A. Comte, Cours de philosophie positive, Ed. Rouen, Paris 1830-1842.
trad. it. Ezio Zagarese, Marina Maioli, Paola Fiorentini Migliucci, Corso di filosofia positiva, a cura di Franco Ferrarotti, II vols., Utet, Torino 1967.
Auguste Comte, in una delle lezioni che avrebbero costituito il suo Cours de philosophie positive[1], pubblicato in sei volumi a Parigi tra il 1830 e il 1842, condivideva l’opinione di Saint-Simon, secondo la quale la Rivoluzione francese aveva preteso di fondarsi su un anacronismo di tipo spartano (cioè la convinzione di Robespierre di poter realizzare l’eguaglianza di alcuni anche a costo dell’asservimento di altri). Aggiungeva però che il modello della schiavitù antica conteneva un fattore di «immenso progresso» (Corso, I, p. 538), mantenutosi in vita per molti secoli fino all’Impero romano incluso: aver consentito la divisione del lavoro tra funzioni industriali (relegate agli schiavi) e funzioni militari (affidate ai liberi).
Auguste Comte: un neo-illuminista oltre utopismo e Cristianesimo
Egli si poneva così sulla scia dei giusnaturalisti Grozio e Montesquieu, i quali avevano già sostenuto, rispettivamente due secoli e un secolo prima di lui, che la schiavitù antica era servita a traghettare l’umanità fuori dal modello antropofago e dell’immolazione dei prigionieri e quindi aveva costituito un progresso rispetto alla barbarie. Erede della visione illuministica del diritto naturale, fondata sul presupposto di un irriducibile e immanente conflitto nella natura umana (solo in parte sanabile con una Ragione che si mette alla ricerca di modelli nel passato per cambiare il presente), anche Comte, come i suoi predecessori illuministi, aborriva la moderna schiavitù coloniale (in quanto non fondata sulla antica “pacifica” differenziazione del lavoro tra padrone e schiavo): diversamente, altri suoi immediati predecessori (come Herder, Schiller, Winckelmann, Wilhelm von Humboldt, Condorcet) avevano preferito prendere le distanze dalla schiavitù non solo moderna, ma anche antica, senza temere, attraverso tale presa di distanza, di criticare, assieme alla schiavitù antica, anche l’antica democrazia spartana e ateniese (che sulla schiavitù si reggeva).
Il progetto filosofico, che Comte (all’inizio dell’edizione del 1864 del Cours) scriveva di aver avuto in mente fin dai quattordici anni, consisteva proprio nella descrizione «dell’insieme dell’evoluzione umana, individuale e collettiva»[2]. Esso si allontanava nettamente da entrambe le prospettive filosofiche che allora si confrontavano nella Francia “liberale” appena uscita dalla Rivoluzione di luglio (1830) che aveva messo sul trono Luigi Filippo d’Orleans, figlio dell’omonimo cugino di Luigi XVI che, nel 1789, era stato tra i rivoluzionari della prima ora per cadere poi vittima del Terrore nel 1794. Da una parte c’era il socialismo utopistico, il quale tentava di recuperare l’istanza palingenetica rivoluzionaria che si era spenta già il 9 Termidoro del 1794 (ghigliottinamento di Robespierrre); e dall’altra parte resisteva un pensiero politico cristiano che, in modi diversi, non dava per scontato che l’unica prospettiva possibile fosse la sovranità popolare intesa nelle due versioni dell’illuminismo (quella “anglomane” alla Montesquieu e quella “ginevrina” alla Rousseau): oltre a De Maistre e a Constant (morti rispettivamente nel 1821 e nel 1830), François Guizot (Ministro dell’Interno, dell’Istruzione e degli Esteri e dal 1847 Primo Ministro di Luigi Filippo) e Alexis De Tocqueville, che tra il 1835 e il 1840 dava alle stampe la Démocratie en Amérique.
Degli utopisti, Comte condivideva la tensione verso una «rigenerazione universale» che, come in loro, anche in lui era nata «sotto l’attivo impulso della salutare crisi rivoluzionaria»[3] che aveva preceduto la sua stessa venuta al mondo; ma obiettava agli utopisti una cosa molto simile a ciò che negli stessi anni, dalle rive tedesche del Reno, obiettava loro anche il giovane Marx: il non essere scientifici e l’affidare invece la delineazione dei caratteri della società futura a una mera rescissione dei ponti col passato, rifiutandosi di intraprendere un lavoro sulla storia per distinguervi ciò che meritava (e ciò che non meritava) di essere recuperato, in modo tale che la società del futuro avesse caratteri meno imprecisi. Con i “cristiani”, egli risultava inevitabilmente meno tenero, nel senso che, con costoro, non poteva evidentemente condividere il suo riconoscimento dell’anacronismo rivoluzionario francese come salutare e progressivo rimedio ai mali dell’Ancient Regime.
Il filosofo scientifico, progressista e critico del cristianesimo (fu discepolo e segretario di Saint-Simon, diventandone poi antagonista proprio per il fatto di non condividerne l’utopismo) era nato nel 1798 a Montpellier da modesta famiglia, cattolica e monarchica, distaccandosi dalla cultura familiare soltanto all’indomani del suo trasferimento a Parigi, nell’ottobre 1814, per frequentare l’École Polytechnique: la celebre istituzione universitaria nata nel 1794 come fucina dell’esercito della Rivoluzione e poi trasformata in vista della preparazione di tecnici e ingegneri, nonché, durante l’appena concluso regime napoleonico (il Congresso di Vienna sarebbe iniziato di lì a un mese), assoggettata a un regime militare che non era però riuscito a spegnerne quello spirito di libera ricerca che Comte iniziava (assieme ad altri) a vedere minacciato dallo spirito della Restaurazione.
Licenziato dalla scuola per aver criticato un docente e per aver in tal modo preso indirettamente posizione contro la Restaurazione, dovette concludere gli studi da autodidatta, cominciando a vivere di lezioni private e progettando un trasferimento (mai realizzato) negli Stati Uniti, fino all’incontro con Claude-Henry de Rouvroy, conte di Saint Simon: il sessantenne già combattente nella guerra di Indipendenza americana, poi rivoluzionario a Parigi e, all’indomani della Restaurazione, oltre che socialista utopista, anche affarista nel campo della speculazione immobiliare. Comte ne divenne segretario nel 1818, collaborando anche alle pubblicazioni periodiche da lui promosse con scritti prevalentemente sulla libertà di stampa, ma anche di filosofia sociale (uno dei quali uscì in seconda edizione sotto forma di opuscolo a firma di Comte nel 1824 con il titolo di Système de politique positive), fino alla rottura tra i due: a provocarla fu il fatto che Saint-Simon ripubblicò quell’opuscolo nel terzo quaderno del Catéchisme des industriels, ma senza la firma di Comte.
C’era evidentemente anche altro tipo di ruggine intellettuale accumulatasi tra Saint-Simon (che morì l’anno dopo) e il giovane collaboratore: quest’ultimo, mentre sposava una donna conosciuta quattro anni prima, rincontrata in una sala di lettura e già madre di una figlia avuta da un italiano, continuava a coltivare l’interesse filosofico-politico continuamente frustrato da ristrettezze economiche di poco alleviate dalle lezioni private. L’unica soluzione fu accettare l’offerta di collaborazione con il settimanale «Le Producteur» avanzatagli dal redattore capo dello stesso, nonché avvocato e già protettore della moglie, con il quale la donna minacciava di riprendere le relazioni: l’avvocato Cerelet consentì a Comte di pubblicare, sul suo giornale, altri due opuscoli di filosofia sociale e di avere uno stipendio, che tuttavia non dovette risultare sufficiente, se già nel 1826 il giovane neoassunto progettava un corso di filosofia positiva, le cui lezioni (poi progressivamente raccolte nei sei volumi pubblicati tra il 1830 e il 1842) si tennero, tra il 1826 e il 1829, in luoghi prestigiosi di Parigi (tra i quali l’Athénée royal) e davanti a un uditorio composto da uomini di cultura francesi e stranieri: tra loro, anche Alexander Von-Humboldt (il naturalista berlinese fratello del più noto e già citato fondatore dell’Università di Berlino Wilhelm).
Simpatetico, nel 1830, con la Rivoluzione liberale di luglio, al punto che, lasciatosi trascinare dagli eventi, fondò l’Associazione politecnica per l’istruzione popolare e due anni dopo venne nominato ripetitore di analisi e di meccanica all’École Polytechnique, lo fu molto meno col Ministro François Guizot: esponente dell’ala “cristiana” della filosofia politica francese del tempo (alla quale si è già accennato sopra), bocciò il suo progetto di istituire una cattedra di Storia generale di scienze fisiche e matematiche al Collège de France e contribuì anche a fargli perdere la cattedra di analisi all’École Polytechnique, ragion per cui Comte dovette accontentarsi del posto di ripetitore ed esaminatore di ammissione, che avrebbe però perso nel 1844, due anni dopo essersi separato dalla moglie e aver pubblicato il sesto (e ultimo) volume del Cours. Gli restava comunque un posto di preparatore di candidati in matematiche speciali presso l’Istituzione Naville.
Il corso di filosofia positiva e la rifondazione delle scienze sociali
A “insospettire” un Guizot era forse proprio l’impostazione di filosofia sociale del Cours, affatto incline ad alcuna forma di conservatorismo, innestata viceversa nel solco del pensiero rivoluzionario, che intendeva anzi portare a compimento sostituendone l’elemento utopista con quello della scienza positiva. Comte inaugurava quindi una critica al socialismo utopistico, nella quale si stava per inserire anche il giovane Karl Marx (appena trasferitosi a Parigi da Colonia nel 1843), e si guadagnava la stima del liberalista inglese John Stuart Mill, proponendo la propria visione progressiva (ma ordinata e non utopista) dello sviluppo della storia umana, che, a giudizio di Karl Löwith, è l’unica che, «per vastità di orizzonte – anche se non per profondità di pensiero – può essere paragonata alla filosofia della storia di Hegel»[4]: secondo il filosofo di Montpellier, «l’ordine e il progresso che l’antichità considerava assolutamente inconciliabili, rappresentano sempre più per la natura della civiltà moderna due condizioni egualmente importanti, la cui intima ed indissolubile combinazione caratterizza ormai e la fondamentale difficoltà e la principale risorsa di ogni sistema politico. Nessun ordine reale può più essere stabilito, né soprattutto durare, se non è pienamente compatibile con il progresso; nessun grande progresso potrebbe effettivamente compiersi, se non tendesse infine all’evidente consolidamento dell’ordine» (Corso, I, p. 48).
Articolata in sei lunghi volumi, la filosofia comtiana approdava al campo antropologico e socio-politico soltanto nella sesta e ultima sezione, mentre le prime cinque risultavano dedicate rispettivamente a filosofia, matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia. Già in esse, tuttavia, l’intellettuale di Montpellier chiariva che il suo intento consisteva nell’adattare il metodo delle scienze della società e della storia a quello baconiano, galileiano e cartesiano delle scienze sperimentali, basato sulla rinuncia alla ricerca delle cause essenziali dei fenomeni: come nella scienza moderna, allora, anche nelle scienze sociali il metodo doveva essere non più quello della ricerca aristotelica dell’essenza, ma quello sperimentale dell’osservazione e, su tale base, della formulazione dell’ipotesi di lavoro, «guida luminosa»[5] posta (in questo senso metodo “positivo”) dallo scienziato per interpretare i fatti.
Comte si era tuttavia anche premurato di spiegare, nell’introduzione all’opera, che questo tipo di scienza sociale positiva era comunque una filosofia («filosofia positiva» appunto come recitava il titolo dell’intero corso), intesa «nell’accezione generale» che le avevano dato gli antichi «e in particolare Aristotele», per indicare «il sistema generale delle conoscenze umane»[6]: si trattava evidentemente di mantenere in vita il metodo della filosofia (la conoscenza dell’intero), ma modificandone il contenuto, dato che l’intero comtiano si configurava come intero solo fisico e, in questo senso, risultava liberato «da ogni indiretta influenza dell’antica filosofia» (Corso, I, p. 43).
Consapevole che la filosofia antica, nel corso del Medioevo, si era trasformata in teologia, Comte, nell’ultimo volume del Cours, si diceva pronto a riconoscere che il primo sviluppo della società moderna si fosse compiuto sotto la «benefica tutela» (Corso, I, p. 52) della teologia cattolica medievale: aggiungeva però che, a suo giudizio, non era «meno incontestabile che, da circa tre secoli, la sua influenza è stata, nei popoli più progrediti, essenzialmente retrograda» (Corso, I, p. 52). Tanto più alla luce del fatto che, secondo lui, l’umanità era ormai definitivamente entrata, grazie alle Rivoluzioni francese e industriale, nello stato “positivo” e si era quindi lasciata alle spalle il precedente stadio “metafisico”, nel quale la realtà sociale e politica (nonostante l’affermarsi dello sperimentalismo in campo naturale) veniva ancora interpretata come manifestazione di idee astratte: essere “teologici” in pieno secolo XIX significava, quindi, tornare indietro non di una, ma di due fasi, vale a dire alla fase teologica medioevale, nella quale società e politica venivano viste come il prodotto diretto di agenti soprannaturali.
Per mettersi invece al passo con la nuova temperie positivista, era necessario lasciarsi alle spalle l’impostazione teologica antica-medioevale (e quindi del cattolicesimo che ne fu il detentore) e valorizzare il beneficio che la fase successiva (quella «metafisica rivoluzionaria» moderna iniziata dalla Riforma protestante) aveva apportato: «la demolizione del regime teologico e feudale» mediante le dottrine del libero esame, della libertà di coscienza e della sovranità popolare. Ma ciò non doveva portare alla dimenticanza che la fase metafisica, pur avendo favorito la nascita dello spirito positivo (distruggendo quello teologico), era degenerata (durante la Rivoluzione francese) in uno «spirito di anarchia» (Corso, I, p. 66) che, se fosse durato, avrebbe impedito lo sviluppo della fase positiva: la quale (dal punto di vista sociale) presuppone non l’anarchia, ma «un certo grado di fiducia reciproca, al tempo stesso intellettuale e morale, fra i suoi diversi membri, ciascuno dei quali prova il continuo bisogno d’una quantità di nozioni, alla cui formulazione deve restare estraneo, e che non può ammettere che basandosi sulla testimonianza altrui» (Corso, I, p. 74).
La fase positiva doveva quindi caratterizzarsi come superamento insieme del cattolicesimo (anima della fase teologica) e del protestantesimo (anima della fase metafisica), attraverso quella sintesi, che solo il metodo scientifico moderno applicato alle scienze sociali era in grado di fare, tra lo spirito cattolico dell’ordine e lo spirito protestante del progresso: in altre parole, le ipotesi scientifiche sulla società e sulla storia (che sostituiscono l’ordine antico-medioevale delle essenze aristoteliche) impedirebbero al culto moderno per i fatti di degenerare in descrittivismo fine a se stesso e darebbero vita, in tal modo, all’unica idea di progresso possibile, quella scientifica appunto.
Nel 1844, la già accennata perdita del posto di esaminatore all’École Polytechnique venne compensata dalla sottoscrizione che Stuart Mill promosse tra gli estimatori di Comte in Inghilterra, ma che già l’anno dopo rifiutava di rinnovare: alla separazione dalla moglie seguiva invece il rincontro con Clotilde de Vaux, sorella di un suo vecchio discepolo, e l’inizio di una storia d’amore con sfumature mistico-religiose interrotta bruscamente dalla morte della donna nella primavera del 1846.
L’anno successivo Comte rinnovava la richiesta della creazione di una cattedra universitaria di Storia generale delle scienze positive; poi, con la caduta di Luigi Filippo e l’istaurazione della Repubblica in seguito alla Rivoluzione di febbraio (1848), riusciva a fondare, anche grazie a un sussidio positivista da parte del suo allievo Émile Littré, la Société positiviste, alla quale, l’anno dopo, affiancava una vera e propria Chiesa positivista, dotata di catechismo, divise e calendario.
Tra il 1851 e il 1854, mentre uscivano i quattro volumi del Système de politique positive e la prima traduzione inglese del Cours (ridotta), Comte nel 1851 perdeva anche il posto di ripetitore all’École Polytechnique (trovandosi costretto a vivere esclusivamente del libero sussidio dei fedeli della Chiesa positivista) e salutava con favore il colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte: vedendovi una valida alternativa all’anarchia, provocava però, con il suo bonapartismo, molte defezioni all’interno della Società e della Chiesa positivista, tra le quali quella di Littré a cui fu costretto a togliere la direzione del sussidio, che continuò quindi ad amministrare personalmente.
Il dissenso crebbe ancora di più quando, nel 1855, il sessantenne filosofo progressista scientifico e anti-cristiano auspicava per la Francia e per l’Europa una transizione organica verso un regime politico, sociale ed economico progressivo e ordinato, e decideva di consegnare questo suo auspicio a un Appel aux conservateurs.
Due anni dopo, il 5 settembre 1857, anche indebolito da un regime di sottoalimentazione volontariamente imposto per dare l’esempio di una sobrietà positiva, Auguste Comte moriva a Parigi di emorragia interna, lasciando interrotto un enorme programma di lavori, tra i quali anche un Appel aux Ignatiens. Qui egli, coerentemente con la sua idea (già espressa nel Cours) secondo la quale il “sistema” cattolico (in quanto sistema di ordine) era utile alla nuova epoca positiva, prevedeva e auspicava che i gesuiti si sarebbero emancipati abbastanza per sentire la superiorità di Ignazio di Loyola su Cristo. L’8 settembre un gruppo di amici e di vicini accompagnavano la salma per inumarla al cimitero di Père-Lachaise.
Bibliografia
A. Comte, Corso di filosofia positiva (1830-1842) a cura di Franco Ferrarotti, II vols., Utet, Torino 1967.
H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo (1943), Jaca Book, Milano 1992, pp. 117-218.
K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della fine della storia (1949), Edizioni di Comunità, Milano 1963 (pp. 104-144).
A. Negri, Introduzione a Comte, Laterza, Roma-Bari 1983
[1] La traduzione italiana comprende le lezioni 46-60, dedicate alla fisica sociale e alla sociologia. L’opera verrà citata tra parentesi nel testo come “Corso”.
[2] A. Comte, Cours de philosophie positive, Parigi 1864, p. 7.
[3] Ibidem.
[4] K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della fine della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 104.
[5] A. Comte, Cours de philosophie positive, vol. IV, p. 220.
[6] A. Comte, Cours de philosophie positive, Introduzione, p. XIII.