K. KELLY, What Technology Wants, Viking/Penguin, New York/London 2010.
Trad. it. Quello che vuole la tecnologia, Codice, Torino 2011
L'autore e il contesto
Kevin Kelly è uno dei nomi più evocativi nel mondo della cultura tecnologica contemporanea. Co-fondatore, nel 1993, della rivista “Wired” (abbandonata quando intuì che l'imminente futuro non era più wired, cioè cablato, ma ormai wireless), autore nel 1994 di Out of control: The New Biology of Machines, Economic and Social Systems (mappa di orientamento, fra l'altro, per il cast di Matrix), editorialista di autorevoli testate (“Science”, “Time”, “New York Times”, “The Economist”, ed altre), Kelly si è costantemente contraddistinto, in questi ed in altri progetti – come, ad esempio, il World Earth Catalogue e la Long Now Foundation – per la capacità di anticipare con successo le novità all'orizzonte, qualità che, nell'ambito dell'innovazione, sembra particolarmente apprezzata e proficua. E d’anticipo ha giocato anche con il suo articolo del 1999 intitolato Nerd theology, un accattivante affresco sull'abbraccio teologia-tecnologia con cui farà il paio, tre anni dopo, God Is the Machine (dal lungo sottotitolo: In the Beginning was the 0. And then there was 1. A Mind-bending Meditation on the Transcendent Power of Digital Computation) pubblicato su “Wired”.
Con Quello che vuole la tecnologia, Kelly riesce a far compiere un importante passo in avanti al dibattito sulla filosofia della tecnologia. Si può ben dire che la tecnologia sia stata, per la filosofia contemporanea, quello che fu l'arché per la prima filosofia antica, e il concetto di 'Dio' per la filosofia medievale, ovvero l'oggetto principe, se non unico, di riflessione. I filosofi del Novecento, invero, non sono stati molto teneri nella loro analisi della tecnica, considerata per lo più nei suoi connotati nefasti: minaccia al destino umano e alla stessa immagine dell'essere umano per H. Jonas; priva ‒ e privante ‒ dell’anima per G. Lukacs; somma reificazione per M. Horkheimer; dominio e sfruttamento per O. Spengler; disincantamento del mondo per M. Weber; schiavitù spirituale, imbarbarimento e rimbambinimento per J. Huizinga; perdita della funzione pensante per H. Arendt; causa di una ‘re-primitivizzazione’ per J. Ortega y Gasset – e l’elenco potrebbe esser più lungo. Anche Michela Nacci, nel tratteggiare attentamente il modo in cui la cultura novecentesca ha rappresentato la tecnica in Pensare la tecnica (Laterza 2000, con introduzione di Gianni Vattimo), non trova immagini migliori delle seguenti: 1. la sua indipendenza dal controllo umano, 2. la sua connivenza con il nichilismo, 3. la sua opposizione alla funzione pensante, 4. il suo spingere verso la fine della civiltà, 5. la sua forma di totalitarismo. Nella cornice di questo fitto dibattito sulle caratteristiche, le immagini e gli effetti della tecnica, Kelly, con Quello che vuole la tecnologia, riesce a collocare la domanda che forse latitava nella discussione pluridecennale e su cui, in fondo, poggia tutto il resto: quale è l'essenza della tecnologia?
L'essenza della tecnologia e il Technium
Proprio con questa domanda (a p. 7) inizia il libro di Kelly, e alla risposta ci si avvicina gradatamente tramite una correlazione sempre più intima (e piuttosto desueta) tra tecnologia e vita. Kelly osserva che, nella seconda metà del Novecento, a partire dall’articolo epocale Molecular Structure of Nucleic Acids: A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid (1953), in cui gli scienziati James Watson e Francis Crick proposero la forma a doppia elica del DNA, è venuto affermandosi il cosiddetto 'dogma centrale' della biologia molecolare, secondo cui il genoma è un insieme di informazioni, con un suo codice, un suo destinatario (le proteine) e un suo canale o messaggero, l’RNA. Convergendo dal versante opposto, alla fine del secondo Millennio, scienziati come Max Adleman sono penetrati nell'ignoto continente della 'computazione al DNA', costruendo speciali computer in cui i dati sono codificati con filamenti di DNA, mentre altre strutture biomolecolari compiono vari tipi di operazioni su questi dati (cf. M. Adleman, Molecular Computation of Solutions to Combinatorial Problem, “Science” 1994 e Id. Computing with Dna: The Manipulation of Dna to Solve Mathematical Problems Is Redifining What Is Meant by ‘computation’, “Scientific American” 1998). La combinazione delle due scoperte agisce per Kelly come l'articolazione di due premesse da cui è possibile trarre una conclusione: se «i sistemi viventi contengono in sé l'essenza astratta di un processo meccanico come il calcolo» e «se è possibile trasformare il DNA in un computer operativo, e si può far evolvere un computer operativo alla stessa maniera del DNA, allora sarebbe potuta esserci, avrebbe dovuto esserci, una certa equivalenza tra il costruito e l'innato. La tecnologia e la vita devono avere in comune una qualche essenza fondamentale» (p. 12). L'essenza della tecnologia non è stata ancora svelata, ma il primo accostamento tra tecnologia e vita ha già raggiunto un'acquisizione notevole: al cuore del vivente sta qualcosa (il DNA) che opera come un computer e con il DNA si possono costruire computer. In senso più generale: tutto in natura, compresa la vita stessa, è un processo computante; con tutto ciò che è in natura, anche con il DNA, si può costruire un sistema computante artificiale. Il parallelismo prosegue: con l'avanzare del progresso informatico – osserva Kelly – è venuto a rendersi evidente che anche negli strumenti tecnologici di maggior potenza ciò che conta non è il supporto fisico, bensì il software logico e immateriale, in piena consonanza con la “scoperta sbalorditiva” a cui, pressoché in contemporanea, sono giunti gli scienziati in campo biologico: «comunque si voglia definire la vita, la sua essenza non risiede in forme materiali come tessuti o carne, ma nell'intangibile organizzazione dell'energia e delle informazioni contenute in quelle forme materiali» (p. 12). Da tale convergenza Kelly può così desumere un ulteriore accostamento: «sia la vita sia la tecnologia sembrano dunque essere basate su flussi immateriali di informazioni» (ibid.). Siamo giunti al momento cruciale che Kelly ha preparato con perizia. Ancor prima, tuttavia, è necessaria un'ulteriore precisazione di natura linguistica: l'espressione “tecnologia” – egli annota – ha su di sé ormai così tante incrostazioni concettuali che essa non riesce più a trasmettere il senso della sua essenza. Per questo Kelly confessa di essersi sentito costretto, “seppur malvolentieri”, a coniare un nuovo termine che prenda le distanze, non solo contenutisticamente, ma anche terminologicamente, da quanto sulla tecnologia è stato finora affermato. L'espressione che da ora innanzi Kelly userà nel testo per designare il sistema globale e interconnesso delle tecnologie è 'Technium'. «Il Technium va oltre l'hardware e le macchine, per includere la cultura, l'arte, le istituzioni sociali e le creazioni intellettuali di ogni genere. Comprende entità intangibili come il software, le leggi, i concetti filosofici. E, cosa ancor più importante, comprende gli impulsi generativi delle nostre invenzioni, che stimolano ulteriori produzioni di strumenti, ulteriori invenzioni tecnologiche, ulteriori connessioni autoaccrescenti» (p. 14). L'essenza della tecnologia, ovvero il Technium – si verrà a precisare nel corso delle pagine – non è la somma degli strumenti o il loro uso o l'ambiente che ci circonda, bensì è da intendere come un «sistema di creazioni che si autoalimenta» (p. 14); una «forza impressa nel tessuto della materia e dell'energia», ma indipendente da esse (p. 181); una «esplosione d'informazione, di organizzazione e struttura, di complessità, di diversità, di facoltà senziente e di bellezza», utile, senza incertezze, al miglioramento umano (p. 355). Il Technium s'inserisce al culmine delle otto maggiori transizioni dell'evoluzione biologica, che hanno portato dalla prima molecola autoreplicante alla società umana basata sul linguaggio – e qui Kelly rimanda a The Major Transitions in Evolution di John Maynard Smith e Eors Szathmary (Oxford 1997) – per protrarre poi il processo verso nuove, emergenti fasi di complessità non-biologica e, prendendo il testimone dalla comunicazione verbale orale, corre spedito verso il traguardo della comunicazione globale ubiquitaria. Il Technium dunque è al vertice della piramide delle attività umane, ma, al contempo, esso era presente ancora prima del sorgere del genere umano, ad esempio nel battere delle pietre con cui gli scimpanzé aprono le noci, nelle torri di fango delle termiti, nei nidi, nelle dighe dei castori. Una volta dispiegato il concetto di 'technium', offerto una sua elaborata definizione, lanciato sprazzi intorno alla sua essenza, a Kelly non rimane che definire la sua entelechia, in modo da chiudere il tragitto iniziato con il titolo dell'opera, chiarendo il fine verso cui esso tende e lo stato in cui trovi compimento. E sul finire della sua riflessione, Kelly non lascia la domanda senza risposta: «il Technium vuole ciò che l'evoluzione ha cominciato» (p. 278) e, per essere ancor più espliciti: «ciò che la tecnologa vuole è una maggior capacità senziente»(p. 343). E pur senza essere citato, il concetto di 'noosfera' di Pierre Teilhard de Chardin viene a coprire con la sua ombra l'intero paesaggio kellyano.
Caratteri strutturali del tragitto tecnologico: inevitabilità ed esponenzialità
Il tragitto che la tecnologia sta percorrendo per condurre l'essere umano verso una condizione di massima coscienza, potenza e bellezza possiede caratteri ben marcati, su cui si stagliano quelli dell'inevitabilità della direzione e dell'esponenzialità del passo di percorrenza. Su questi tratti qualificanti ruota buona parte dell'argomentazione del libro.
Il carattere dell'inevitabilità della traiettoria dell'evoluzione umano-tecnologica è chiaramente un guanto di sfida lanciato impavidamente contro i darwinisti ortodossi. «L'evoluzione biologica (e per estensione il Technium) non è una deriva casuale, ma, al contrario, ha insita in sé una direzione modellata dalla natura stessa della materia e dell'energia, che introduce nella vita tratti di inevitabilità» (p. 109). In questa sfida Kelly non si muove da solo, ma chiama al suo fianco molti di quegli studiosi che, negli ultimi tre o quattro decenni, hanno rivolto la loro attenzione ai sistemi adattivi complessi, giungendo ad una conclusione che ha “un certo consenso”, secondo cui quelle che tradizionalmente sono definite “mutazioni casuali”, in realtà si rivelano essere variazioni «governate dalla geometria e dalla fisica e, aspetto ancor più importante, modellate dalle possibilità insite nei pattern ricorrenti dell'autorganizzazione» (p. 126). Nella folta schiera degli alleati, Kelly convoca ricercatori del calibro di Lynn H. Caporale, Bob Bakker, Christian De Duve, Sean Carroll e, per citarne un ultimo, Brian Goodwin, ideatore dell'immagine forse più cogente, per cui se il nastro della vita venisse riavvolto e sottoposto ad un nuovo inizio, tutto, o quasi, comparirebbe un'altra volta così come è adesso. Kelly riunisce la pletora di ipotesi, dati e suggestioni dei menzionati biologi, biochimici e genetisti sotto la cupola del concetto di “inevitabilità strutturale”, per cui «nel ribollire apparentemente caotico dell'evoluzione c'è un meccanismo che riscopre le stesse forme e continua a giungere alle stesse soluzioni. È come se la vita avesse un imperativo: vuole materializzare determinati schemi» (p. 131). Quello che la vita vuole (marcato in corsivo nella citazione dallo stesso autore) non è poi altro rispetto a quello che anche la tecnologia vuole. Infatti, le due correlazioni tra vita e tecnologia presentate ad inizio libro, a distanza di un centinaio di pagine, trovano nell'inevitabilità strutturale un terzo anello: nella storia della vita, come nella storia della tecnologia, quando il tempo è maturo per la comparsa di una determinata struttura, essa finisce sempre per imporsi. Nella biologia, esemplifica Kelly, il pungiglione, o l'aculeo velenoso di difesa, è comparso almeno dodici volte in tipi di animali diversi: scorpioni, ragni, api, ornitorinchi, serpenti e anche nei millepiedi, nelle meduse e nel pesce pietra. Il suo sviluppo, avanza Kelly, non è dovuto ad una storia comune che assimila tali animali o da una comune richiesta ambientale, bensì da un «impeto interno impresso dalla complessità autorganizzata» (p. 129). Lo stesso processo è rintracciato, analogamente, da Kelly nella storia della tecnologia: quando un'invenzione anche dirompente ha deciso di imporsi sul palco della storia è inevitabile la sua entrata in scena. Alla progettazione della bomba atomica, fa notare Kelly, stavano lavorando nello stesso periodo e anche in una certa vicinanza geografica, ma nel massimo isolamento e segreto spionistico, ben sette gruppi di ricerca; nella storia della lampadina ci sono ben ventitré inventori che si arrogano il ruolo di primo ideatore, e tutti in un fazzoletto di tempo. E questo vale per ogni genere di invenzione, tanto che, in un'indagine mirata su giovani ricercatori universitari, ben il 46% degli esaminati ha dichiarato di essere stato “bruciato” nel tempo nel brevettare un'idea innovativa. Quando la forza impressa nella storia (nella vita, nella tecnologia) ha deciso di far sbocciare una nuova forma, insomma, conclude Kelly, essa trova inevitabilmente il modo di realizzarla, con la stessa sovrabbondante (quasi dilapidante) generosità di ogni potenza generativa, apparentemente incurante degli specifici individui coinvolti nell'azione.
Accanto all'inevitabilità della direzione, il secondo carattere basilare dell'evoluzione tecnologica consiste nella sua esponenzialità. Dopo più di cinquanta anni di validazione della cosiddetta “legge di Moore”, il concetto di “esponenzialità” si sta espandendo in sempre più ampi settori tecnologici ed è sempre più al centro dei dibattiti sulla Singolarità tecnologica di prossima immanenza. Kelly documenta come la regola dell'accelerazione esponenziale della velocità del progresso tecnologico valga, attualmente, non solo per il numero di chip all'interno del circuito elettronico (la famosa scoperta dell'ingegnere della Ibm Gordon Moore, da cui prende il nome la “legge”), ma, ormai, anche per l'ambito della trasmissione dei dati con fibra ottica, per il sistema wireless, per il sequenziamento del DNA, per gli avanzamenti nei territori delle neuroscienze e delle biotecnologie. Per ritrarre figuratamente questo stato di cose, Kelly ricorre all'espressione «evoluzione dell'evoluzione» (p. 351): l'evoluzione non è da pensare come un contenitore statico e fuori dal tempo in cui gli eventi al proprio interno progrediscono incessantemente, perché anch'essa (come contenitore) è coinvolta nel processo, assumendo via via forme sempre più sofisticate ed efficaci, “come un livello superiore di un videogame”, dove incessantemente compaiono situazioni e avvenimenti più veloci, più complessi e molto spesso inaspettati. La mente umana si trova in qualche difficoltà a darsi ragione di una tale dinamica, ma per fortuna, osserva Kelly, c'è la tecnologia a supportarla. Per suffragare la tesi, Kelly ricorre ad un aneddoto storico ad alto tasso persuasivo. Nel 1953, il Dipartimento dell'Aeronautica statunitense si trovò ad analizzare i dati raccolti circa l'allora relativamente breve storia dei mezzi aerei più veloci. Il grafico disegnato partiva dal primo volo dei fratelli Wright nel 1903 in cui l'aereo raggiungeva una velocità di 6,8 km orari. Dopo due anni gli aerei potevano vantare una percorrenza di 60 km all'ora. Nel 1947, il caccia Lockheed Shoot Star toccò per la prima volta i 1000 km/h e nell'anno in corso, il 1953 appunto, si era conquistata la velocità dei 1215 Km/h. Gli ingegneri militari provarono a proseguire la curva tracciata sul grafico, tentando di estrapolare previsioni, ma scoppiarono a ridere sul loro stesso operato davanti alla predizione secondo cui, nell'arco di quattro anni, i mezzi aerei avrebbero raggiunto la velocità orbitale e poco dopo, aldilà del campo gravitazionale terrestre, avrebbero potuto raggiungere la luna. All'epoca, un pensiero del genere urtava ogni sano realismo scientifico oltre che il fidato e buon senso comune; «l'unica voce a dir loro che avrebbero potuto farlo era una curva tracciata su un pezzo di carta» (p. 163). La conclusione di Kelly s'incastona nell'emblematica esortazione: «diamo ascolto alla tecnologia» (p. 162), perché essa insegna a “pensare esponenziale” – e non più “lineare” – come il nostro tempo esige; perché essa ha connaturato in sé il concetto di “evoluzione dell'evoluzione”; perché essa, oltre tutto, è dalla parte dell'umanità – e non contro – e addirittura è parte dell'umanità, tanto che, per noi umani, «rifiutare la tecnologia significa di fatto autoavversione» (p. 194).
La conclusione 'semi-teologica'
Kelly – che in un file audio nel suo sito personale narra suggestivamente della propria conversione alla religione cattolica – si rende ben conto di aver più volte sfiorato, nel percorso di questo libro, la dimensione teologica, e nelle pagine finali non teme di riprenderla frontalmente. I suoi interlocutori privilegiati sono i teologi protestanti John B. Cobb Jr. e David Ray Griffin, autori, nella seconda metà degli anni Settanta della cosiddetta “teologia del processo” (Process Theology: An Introductory Exposition, Westminster Press, 1976; Queriniana 1978) che, nella ricostruzione di Kelly, «descrive Dio come un processo … flusso, movimento, un divenire primario fattosi da sé» (p. 365). All'interno di queste categorie, Kelly valuta l'incessante spinta in avanti della complessità autorganizzantesi della vita (ovvero del Technium) nient'altro che «un riflesso del divenire di questo Dio» (ibid.). Il Technium, precisa Kelly a scanso di equivoci, non è Dio, perché «non è abbastanza grande per questo» (p. 369), tuttavia, esso è un suo segno, un suo analogo, nonché il più potente attuale strumento per compiere il suo Disegno. Siamo giunti ai pensieri finali che l'autore condisce con un certo gusto del paradosso, come quando afferma che v'è più immagine e somiglianza divina in un dispositivo di tecnologia avanzata che in una forma primitiva di vita, oppure dove suggerisce di guardare al nostro intero ambiente tecnologico, più che come un'opera dell'ingegnosità umana, come una testimonianza del sacro: «in un nuovo periodo assiale le più grandi opere tecnologiche forse saranno considerate un ritratto di Dio, non nostro. Oltre a fare ritiri spirituali nei boschi di sequoie, potremo perderci nei labirinti di un network vecchio di duecento anni. Le intricate, insondabili stratificazioni di logica costruite in un secolo, prese a prestito dagli ecosistemi della foresta pluviale e intessute della bellezza di milioni di menti artificiali attive, ci diranno la stessa cosa che ci dicono le sequoie, solo a più alta voce e in un modo più convincente:”'Molto prima che tu fossi, io c'ero”» (p. 368). E in questa speciale mistura tra l'oracolare e il sapienziale, il mistico e il teo-tecnologico, il libro trova la sua conclusione.
Una concezione che prende forma
Una storiella apocrifa che compare, tra le varie versioni, nel libro Velocità di fuga di Mark Dery (New York 1996; tr. it., Feltrinelli 1997), presenta il presidente Eisenhower (tanto per offrire una coordinata temporale) che incede risolutamente in una stanza piena di computer e pone alla macchina la domanda: 'Esiste Dio?'. I computer si misero al lavoro in un cigolante rullio e un rutilante lampeggiare di lampadine, fino a che, passato qualche secondo, una voce meccanica rispose: “Ora c'è!”. La credenza che con l'avvento dell'Intelligenza artificiale si possa realizzare una condizione sovrumana e finanche divina circola a più livelli nella mitologia contemporanea. Kelly ne offre una versione decisamente sofisticata, collegandosi esplicitamente (cfr. p. 364), in questo, ad un altro autore di culto della contemporanea filosofia della tecnologia, Ray Kurzweil che, in La Singolarità è vicina, concludeva: «L'evoluzione va in direzione di una maggior complessità, una maggior eleganza, una maggior conoscenza, una maggior intelligenza, una maggior bellezza, una maggior creatività e livelli più alti di attributi fini come l'amore. In ogni tradizione monoteistica, Dio viene analogamente descritto con tutte queste qualità, ma solo senza alcuna limitazione … Ovviamente, la crescita in accelerazione dell'evoluzione non raggiunge mai un livello infinito, ma esplodendo esponenzialmente di certo va rapidamente in quella direzione» (The Singularity Is Near, Viking, New York 2005; tr. it. Apogeo, 2008, p. 388). A questo comune sentire, Kelly aggiunge la sua personale predisposizione teologica che gli fa intraprendere la menzionata divagazione (o confluenza) nella teologia del processo, una posizione teologica originariamente proposta e sviluppata, intorno alla metà del Novecento, da Charles Hartshorne e che trova una versione più moderna nell'elaborazione dei due teologi citati in Quello che vuole la tecnologia. L'ispirazione maggiore che Kelly trae dalla teologia del processo – a sua volta ispirata dalla filosofia del processo di Alfred North Whitehead – è l'immagine rarefatta di un Dio che accompagna così da vicino il divenire dell’umanità e del Cosmo da accoglierne, per certi aspetti, la mutevolezza e l’approssimarsi verso uno stato di perfezione. Una visione che, come ben si comprende, entra in una complessa dialettica con la metafisica dell’Essere. Per riferirsi a tale posizione, in tempi ancor più recenti si è fatto ricorso ad un'espressione oggi piuttosto buzzy, 'ronzante', in ambito teologico, ovvero 'panenteismo' che si avvicina, non solo terminologicamente, alla teoria panteista, ma ne evita le derive non ortodosse: per il panenteismo, infatti, Dio non coincide con l’Universo, seppur l’Universo sia riconosciuto essere parte di Dio. L'espressione è stata usata per la prima volta dal filosofo idealista, allievo di Schelling, Karl Krause nel 1828 (Lezioni sul sistema della filosofia), per sottolineare il concetto che “tutto è in Dio”, sebbene pensieri affini ante litteram fossero già stati espressi da Spinoza, da Hegel e, con ancor maggior vicinanza alla posizione di Kelly, dal positivista Herbert Spencer che, contemporaneo di Darwin, faceva confluire la tesi dell’evoluzione dei viventi nel ben più vasto principio dell’evoluzione dell’Universo. Nelle intenzioni degli assertori, il panenteismo dovrebbe consentire una armoniosa conciliazione tra teismo (o monoteismo) e panteismo, ovvero tra l’immagine di un Dio trascendente il Cosmo (Dio come Totalmente Altro) e l’idea di un’immanenza cosmica che assorbe l’intera natura divina. In favore di una simile sensibilità ecologista spintamente attuale e di una larga disponibilità nei confronti del pluralismo religioso, il panenteismo tuttavia paga necessariamente il prezzo di dover ridimensionare il significato di aspetti teologici decisivi quali, ad esempio, la creazione ex nihilo e l’Incarnazione. Inserendosi in questo quadro, pur con la sua peculiare originalità di ingresso e di prospettiva, Kelly ne assume vantaggi, ombre e osticità.
A scongiurare il rischio di essere interpretato erroneamente come promotore di “una sorta di spirito panteista”, ci pensa esplicitamente Kelly, dichiarando, a p. 281, la sua netta distanza da esso. Non si rivela invece parimente esplicito quando, nella parte conclusiva del libro, afferma che, qualsiasi significato si voglia dare al termine “Dio”, senza dubbio questo «è il traguardo a cui punta la traiettoria ad arco del Technium» (p. 364). Rimane insoluta la domanda circa la corretta interpretazione della frase: se cioè sia da intendere che il Technium realizzerà Dio, nel senso dell'aneddoto con Eisenhower, oppure se il Technium sia da vedere come uno strumento per raggiungere il Regno, o ancora se il Technium condurrà gli esseri umani alla perennemente anelata e sommamente ardita (auto)divinizzazione. Quando Kelly non offre risposte precise alle domande che egli stesso solleva significa che anche per lui la questione rimane aperta.