativismo che si sarebbe imposto in maniera dirompente, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, manifestando un dogmatismo e un’intolleranza sorprendenti, su cui Bloom non mancherà di tornare ancora, nell’ultima parte del libro, in cui Bloom offre un’analisi della crisi attuale dell’università, che stimola il lettore ad andare in profondità, per ritrovare le radici dell’esistenza stessa dell’università, all’interno di in un contesto democratico.
L’università
Osservando i primi passi della nascente democrazia americana, Tocqueville aveva notato che il suo consolidamento avrebbe portato con sé il diffondersi di alcune tendenze particolari, come quella a piegarsi verso i capricci dell’opinione pubblica, ad adulare il popolo, a riconoscere maggior valore all’utile, rispetto a ciò che è compiuto per puro valore, come la vita teoretica. Ebbene, Bloom osserva che, in un sistema democratico, l’università ha un compito difficile, ma dal valore straordinario: quello di farsi voce della dimensione disinteressata della vita e del sapere, creando così un contrappeso all’enfasi posta sull’utilità. In tal modo, essa ha un ruolo centrale nel salvare la democrazia dai suoi rischi: «è per prevenire e curare questa cecità tipicamente democratica – scrive Bloom – che l’università esiste in una democrazia, non per creare un’aristocrazia, ma per amore della democrazia e per tutelare la libertà di spirito – sicuramente una delle libertà più importanti – di alcuni individui all’interno di essa» (p. 294). Per questo motivo, il tipo ideale dello spirito universitario è la figura da Socrate, con la sua capacità di cercare la verità e di interpellare i propri interlocutori su di essa, senza sconti. La crisi di questo modello va di pari passo con la crisi in cui è caduta la filosofia, che non riesce più a concepirsi come autentico stile di vita e tende a declinarsi come una mera disciplina accademica tra le altre. Bloom ritiene che questa crisi sia fomentata dalla diffusione della mentalità storicistica e delle idee di Rousseau, le quali, avendo alimentato l’idea della separazione tra natura e cultura, hanno portato a concepire le scienze umane e quelle naturali come due regni non comunicanti, in cui coloro che si occupano di discipline umanistiche appaiono figure marginali o semplici eruditi. Questo porta, con grave danno per l’intera società, a smarrire l’idea che l’università debba suscitare innanzitutto l’attitudine a mirare alla verità e alla genuina eccellenza dell’uomo, che sta nella capacità di cercare il sapere per il sapere e di indagare «socraticamente» la profonda natura dell’uomo. Così, secondo Bloom, è solo secondariamente che i problemi dell’Università di oggi hanno a che fare con questioni di cattiva amministrazione, con la mancanza di volontà o di disciplina o con la mancanza di risorse economiche: il nocciolo della questione è invece la sua identità, la sua vocazione. «Non si può sostenere che occorre difendere la libertà accademica – sostiene Bloom – quando ci sono grossi dubbi sui principi alla base della sua libertà. Andare a combattere in nome dell’università può essere nobile, […] ma [tali gesti] servono poco alle università, per le quali la cosa importante è il pensiero» (p. 366).
La cultura degli ani Sessanta avrebbe provocato questa profonda crisi, nel momento in cui ha diffuso tra le menti e i cuori di studenti e professori la tendenza all’ideologizzazione, al conformismo e al dogmatismo, resi ancora più paradossali dalla presenza preponderante della retorica della «liberazione». Così, Bloom osserva che «oggi nelle università ci sono molte più cose delle quali non si può parlare o pensare di quante ce ne fossero allora e c’è poca voglia di proteggere chi si è guadagnato l’ira di movimenti radicali» (p. 380). Il paradosso, su cui Bloom insiste, è che la nuova cultura ha portato tutta l’attenzione su certe questioni, come ad esempio le disuguaglianze legate alla razza o al sesso, esaltando i diritti dei neri e delle donne come diritti di parti, di minoranze, senza accettare invece l’idea che il modo migliore per affrontare tali questioni sta esattamente nell’atteggiamento mentale opposto, ossia quello che si basa sull’universale dignità di tutti gli esseri umani. Ora, solo una solida teoria dei diritti dell’uomo, concepiti come diritti naturali, può svolgere questo compito.
I Grandi Libri
Di fronte a questo scenario, Bloom ribadisce l’importanza dell’educazione liberale e di quelli che egli chiama i «grandi libri». Una tale educazione non può darsi a prescindere dal alcuni contenuti fondamentali, che giustifichino il fatto che a diventare dei classici siano proprio quei testi e quegli autori. Perciò, un’educazione liberale non può esserci, se non c’è alla base una certa idea di scienza, di cultura, se non c’è un «albero della conoscenza». L’università avrebbe perduto proprio questa consapevolezza, lasciando campo aperto ad una vera e anarchia intellettuale, cosa ben diversa dalla legittima presenza di visioni diverse, magari anche concorrenziali. Questa anarchia, secondo Bloom, impedisce la possibilità di fare fiorire un’educazione genuinamente liberale, perché spinge a ripiegare verso un’immagine totalmente utilitaristica della formazione universitaria, che viene identificata sempre più come luogo destinato esclusivamente a preparare la carriera professionale, più che a coltivare l’eccellenza personale. Così, nota Bloom, gli stessi professori sembrano avere rinunciato a perseguire questo scopo: «I professori sono in maggioranza specialisti, attenti solo al proprio campo, interessati solo del progresso dei propri settori alle loro condizioni, o del progresso personale in un mondo in cui tutte le ricompense sono tributate all’eccellenza professionale. Si sono totalmente emancipati dalla vecchia struttura universitaria, che perlomeno contribuiva a segnalare che erano incompleti, solo parti di un tutto da esaminare e scoprire» (p. 399). Così, il rischio è oggi quello di intendere la pluralità del sapere come una diversità anarchica, che concede al massimo la possibilità di darsi qualche infarinatura su ciò che non rientra nel percorso di specializzazione. Qui sta un profondo equivoco, secondo Bloom: l’affrontare certe tematiche non dovrebbe essere concepito come un diversivo, ma come una via non secondaria, per capire che ci sono questioni importanti nella vita che vanno affrontate necessariamente e che non hanno a che fare con una qualche competenza specialistica.
Il modo migliore per accedere a tali questioni resta, secondo Bloom, quello del tenere vivo l’accesso a quelli che gli chiama i Grandi libri, ossia i testi classici: «naturalmente, l’unica soluzione seria è quella respinta universalmente: l’approccio con i buoni, vecchi grandi libri, secondo il quale educazione liberale significa leggere certi testi classici di valore riconosciuto, leggerli soltanto, lasciando che siano loro stessi a indicare le domande e il metodo per affrontarle –non inquadrandoli in categorie costituite da noi, non trattandoli come prodotti storici, ma cercando di leggerli come volevano i loro autori» (p. 405). Quest’ultima frase spiega perché, secondo Bloom, per quanto questo possa apparire paradossale, sono gli stessi cultori e studiosi delle discipline classiche ad occultare il senso stesso per cui dovremmo leggere i classici, allorché assumono un criterio puramente storicistico di lettura dei testi e pretendono di scimmiottare le discipline scientifiche nel determinare i criteri con cui valutare la loro attività accademica. Tutto ciò non può che svilire il libero pensiero e la capacità di porre le grandi domande della vita e della scienza: «razzista e maschilista erano e sono etichette bruttissime – l’equivalente di ateo o comunista in altri tempi, quando dominavano altri pregiudizi – che possono essere attaccate alle persone in modo casuale e, una volta attribuite, non possono più essere tolte. Non si poteva dire niente impunemente. Tale atmosfera rende impossibile lo studio distaccato, spassionato» (p. 418).
Questa è dunque la lezioni più bella dell’intero libro di Bloom: non possiamo fare a meno dell’educazione liberale, se vogliamo vivere all’altezza della nostra più alta dignità umana, sia come individui, sia come società democratica. Se vogliamo capire il nostro mondo, dobbiamo guardare con coraggio ai cambiamenti culturali occorsi negli ultimi decenni, e riconoscere i danni che la diffusione del relativismo nichilismo ha fatto alla società in generale e all’università in particolare. Mi pare davvero cruciale l’invito di Bloom a guardare ai problemi dell’università non partendo dalle questioni organizzative o economiche, ma a sapere riflettere sull’essenziale, ossia sulla vocazione dell’università e dell’uomo colto nel nostro mondo. La forza dell’educazione liberale, la sua bellezza, la sua grandezza sta dunque nella capacità di coltivare lo sguardo sulle domande essenziali, senza cedere alla tentazione di dare risposte pret-à-porter o di concentrarsi su questioni di mera attualità. Quello che Platone o Shakespeare, Aristotele o Locke possono darci, secondo Bloom, è alimentare l’amore per la verità e il desiderio di vivere una vita buona,e nel renderci per questo cittadini migliori. La promozione di questo tipo di persona è l’autentica vocazione dell’università. Solo intorno ad essa e per essa, l’università potrà ancora costituirsi come luogo in cui possano esistere comunità e amicizia, rette dalla consapevolezza di essere chiamati a dare, come singoli, un esempio di vita e di sapere.