Il processo e la realtà

Process and Reality (1929), corrected edition, edited by D.R. Griffin and D.W. Sherburne, Free Press - Macmillan, London - New York 1978



Uno dei libri del XX secolo che ha maggiormente influito sul rapporto tra fede e scienza è senza dubbio
Processo e realtà, opera matura di Alfred North Whitehead (1861-1947). Chi possiede una certa familiarità con l'abbondante bibliografia pubblicata negli ultimi anni nel campo dei rapporti fra scienza e religione, si renderà presto conto che una buona parte degli autori più citati in questo campo, al momento di inquadrare il dialogo fra questi due ambiti della conoscenza e dell'esperienza umana si ricollegano assai spesso al pensiero filosofico di Whitehead o alla sua formulazione più esplicitamente teologica, la Teologia del processo. Il sistema metafisico proposto da Whitehead nel 1929 è giudicato contenere delle virtualità particolarmente adatte alle esigenze di tale dialogo, almeno se rapportato alle categorie filosofico-teologiche della tradizione sostanzialista, tipiche, per esempio, di una certa formulazione scolastica. In questa nostra analisi cercheremo di esaminare i motivi dell'interesse riscosso da questo volume e le sue possibili ricadute in campo teologico.

Il personaggio

Whitehead, nato a Ramsgate nel Kent, Inghilterra, nel 1861, fu un uomo di sintesi, un autore che riuscì ad evitare il divario tra le "due culture", quella umanista e quella scientifica. Fin dall'inizio dei suoi studi ricevette la migliore cultura classica e anche la migliore formazione matematica. La sua carriera accademica conobbe tre stagioni: la prima a Cambridge, dove sviluppò i suoi interessi per la logica e l'analisi matematica, scrivendo insieme a Bertrand Russell i Principia Mathematica (1910-1913). La seconda tappa si svolse a Londra, presso l'Imperial College, ove si dedicò a ricerche di filosofia della scienza; e la terza a Harvard, negli Stati Uniti, dove stese le sue opere più mature di indole metafisica e, tra esse, Processo e realtà , pubblicata nel 1929.

Whitehead ha conosciuto in vita il crollo della fisica newtoniana, ritenuta fino a quel momento stabile e sicura, osservando pure in prima persona l'emergere della nuova fisica, fondamentalmente legata ai due noti sviluppi della teoria della relatività e della meccanica quantistica. Ambedue queste teorie offrivano una visione diversa della realtà, dei rapporti tra spazio e tempo, e di quelli tra le diverse forze fisiche. Vi furono importanti cambiamenti anche nel campo della matematica. Alcuni autori sostengono che, insieme a Bertrand Russell (1872-1970) , Whitehead abbia sofferto la crisi legata alla percezione dell'impossibile autofondazione della matematica, a causa di paradossi irrisolvibili, una crisi sorta in parte già con lo stesso Russell e resasi più esplicita alcuni anni dopo con Kurt Gödel. Tale stato di cose lo costrinse a ridimensionare le sue ambizioni, peraltro condivise da una generazione molto fiduciosa nelle capacità della logica e della scienza in genere. Il terzo percorso della sua attività è di indole piuttosto religiosa, ed implica un passaggio dall'ambiente anglicano confessionale, nel quale aveva vissuto la sua giovinezza, allo scetticismo caratteristico di una stagione fortemente segnata dallo scientismo, fino a una successiva maturazione che lo porta a riprendere in esame, in chiave decisamente nuova e meno confessionale, il tema di Dio. La parola "Dio" è infatti una delle più citate nell'indice tematico del volumeIl processo e la realtà . In età avanzata, fu ormai lo stesso Whitehead a riconoscere di essere stato testimone del crollo di tante certezze caratteristiche del XIX secolo, cambiamenti che certamente si sarebbero ripercossi, prima o poi, sul campo intellettuale e religioso.

Come si può notare, la vita di Whitehead fu essa stessa un "processo" segnato da cambiamenti epocali, una ricerca di verità e di sintesi, che condivise con molti altri "spiriti inquieti" della sua generazione, e che ebbe delle profonde conseguenze sia sul campo scientifico e filosofico che su quello religioso.

Il tema dell'opera

Quale è dunque il tema del libro che qui ci occupa? Lo stesso Whitehead lo dichiara nelle prime pagine: uno sforzo speculativo per organizzare la realtà e descriverne le diverse percezioni ed esperienze; un tentativo dunque di "ordinare" o di stendere una mappa del reale, dove la scienza e gli altri saperi -la morale, l'estetica e la religione- possano trovare il loro posto. Si potrebbe forse definire il suo progetto una "teoria unificata della realtà", se questa espressione non possedesse oggi delle connotazioni più fisico-cosmologiche che non filosofiche. Consapevole dei dubbi e delle perplessità che un tale progetto poteva suscitare, egli volle difenderne la sua legittimità e pertinenza. All'inizio del libro definisce la sua "filosofia speculativa" come «il tentativo di formulare un sistema coerente, logico e necessario di idee generali nei termini in cui ogni elemento della nostra esperienza possa essere interpretato» (London - New York 1978, p. 3). Certamente si tratta di un progetto di grande respiro, che intende prendere in considerazione i nuovi apporti delle scienze e la maturazione della mentalità moderna. L'opera si muove tra la metafisica e l'epistemologia, forse consapevole dell'inevitabile moderna circolarità tra la dimensione oggettiva e soggettiva della realtà. E forse anche cosciente che nella nuova fisica i fenomeni reali non possono essere del tutto separati dai processi di osservazione che vogliono oggettivarli. Interi capitoli del libro sono dedicati alle sottigliezze della percezione e della conoscenza, al difficile rapporto che si stabilisce tra il soggetto che conosce e la realtà conosciuta, un rapporto che nelle nuove formulazioni, di cui Whitehead è interprete, ne sovverte la distinzione classica.

Le fonti di cui Whitehead si serve quale ispirazione fondamentale sono principalmente gli autori dell'illuminismo europeo: Descartes, Locke, Hume e Kant. Buona parte del libro è scritto in dialogo con loro. I critici insistono sull'influsso che autori contemporanei quali W. James, Santayana e Bergson ebbero sul pensiero di Whitehead, ma un semplice sguardo all'indice finale basta per rendersi conto che questi svolgono un ruolo assai meno importante in rapporto ai precedenti autori dell'epoca moderna.

Chi abbia già sfogliato le pagine del libro avrà subito costatato una grande difficoltà di lettura, caratteristica di altre opere scritte negli anni venti e trenta. Il periodo storico pare volersi giustificare da sé a proporre un programma intellettuale diverso, che richiedeva adesso un apparato concettuale specifico e persino un linguaggio proprio. Il cambiamento che l'Autore percepisce è troppo grande per continuare ad utilizzare le parole e i concetti impiegati fino ad allora. Egli ingaggia così una scommessa totale: non una correzione di altri sistemi, ma un sistema nuovo, certamente ancorato nella tradizione filosofica moderna, ma risultato di un'evoluzione consapevole che lo avrebbe portato molto lontano. La rottura sulla quale Whitehead costruisce la sua proposta esige una sorta di "cambiamento mentale", un "quadro cognitivo" diverso, per abituarsi adesso a guardare secondo una prospettiva completamente nuova.

Volgendoci ora al suo contenuto, almeno ai punti più rilevanti da un punto di vista scientifico-teologico, osserviamo che la proposta forte dell'Autore è molto chiara e più volte ribadita lungo l'opera: la realtà non è formata da elementi stabili, da particelle, e neanche da forze, bensì da "processi". La realtà è essenzialmente dinamica. Ogni apparenza di stabilità non è che una "occasione attuale", un'attualizzazione momentanea all'interno di un processo infinito, un intervallo entro un continuum inarrestabile, sfuma non appena si tenti di tematizzarlo. Una tale formulazione ricorda certamente da vicino una posizione "eraclitea", che può facilmente iscriversi nella lunga tradizione delle visioni più dinamiche del reale, in contrasto con quelle di indole statica e sostanzialista. Vi è però una differenza importante rispetto alla posizione classica: non siamo di fronte alla semplice preferenza di un ambito metafisico nei confronti di un altro, ma ad una sorta di "resa dei conti filosofica" indotta dalla scienza fisica, quando questa viene percepita nel momento del suo massimo capovolgimento.

Dopo "aver messo in moto la realtà" senza poterla più fermare, Whitehead espone in modo sistematico, lungo tutta l'opera, quali sono le conseguenze di tale principio. Esse coinvolgono la capacità umana di percepire, di sentire (i sentimenti hanno nel suo sistema una precedenza sui pensieri), di vivere il tempo, di cogliere le potenzialità in atto, di descrivere un "ordine nella natura", di concepire gli organismi, il loro rapporto con l'ambiente. A partire da tale impostazione dinamica, ma non anarchica, tutto acquista forma ed espressione nuova. È quanto egli chiama una "filosofia dell'organismo", ovvero una concezione organica della realtà, presieduta dal principio di "con-crescenza" ( concrescence ), termine che suggerisce un coinvolgimento del tutto in un processo che abbraccia i processi parziali, presentandoli in modo correlato e interdipendente. La posizione di Whitehead pare in tal caso chiaramente opposta -forse anche in modo consapevole e intenzionale- alla grande filosofia della natura moderna, cioè all'evoluzionismo, dove regna alquanto la casualità e l'assenza di coordinamento organico. Sorprende che il nome di Darwin non venga mai citato nel libro; piuttosto lo si scopre come un un'ombra, come un antagonista latente.

L'evoluzionismo rappresentava in fondo anch'esso una grande interpretazione dinamica della realtà. La questione potrebbe ancora estendersi, visto che di filosofie soggiacenti un'interpretazione dinamica del reale ve ne sono state diverse durante il XIX secolo, a cominciare da Hegel, ma anche con A. Comte, H. Spencer o K. Marx, per fare degli esempi. In Il processo e la realtà soltanto Hegel merita alcune poche citazioni (cinque in tutto), il più delle volte per prenderne le distanze, per criticare il suo "monismo evolutivo" (cfr. p. 210), o la precedenza che il filosofo tedesco concede alle "idee". Whitehead riconosce però un'analogia con il pensiero hegeliano a proposito dello "sviluppo dell'idea", inteso come un processo che ha una dimensione soggettiva (cfr. p. 167).

Il confronto con le altre visioni dinamiche dell'epoca moderna rappresenta una buona chiave di lettura dell'opera di Whitehead. Il processo, così come viene concepito, non è per nulla caotico, come invece avviene nel caso del modello evolutivo dominante. Pensare Dio, afferma il nostro Autore, implica pensare l'impossibilità del "puro caos" (p. 111); c'è meno spazio per la contingenza, per la cieca legge delle variazioni spontanee e delle selezioni fortuite. Ma non c'è neanche spazio per concepire una "finalità della storia", né di stampo hegeliano né secondo altre versioni che cercano di descrivere un punto di arrivo dell'umanità, come le escatologie secolarizzate dei tempi moderni. Il processo è ordinato e conosce una sua teleologia che esprime l'idea di Dio. Ne svolge un ruolo importante l'idea di "soddisfazione" soggettiva, un esito che giustifica la lettura in chiave estetica che alcuni hanno proposto dell'opera di Whitehead: essa avrebbe come motore ultimo l'esperienza della bellezza. Non invano è la "creatività" l'impulso che fa scorrere tutto il processo, e le categorie che lo tematizzano hanno per lo più una connotazione estetica. L'ordine armonico e il godimento personale appaiono come finalità piuttosto formali e di carattere estetico, che evocano anche uno spunto tipico del pensiero di Nietzsche (cfr. p. 338).

Dopo Whitehead, il tentativo di codificare in modo dinamico la realtà e la nostra esperienza verrà riproposto anche in altri ambiti del pensiero. Per menzionare soltanto alcuni esempi, si potrebbe pensare a un certo capovolgimento dell'ontologia classica operato dalla fenomenologia che ha sottolineato in modo radicale la relazionalità; non più le sostanze, ma le relazioni avrebbero la priorità; non il soggetto, ma il rapporto di dipendenza verso l'altro dovrebbe considerarsi come istanza fondativa. Su un piano diverso, la descrizione del reale fornita dalla teoria dei sistemi di Niklas Luhmann insiste su un registro simile: non i singoli o le unità sociali compongono le società, ma le comunicazioni; la società è sempre un sistema ordinato e dinamico di comunicazioni. Le conseguenze di tale cambio d'impostazione sono molto importanti a tutti i livelli della realtà e del nostro modo di conoscerla.

La nozione di Dio

Il percorso di Il processo e la realtà giunge fino alla religione e a Dio. Non si tratta certo di una "teologia confessionale", né di un tentativo di assimilare i nuovi apporti delle scienze alla visione cristiana, come si proporrà invece di fare John Henry Newman (1801-1890). Siamo al più di fronte a una "teologia filosofica" o a una "filosofia della religione", un tentativo dichiaratamente "secolare" (cfr. p. 207) di ricuperare l'idea di Dio entro il grande schema teorico proposto dall'Autore.

Dio diviene come la "chiave di volta" della teoria del processo, non nel senso statico o portante del termine, ma piuttosto per la "consapevolezza" che si ha di Esso come espressione dell'ordine e dell'armonia presenti nella realtà. Si può parlare anche di Dio quale "condizione di possibilità" dell'intero processo, l'elemento che permette di pensarlo o concepirlo. Il punto di arrivo, la massima riflessività del sistema di Whitehead, esige dunque il ricorso a Dio.

Anche se i riferimenti a Dio e al senso religioso pervadono l'intera opera, solo nella sua parte finale (la quinta) si concentrano in poche pagine i principi di una teologia filosofica. Il filosofo inglese introduce un breve capitolo che esprime la difficoltà, e al tempo stesso la necessità, di preservare il meglio del passato senza bloccare lo sviluppo creativo in grado di aprire al novum . In queste pagine compare una delle rare considerazioni dell'Autore sul male, una forma di novità che provoca una perdita e che suscita da sé la comparsa della domanda religiosa (cfr. p. 340). In queste pagine Whitehead non risparmia critiche allo sviluppo delle religioni positive, cristianesimo compreso; il rifiuto riguarda anzitutto le forme di teologia politica assunte presto o tardi dallo sviluppo di una religione; ma anche la sclerosi e l'incapacità delle religioni di mantenere una creatività entro la logica (dinamica) dell'amore, distanziandola da quella (statica) del potere e dell'idolatria.

In chiave positiva, il Dio di Whitehead non si pone al di sopra o al di là del processo, ma lo esemplifica e se ne rende protagonista (cfr. p. 343). Il suo ruolo specifico è divenire «stimolo per il sentire, l'eterno impulso di desiderio» (p. 344). La descrizione di Dio è un po' sfumata: esso rappresenta una specie di istanza di complementarietà entro il processo che avvolge tutto il reale, ovvero la sua parte "concettuale" -controparte di quella sensibile- cosa che pare evocare la nozione hegeliana di Dio. Ma la sua natura è bipolare: infinita e fisica; libera e legata al mondo; eterna e temporale. Il riferimento a Dio offre una delle poche occasioni di porre a tema il problema del male, interpretato come una dimensione della realtà che non riesce ad integrarsi nella dinamica del bene, che è Dio; il male corrisponde a ciò che resta puramente individuale, chiuso e incapace di crescere insieme con il resto della realtà e in armonia con essa. E qui può emergere anche una soteriologia: Dio assume teneramente tutto quanto è possibile, per riscattarlo dal suo irremissibile declino autodistruttivo. In Lui, si può dire, la transitorietà permane e viene stabilizzata, senza perdere dinamicità; Lui diventa il principio che riesce ad armonizzare quanto sarebbe invece soggetto ad una entropia dissolutiva. In modo poetico, Whitehead dichiara: «Lui non crea il mondo, lo salva: o in modo più accurato, è il poeta del mondo, con tenera pazienza guidandolo attraverso la sua visione della verità, della bellezza e della bontà» (p. 346). In una simile proposta Dio diviene un principio di riconciliazione con il mondo, un'armonizzazione degli opposti in contrasto. E ancora le parole dell'Autore: «La creazione raggiunge la riconciliazione tra permanenza e flusso quando ha raggiunto il suo termine finale che è l'eternità ( everlastingness ) - l'apoteosi del mondo» (p. 348).

Il nostro Autore espone in termini di tenore dialettico i rapporti tra mondo (realtà fisica) e Dio (realtà concettuale) in una sorta di movimento di complementarietà degli opposti, dove i due poli si sostituiscono; una dinamica che ha un sapore neo-gnostico, e che vuole comunque mantenere in un gioco infinito gli estremi dell'attualità che preserva il reale, e la dinamicità che ne garantisce il cambiamento e la creatività. Il linguaggio assume a questo punto un tono esoterico, come è accaduto con altri filosofi del XX secolo che hanno cercato di dischiudere l'orizzonte della massima alterità o di dire la trascendenza. Nelle ultime pagine del testo sembra potersi scorgere una certa escatologia quando Whitehead si riferisce alla «fase finale di passaggio verso la natura di Dio, che si allarga sempre in se stessa. In essa il completo aggiustamento dell'immediatezza della gioia e della sofferenza raggiunge il fine ultimo della creazione» (349), che si compie in una perfetta unità e molteplicità nel raggiungere i "tipi individuali di auto-esistenza", una visione che forse deve essere intesa entro una prospettiva estetica.

Un bilancio conclusivo

In primo luogo occorre riconoscere la novità del sistema proposto da Whitehead. Egli ha cercato di avviare un sistema speculativo partendo dalla base della sua erudizione scientifica, fornendo probabilmente una delle ultime grandi sintesi di pensiero prima che la filosofia di Wittgenstein mettesse in crisi i tentativi di sapere totalizzante. L'esperimento di Whitehead intendeva offrire una visione di insieme capace di raggiungere le diverse sfere della realtà e della nostra percezione di essa, inclusa la dimensione religiosa. Eppure, per quello che riguarda la sua proposta teologica, ci sembra di assistere a una riedizione di alcuni topoi caratteristici della modernità. La sua "costruzione" della divinità rievoca da vicino alcune figure del deismo dell'epoca moderna, che serve appunto ad assicurare collegamenti essenziali affinché le nuove proposte metafisiche, cognitive e morali risultino in armonia. Si cerca armonia, ad esempio, tra i concetti astratti e la realtà empirica, tra la legge morale e l'ordine sociale, tra il caos creativo e l'attualità ordinata. Siamo di fronte ad un nuovo tentativo di comprendere la religione, integrandola entro i bisogni di auto-fondazione di un dato sistema teorico, proponendo in fondo, ancora una volta, una "secolarizzazione di Dio", una strategia della quale lo stesso Whitehead pare consapevole (cfr. p. 207). In analogia con quanto Max Weber aveva già osservato a riguardo dei processi economici, l'ipotesi di Dio finisce con l'essere giudicata superflua nelle scienze e il processo di secolarizzazione progredisce fino a prescindere interamente dal riferimento divino, come il capitalismo sembrava poter prescindere dall'etica protestante che lo aveva reso possibile.

Tuttavia il progetto speculativo di Whitehead ci riserva alcuni insegnamenti di grande attualità. Il primo riguarda la convenienza di formulare una metafisica che consenta di integrare le nostre conoscenze scientifiche con la nostra visione del reale, anche di quel reale come viene compreso dalla visione cristiana. Il passaggio da categorie essenzialiste ad una cosmovisione dinamica è senza dubbio richiesto dalle scienze contemporanee. Whitehead dimostra che un tale passaggio, di per sé inevitabile, non comporta necessariamente la crisi del modello religioso, sebbene si possa non condividere la formulazione da lui proposta, che non resta peraltro l'unica possibile.

Il secondo insegnamento ha a che fare con i limiti insiti nel progetto moderno di proporre una conoscenza auto-fondativa. Egli aveva già intuito le difficoltà e i paradossi che emergevano nel proporre un sistema matematico completo, per la cui coerenza occorreva ricorrere ad una fondazione esterna. Dalla lettura di Il processo e la realtà si deduce che qualunque tentativo di offrire una visione autoreferenziale, integrata e armonica della realtà, qualunque volontà di progettare una "teoria unificata" non può reggersi senza un'istanza trascendente il sistema. Ma qui sorge un dubbio: quanto esterna e trascendente è l'istanza divina richiesta da Whitehead perché l'intero processo che costituisce la realtà non ricada nel caos? Quanto serve una realtà esterna alla stessa realtà, e quanto stabile questa dovrebbe apparire perché il processo non generi soltanto distruzione e incertezza? Siamo forse di fronte all'evidenza che in una filosofia del processo c'è bisogno di qualche soggetto ultimo, fondante, che non sia esso stesso un processo.

Lluís Oviedo
Pontificio Ateneo Antonianum, Roma