Jean-Baptiste de Lamarck, Philosophie zoologique, Paris, Dentu 1809.
Trad. it. Giulio Barsanti, Filosofia zoologica, Firenze, La Nuova Italia 1976.
La novità dell’opera
Il contributo di Jean-Baptiste Lamarck alla fondazione del pensiero evoluzionista è stato talvolta sottovalutato a seguito di interpretazioni limitative e parzialmente fuorvianti. All’epoca della pubblicazione della Filosofia zoologica (1809, cinquant’anni prima de L’origine delle Specie di Charles Darwin), le idee trasformiste ed evoluzioniste di Lamarck si trovavano in antitesi con il paradigma scientifico all’epoca dominante, vale a dire la concezione fissista delle specie. Alcuni dei più influenti sostenitori di questa teoria consolidata osteggiarono apertamente le idee lamarckiane, fino al punto da screditarne l’attendibilità scientifica. Successivamente, lo stesso Darwin non sembrò riconoscere i meriti della concezione evolutiva proposta da Lamarck, nonostante, come si vedrà in seguito, le idee dei due autori presentino ben più di qualche occasionale e sporadica comunanza. Quando poi l’evoluzionismo divenne a sua volta il paradigma scientifico dominante, soppiantando del tutto il fissismo, Lamarck è stato spesso ricordato in letteratura principalmente in relazione alla teoria della “ereditarietà dei caratteri acquisti” (la trasmissione alle generazioni successive delle modificazioni nelle caratteristiche strutturali/funzionali che un organismo acquisisce durante il corso della propria esistenza), idea definitivamente confutata dal successivo accertamento dell’ereditarietà genetica. Tuttavia, come si avrà occasione di sottolineare, non solo la concezione lamarckiana rimane fondativa per il paradigma evoluzionista, ma risulta anche sorprendentemente attuale in riferimento a recenti sviluppi della stessa teoria dell’evoluzione.
I capisaldi della concezione evoluzionista delineata nella “Filosofia zoologica”.
Nella sua indagine volta a spiegare i fenomeni osservabili nella sfera del vivente, Lamarck si concentra in maniera specifica sulla organizzazione degli animali, nella sua costituzione e diversificazione. Per Lamarck, infatti, ogni essere vivente è un tutto organizzato, e le sue parti, sebbene possano e debbano essere studiate separatamente per cogliere affinità e diversità con altri organismi, risultano intimamente integrate. Questa organizzazione, comune a tutti i viventi, risulta ampiamente diversificata e altamente complessificata, nel senso che alcune forme di vita presentano caratteristiche funzionali e facoltà superiori rispetto ad altre. In altri termini, anche per Lamarck si ha a che fare con una sorta di ordine gerarchico, in conformità all’idea tradizionale di una scala naturae. Tale stato di cose, tuttavia, deve essere spiegato in termini naturalistici, individuando principi e meccanismi puramente immanenti, a prescindere da qualsiasi incidenza di fattori meta-fisici che trascendano le cause naturali. In questo senso, la scala naturae testimonierebbe piuttosto una derivazione o, meglio, una discendenza comune a tutti gli esseri viventi. Le specie si sono progressivamente trasformate (e alcune di esse sempre più complessificate) nel corso della storia della vita sulla Terra, e in virtù del dinamismo intrinseco al mondo naturale. La posizione evoluzionista assunta dall’autore non potrebbe essere più netta, visto anche la sua esplicita dichiarazione sulla necessità di identificare le cause delle differenze e delle variazioni presentate dagli organismi, oltre a quelle relative alle loro analogie. Si ha dunque a che fare con un processo di trasformazione attraverso il tempo costituito da una componente di continuità e una componente di discontinuità. E di continuità e discontinuità si può parlare anche a proposito del mondo naturale nel suo insieme e nel suo continuo divenire.
Lamarck abbraccia l’idea della “generazione spontanea”, per la quale la vita si sarebbe originata come un fenomeno dalle cause totalmente e puramente naturali a partire da materia inanimata (continuità). Tuttavia, per Lamarck, un approccio riduzionista è inadeguato: i viventi non si possono indagare solamente in termini fisico-chimici, piuttosto si dovranno individuare principi e meccanismi che caratterizzano la sfera della vita nel suo specifico (discontinuità). Ora, in tale ottica, il criterio di spiegazione attorno a cui ruota la concezione lamarckiana è che la summenzionata organizzazione interna, propria di ogni essere vivente, è radicalmente dipendente dall’ambiente esterno quanto al suo mantenimento, sviluppo e cambiamento nel corso del tempo. Ciascun organismo intrattiene con l’ambiente continue interazioni indispensabili alla sua sopravvivenza, che lo spingono a modificare azioni e comportamenti, fino al punto di sviluppare nuove abitudini. Siccome l’ambiente stesso si trova in continuo e incessante mutamento, gli stimoli e le pressioni che esso induce sull’organismo variano anch’esse, spingendo a nuove modifiche, ed eventualmente a vere e proprie riorganizzazioni sia a livello strutturale sia a livello comportamentale. A questo riguardo, è opportuno sottolineare che, in generale, secondo Lamarck, non si può dire che l’ambiente produca direttamente modificazioni adattative nell’organismo. Le circostanze ambientali stimolano e influenzano, ma non determinano di per sé una soluzione adattativa specifica.
Nonostante siano state date interpretazioni contrastanti sull’argomento, Lamarck è molto chiaro quando, proprio temendo di essere frainteso, scrive: «(…) di qualsiasi genere possano essere le circostanze, esse non operano mai direttamente, sulla forma e l’organizzazione degli animali, alcuna qualsiasi modificazione» (Filosofia zoologica, p. 147). Piuttosto, l’insorgere della modificazione strutturale/funzionale o, in termini più moderni, la produzione della variazione fenotipica adattativa, ha luogo in virtù delle potenzialità dell’organismo di reagire attivamente, di compiere degli sforzi per venire incontro alle stimolazioni ricevute dall’esterno. E tali reazioni dell’organismo implicano, sempre secondo la linea argomentativa dell’autore, il maggiore o minore uso di determinati organi che vengono sviluppati e affinati, oppure ridotti fino ad atrofizzarsi e scomparire del tutto. In ciò consiste il primo dei due principi cardine della concezione lamarckiana, ovvero il “principio dell’uso e del disuso”. Il secondo principio è invece la già richiamata “eredità dei caratteri acquisiti”: le modificazioni fenotipiche che un organismo riesce ad acquisire durante la propria vita, grazie agli sforzi nel rispondere alle stimolazioni ambientali, vengono trasmesse alle generazioni successive. In tal modo, le modificazioni adattative si diffondono e rafforzano sempre più a discapito delle modificazioni non adattative, fino a che altri stimoli provenienti dall’ambiente spingeranno all’acquisizione di nuove caratteristiche, promuovendo così ulteriori cambiamenti all’interno delle specie. Attraverso questa dinamica di fondo, incessantemente all’opera nel corso della storia della vita sulla Terra, si accumulano variazioni su variazioni, gradualmente e successivamente, di modo che nuove specie vengono prodotte a partire da quelle già esistenti.
Secondo Lamarck, insomma, il principio dell’uso e del disuso insieme a quello dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti sono di base alla formazione e ramificazione dell’albero filogenetico e al processo di speciazione. L’apparizione di specie più complesse e dotate, come si diceva, di facoltà superiori parte sempre da esigenze derivate dall’ambiente, e il valore adattativo di tali specie risulta quindi non assoluto, ma sempre relativo: in determinate condizioni ambientali, la maggiore complessità può rivelarsi persino uno svantaggio. In altri termini, non c’è una assoluta e aprioristica necessità per il progresso dal meno complesso al più complesso, si tratta piuttosto di una necessità dettata dalle circostanze, le quali possono cambiare in ogni momento. Ciò spiega perché il processo di trasformazione delle specie attraverso il tempo (l’evoluzione) non segua un andamento lineare, nel senso di un incremento costante di complessità, ma proceda in maniera discontinua, secondo irregolarità, frammentazioni e persino interruzioni, nel momento in cui alcune specie non riescono adeguatamente a rispondere ai requisiti ambientali. Ciò, però, non significa che si debba pensare a “salti” o “balzi” nel corso del processo evolutivo. Anche nel caso di catastrofici sconvolgimenti ambientali, che possono aver determinato la scomparsa di interi taxa (raggruppamenti di organismi con morfologie comuni) il processo evolutivo continua ad operare in maniera graduale, conducendo al ristabilimento di un ordine dinamico tra le forme di vita esistenti. Stesso discorso per quel che riguarda l’apparizione di specie sorprendentemente più complesse rispetto ai loro “parenti più stretti” dal punto di vista filogenetico: si tratta di cambiamenti lenti e graduali, compiuti attraverso piccole modificazioni anche difficilmente percettibili, lungo un processo che richiede tempi lunghi e il passaggio di molte generazioni. Nell’ Origine delle specie, Darwin argomentava le proprie idee in maniera molto simile. Il naturalista inglese sottolineava infatti l’importanza di tenere conto delle più sottili e apparentemente insignificanti variazioni che, per quanto possano sfidare le nostre capacità di osservazione, non dovrebbero mai sfuggire all’occhio del naturalista. L’accumulo progressivo di piccole e impercettibili modifiche è ciò che infine conduce, per Darwin come per Lamarck, alla produzione di spiccate differenze tra gli esseri viventi, ma ciò richiede, appunto, quelli che chiameremmo oggi “i tempi dell’evoluzione”. E Lamarck, proprio a tale proposito, invita a sforzarsi di abbandonare la prospettiva temporale legata ai limiti dell’esistenza umana, al fine di comprendere le dinamiche inerenti al processo di trasformazione degli organismi, continuamente all’opera fin dalla comparsa delle prime forme di vita.
Lamarck e Darwin: un confronto.
Approfondiamo adesso le affinità tra la concezione lamarckiana delineata nella Filosofia zoologica e quella darwiniana facente capo a L’origine delle specie. Dal punto di vista metodologico, entrambi gli studiosi si preoccuparono di giustificare la propria concezione teorica su fatti osservabili. Sia per Lamarck che per Darwin, una fonte preziosa di prove a sostegno della trasformazione delle specie proviene dai risultati degli interventi e degli esperimenti che l’uomo compie sui viventi, come nel caso di innesti, di incroci tra razze, e della messa in cattività di animali che, lontani dal loro ambiente di origine, presentano notevoli modificazioni comportamentali. A proposito, poi, dell’osservazione diretta sul mondo naturale, una fonte privilegiata di dati corroboranti è costituita dall’esplorazione di nuove aree geografiche che tanto può risultare indicativa per ciò che riguarda la diversificazione delle specie in relazione all’ambiente e la multiformità degli ecosistemi in genere. Inoltre, il reperimento di resti fossili, che testimoniano l’esistenza di specie dalle peculiari caratteristiche morfologiche, molto diverse rispetto a quelle direttamente osservabili. Per inciso, nella Filosofia zoologica Lamarck sottolineava il fatto che molte aree del Pianeta non erano ancora state esplorate, motivo per cui il naturalista francese non si sentiva di sbilanciarsi nel concludere in merito alla reale estinzione di alcune specie (siamo nel 1809, non dimentichiamolo). Da parte sua, Darwin, ne L’origine delle specie, doveva fare i conti con l’incompletezza delle testimonianze paleontologiche e con la difficoltà di individuare “forme intermedie”. La preoccupazione dei due autori è di base la stessa: difendere il gradualismo dell’evoluzione, in conformità ad una visione puramente naturalistica, in opposizione ad una concezione creazionista, intesa come l’apparizione ex abrupto di nuove specie (compreso l’uomo), attraverso innumerevoli interventi separati, causati in modo diretto da un Creatore che opera sulla natura.
In breve, si può dire che sia per Lamarck sia per Darwin Natura non facit saltum. Con questo, ci inoltriamo in considerazioni di carattere più specificatamente ontologico, laddove è possibile riscontrare un’ulteriore comunanza di fondo tra le idee dei due studiosi. Coerentemente alla loro visione evoluzionista e naturalista, Lamarck e Darwin portano avanti un discorso filosofico e scientifico sul vivente che ha come riferimento ontologico sostanziale l’individuo, l’organismo individuale. Le specie in quanto tali, pur possedendo un certo grado di realtà, non possono essere “ipostatizzate” proprio in quanto si trovano indissolubilmente legate a quella dimensione di continuo mutamento e divenire propria della sfera del vivente. Per quanto si possano individuare caratteri comuni a più individui e classificarli, a ragione e secondo criterio, come appartenenti ad una stessa specie, una volta che si “inforcano le lenti” della prospettiva trasformazionista ed evoluzionista, le specie stesse cessano di essere entità stabili e definite una volta per tutte (e di qui le numerose ambiguità e controversie che sorgono nel lavoro di classificazione, come sottolineato da Lamarck). Quanto poi alle categorie classificatorie superiori, come genere, ordine e classe, Lamarck e Darwin non sembrano avere dubbi: esse sono puramente convenzionali, non hanno cioè una controparte ontologica di riferimento nel mondo naturale, quantunque rimangano strumenti necessari per il lavoro del naturalista.
Infine, soffermiamoci un attimo su un raffronto tra i principi teorici formulati dai due autori. Una spiccata differenza consiste nell’idea di selezione naturale che Darwin propugnò esplicitamente come principio a fondamento della propria teoria. Secondo Darwin, la produzione di variazione e la selezione di varianti in relazione alle pressioni ambientali rappresentano processi distinti, due concatenazioni causali indipendenti che si incrociano in maniera del tutto contingente. La selezione naturale non può causare nulla senza l’insorgere della variazione che ha, appunto, i suoi specifici fattori determinanti. Il confronto con l’ambiente di riferimento, le interazioni con esso, determineranno poi quali variazioni risulteranno più adatte nell’assicurare maggiori probabilità di sopravvivenza e riproduzione. Di conseguenza, e del tutto similmente a quanto sostenuto da Lamarck, adattamento ed eventuale complessificazione risultano sempre relativi alle condizioni ambientali e da queste “dettati” a posteriori, piuttosto che essere stabiliti in qualche modo a priori. Certo, nella concezione tratteggiata da Lamarck, l’intero processo di evoluzione adattativa non è altrettanto chiaramente articolato e suddiviso, e tutto sembra convergere nella dinamica ambiente-organismo, con il primo che stimola e fa nascere nuove esigenze, e il secondo che si sforza di reagire a diverse e fluttuanti condizioni, sviluppa col tempo caratteristiche e comportamenti di valore adattativo, che vengono poi trasmessi alla prole. Tuttavia, come ricordato, per Lamarck l’essere vivente ha la potenzialità di modificarsi in risposta agli input ricevuti dall’esterno, ma ciò non significa che esso venga in qualche modo istruito dall’ambiente così da cambiare forma e comportamenti in una specifica maniera, vale a dire quella più adatta. Si tratta ancora di un processo del tutto privo di finalità preordinate, attraverso un molteplice e graduale sviluppo di soluzioni fenotipiche alternative, alcune delle quali riescono a corrispondere ai “requisiti” ambientali e a risultare idonei, almeno fin quando quei requisiti non mutano a loro volta.
Sebbene, ovviamente, Lamarck non enunciò esplicitamente il principio di selezione naturale, non mancano passi della Filosofia zoologica che ne richiamano da vicino il meccanismo di base. Per contro, teniamo presente che anche Darwin credeva nell’ereditarietà dei caratteri acquisiti e ne ammetteva l’incidenza causale, in combinazione con la selezione naturale, quanto alla diffusione di varianti adattative attraverso la loro trasmissione di generazione in generazione. A proposito della trasmissione dei caratteri, ricordiamo pure che entrambi gli studiosi si muovevano nel contesto della radicata convinzione per la quale i caratteri della discendenza sono sempre il risultato di una mescolanza tra i caratteri posseduti dai diretti ascendenti (blending inheritance). Sia questa idea di base, sia la possibilità di trasmettere alla prole variazioni morfologiche e funzionali acquisite con l’esperienza nel corso della vita, saranno definitivamente confutate dalla teoria dell’ereditarietà genetica, che entrerà a fare parte integrante del nuovo paradigma trasformista-evoluzionista della scienza biologica, circa un secolo e mezzo dopo l’opera di Lamarck.
La teoria lamarckiana e gli sviluppi delle teorie dell’evoluzione.
La cosiddetta “Teoria sintetica dell’evoluzione” o “Sintesi moderna” fu sviluppata durante la prima metà del secolo scorso per opera di illustri studiosi nei campi della genetica, della zoologia, della botanica e della paleontologia. Essa combinava la teoria dell’ereditarietà per trasmissione differenziale di unità discrete (poi nominate “geni”), e originariamente ideata da Gregor J. Mendel, con la selezione naturale darwiniana, dando vita ad una condivisa cornice teorica di riferimento per l’indagine scientifica sul vivente. Tuttavia, diverse questioni cruciali rimanevano sostanzialmente aperte, tra cui l’identificazione dei fattori causali relativi a: (i) la formazione e lo sviluppo dei fenotipi nella loro conformazione strutturale/funzionale, (ii) la diversificazione e complessificazione dei fenotipi nel corso del processo evolutivo, (iii) l’origine di forme di innovazione fenotipica come la comparsa di nuove facoltà e funzionalità. Tutti problemi, questi, che, come si è visto, erano assolutamente centrali nella Filosofia zoologica, laddove Lamarck proponeva di darne soluzione alla luce dell’influenza delle circostanze ambientali e delle rispondenti modificazioni all’interno degli organismi.
A seguito della scoperta della struttura del DNA e attraverso gli strumenti della biologia molecolare, diffusasi nella seconda metà del Novecento, è diventato possibile indagare i meccanismi dei processi di sviluppo a livello microscopico e accertare che già il normale sviluppo di un organismo, e quindi la costituzione del fenotipo, risulta largamente dipendente da fattori ambientali esterni. A partire da uno stesso corredo genetico, un organismo svilupperà caratteristiche diverse a seconda di variabili ambientali chiave quali, ad esempio, temperatura, sostanze nutritive, e interazione con altri organismi. Ciò deriva dal fatto che tali fattori esterni vanno a influenzare l’espressione dei geni che presiedono proprio alla formazione del fenotipo. Il che, quindi, conduce alla produzione di un’ampia gamma di variazione che poi verrà selezionata attraverso un ulteriore confronto con l’ambiente, quanto a vantaggi o svantaggi in termini di sopravvivenza e riproduzione. E ciò implica anche la possibilità di produzione di conformazioni fenotipiche insolite che, tuttavia, potrebbero risultare particolarmente adatte all’ambiente di riferimento, per eventualmente innescare le condizioni di un cambiamento a livello di speciazione. Ecco, allora, che diventa particolarmente interessante riconsiderare le idee di Lamarck in merito al ruolo centrale giocato dall’ambiente. Non una causa che direttamente determini la “giusta” soluzione fenotipica, ma nemmeno soltanto un filtro selettivo che lascia passare solo certe soluzioni (pre)determinate a livello genetico. Le variazioni non derivano soltanto da mutazioni e ricombinazioni casuali del DNA, ma anche da fattori ambientali anch’essi mutevoli, di modo che il fenotipo risulta essere prodotto sia dal genoma sia dall’ambiente, e variare al variare di entrambi (la cosiddetta “norma di reazione”). Recenti sviluppi nel campo della biologia evoluzionistica, e delle scienze della vita in genere, conducono verso l’elaborazione di una “Sintesi Estesa” che incorpori nella precedente Teoria Sintetica, tra le altre cose, l’incidenza di fattori ambientali sulla generazione delle variazioni strutturali/funzionali, oltre che sulla selezione delle stesse. Viene quindi tenuta in debita considerazione la capacità degli organismi di reagire modificandosi internamente in risposta alle condizioni esterne (“plasticità fenotipica”), ancora in una prospettiva molto simile a quella delineata nella Filosofia zoologica. Inoltre, i sostenitori della Sintesi Estesa sottolineano la capacità dell’organismo di modificare a sua volta l’ambiente mediante le proprie attività e conformemente alle proprie esigenze (“costruzione della nicchia ecologica”), alimentando in tal modo un persistente circuito a feedback che si pone al cuore dell’evoluzione fenotipica. In tal senso, si parla in termini di “co-costruzione” e di “co-evoluzione” di organismo e ambiente.
Da ultimo, ma non certo in ordine di importanza, ricordiamo il tema principale attorno al quale diversi studiosi hanno recentemente preso in considerazione un recupero delle idee di Lamarck. Si tratta della “ereditarietà epigenetica”, anch’essa prospettata come parte integrante della “Sintesi estesa” e spesso posta in relazione con l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. È stato mostrato che alcuni cambiamenti nell’espressione genetica causati da fattori ambientali, che intervengono nel corso della vita dell’organismo e determinano modificazioni rilevanti a livello fenotipico, possono essere trasmessi a generazioni successive. Tuttavia, pare opportuno precisare che ciò non significa ereditare le caratteristiche morfologiche e funzionali che un organismo acquisisce in virtù dei propri sforzi per venire incontro alle esigenze ambientali. Si tratta piuttosto della possibilità di trasmettere, in alcune specie, oltre alle informazioni codificate nel genoma, anche istruzioni riguardo al come e quando decodificare tali informazioni, attraverso fattori molecolari che vanno a regolare l’espressione genica di modo da ottenere, in generazioni successive, configurazioni fenotipiche rispondenti a certi input ambientali. A tale proposito, però, diversi aspetti rimangono da appurare sul piano scientifico, tra cui il numero delle generazioni attraverso cui, in diverse specie, continuano a presentarsi i caratteri così modificati in assenza dell’input ambientale che li aveva inizialmente stimolati.
In conclusione, vorremmo sottolineare ancora il merito da attribuire, e il debito da riconoscere, alle idee di Lamarck sia dal punto di vista scientifico sia da quello filosofico; e ciò va fatto a prescindere dalla rilevanza dei fenomeni di ereditarietà epigenetica per l’evoluzione adattativa (peraltro, oggetto di diffuse e puntuali indagini sperimentali a tutt’oggi). Lamarck è stato fondatore di un’ottica rivoluzionaria attraverso cui orientare lo sguardo sulla natura. La Filosofia zoologica rappresenta una prima esposizione sistematica e coerente della concezione evoluzionista come chiave di volta per l’intelligibilità dei fenomeni inerenti alla sfera del vivente. Tali fenomeni vengono intesi nella loro storicità, dinamismo, e appartenenza a pieno titolo alla dimensione di contingenza e divenire propria di ogni altra manifestazione naturale suscettibile di essere indagata e compresa attraverso l’impresa scientifica.
Bibliografia di approfondimento
G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979.
C. Darwin, L’origine delle specie, Newton Compton, Roma 1991.
D. Graur, M. Gouy, D. Wool, “In Retrospect: Lamarck’s Treatise at 200”, Nature 460 (688-689) 2009.
E. Jablonka, M.J. Lamb, L’evoluzione in quattro dimensioni. Variazione genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica nella storia della vita, UTET, Torino 2007.