La singolarità umana e l'immensità del Creato

Il brano che segue è tratto dal secondo dei due discorsi Intorno alla Grandezza del creato pronunciati all'Accademia Tiberina di Roma, rispettivamente il 6 marzo 1876 e il 7 maggio 1877, trascritti e pubblicati in appendice alle Lezioni di fisica terrestre (postumo, 1879). Nel testo, l'A. parla della superiorità dell'uomo sulle altre creature, riscontrabile in un complesso di fenomeni tra i quali emerge l'uso della parola. A sua volta, la capacità di comunicare sorpassa la parola in sé, per divenire veicolo di relazioni e conoscenze. Di qui l'analogia con l'astronomo che scruta il cielo e trova in esso i rapporti tra gli elementi dell'universo e quelli terrestri. "Ogni nuovo perfezionamento dell’arte ne porta uno alla scienza, e l’astronomo, profittando dell’arte della scienza, ci svela sempre più la grandezza di Dio"

Nell’uomo vediamo sorgere un complesso di fenomeni, che ne rialzano il grado sopra tutti gli altri viventi fino a formarne un essere, che nella classificazione generale ha meritato di venir considerato non come una specie, ma come un regno da sé. Non ignoro le critiche fatte a tal distinzione da un celebre antropologo italiano, il quale ha pronunziato che l’opera del Quatrefages, il quale ha adottato tale divisione, è uno sbaglio di classificazione, perché fondata sopra elementi non comprensibili dalla scienza. Ma se questo scienziato limita il comprensibile dalla scienza a ciò che si può vedere nel microscopio, o che può resistere al bistori, non tutti accettano nella scienza cotali limiti.

E nell’uomo, anche prescindendo dalla moralità e dalla religiosità, vi sono altri fatti fisici che rilevano la sua distinzione naturale e l’altezza del posto che occupa. Uno solo io ne accennerò: la parola. La parola è indubbiamente un fatto fisico nell’uomo, ma che non sia arresta all’organismo materiale, e lo sorpassa tanto, che essa può sussistere in lui anche senza tale organico competente, perché appunto ha sede in una facoltà di ordine superiore alla materia, che compone il suo individuo; dico nello spirito dotato di ragione.

Nel meccanismo della parola rilevarono già i filosofi uno stupendo magistero; una distinzione fra ciò che costituisce un oggetto qualunque e ciò che costituisce l’azione. Il primo è indicato dal nome, la seconda dal verbo. Nell’oggetto noi rileviamo delle qualità intellettive e relative ad un fine, come buono, cattivo, utile, bello, la causalità, ecc. Nell’azione noi troviamo rapporti di tempo inevitabili ad esprimersi, cioè il passato, il presente ed il futuro: relazioni espresse o con forme variate nel verbo stesso, o per mezzo di voci ausiliari, e di proposizioni o altre parti minori dell’orazione. Ora tutto questo meccanismo è sì proprio dell’uomo, che nell’operazione di nessun animale se ne trova vestigio. Solo gridi di terrore, di piacere, di amore e simili in essi vediamo, e tali atti provocati dalla sensazione presente e al più dalla reminiscenza passata; ma nessun germe di quella speculazione sopra l’avvenire, di quella comparazione del passato col futuro, che tanto classifica i linguaggi delle nazioni civili non solo, ma quello dei più rozzi selvaggi; i quali, se in qualche cosa si distinguono dai nostri, si è appunto nella loro complicazione, cioè nel pretendere di incorporare in una sola espressione, e talora in una sola parola, idee diverse e complesse; operazioni mentali le più sottili e condizionate; talché diresti, che coll’abbassarsi la civiltà e l’educazione, cresce la naturale filosofia e la metafisica di questo grande elemento di comunicazione di uomo ad uomo.

Ma il più sorprendente si è che l’uomo per tale comunicazione non si limita alla voce, e di questa neanche abbisogna. Segni convenzionali di qualsivoglia specie, che nulla hanno di relazione coll’oggetto, gli bastano ad esprimere le sue idee; tanto che i geroglifici e gli alfabeti sono un lusso non necessario, poiché vediamo che noi comunichiamo da un continente all’altro con due soli segni qualunque, siano essi un punto e una linea, come nel telegrafo di Morse, siano la deviazione di un raggio luminoso a destra o a sinistra, come nel telegrafo transatlantico di Thomson. E si oserà dire da taluni, che una così sublime facoltà, di cui è arricchito l’uomo, è una combinazione di atomi, che essa non è dovuta ad un’essenza superiore alla materia, perché non si è ancora incontrata l’anima col bistori? Hanno essi incontrato mai sotto il bistori la luce e le molecole dell’etere, hanno mai incontrato la parola? Solo una grossolana ignoranza può invocare tali argomenti.

Sì, o Signori: in questi secoli di tanta scienza, e in cui a nome della scienza si osteggia la religione, non si prendono le obbiezioni e gli argomenti, che dalla nostra ignoranza, e con quest’arme si cerca di imporre ai deboli. E qui molto avrei a dire sopra questi argomenti, in cui si sputan sentenze sopra il mondo infinito, sopra la potenza della materia, sopra la sua facoltà organatrice, sopra la trasformazione degli esseri, sopra la eternità del mondo, sopra la dottrina della sua autonoma formazione, quasiché si fossero già sciolti e penetrati questi misteri, mentre nulla ne sappiamo, ed essi stessi confessano (cosa curiosa) di non saperlo! Eppure osano in questo buio agitarsi, e tirare a sproposito le conclusioni! Si limitassero a dire quel che sanno, a ricercare e scoprire quel che non sanno; sarebbe saviezza, sarebbe zelo: ma tirare le conseguenze oltre la cognizione mancante per loro propria confessione, è audacia, e, più che audacia è pazzia.

Ma raccogliendo le vele al mio troppo lungo discorso, noi ne riportiamo la conseguenza, che l’immensità contemplata nello spazio e nel tempo è superata di gran lunga dalla immensità delle combinazioni di questi elementi nel tempo e nello spazio.

Noi vediamo pertanto, che la materia che compone le grandi masse che popolano il firmamento è dappertutto la stessa. Gli elementi, che il chimico studia nel suo laboratorio, sono gli stessi che lo spettroscopio ci svela nelle ultime nebulose e nelle atmosfere stellari. Benché scarso sia il numero di quelli che si sono identificati, esso però è sufficiente per assicurarci che le leggi che reggono la materia sono le stesse da noi, e in quelle remote profondità, e le scoperte quotidiane ci confermano in queste idee.

Ma il creato, che contempla l’astronomo, non è un semplice ammasso di materia luminosa: è un prodigioso organismo, in cui, dove cessa l’incandescenza della materia, incomincia la vita. Benché questa non sia penetrabile ai suoi telescopii, tuttavia, dalla analogia del nostro globo, possiamo argomentarne la generale esistenza negli altri. La costituzione atmosferica degli altri pianeti, che in alcuni è cotanto simile alla nostra, e la struttura e composizione delle stelle simile a quella del nostro sole, ci persuadono che essi o sono in uno stadio simile al presente del nostro sistema, o percorrono taluno di quei periodi, che esso già percorse, o è destinato a percorrere.

Dall’immensa varietà delle creature, che furono già e che sono sul nostro, possiamo argomentare la diversità di quelle che possono esistere colà. Se da noi l’aria, l’acqua e la terra sono popolate da tante varietà di esse, che si cambiarono le tante volte al mutare delle semplici circostanze di clima e di mezzo, quante più se ne devono trovare in quegli sterminati sistemi, ove gli astri secondarii sono rischiarati talora non da uno, ma da più soli alternativamente, e dove le vicende climateriche succedentisi del caldo e del freddo devono essere estreme per le eccentricità delle orbite, e per le varie intensità assolute delle loro radiazioni, da cui neppure il nostro sole è esente!

Sarebbe però ben angusta veduta quella di voler modellato l’universo tutto sul tipo del nostro piccolo globo; mentre il nostro stesso relativamente microscopico sistema ci presenta tante varietà; ne è filosofico il pretendere che ogni astro debba essere abitato come il nostro, e che in ogni sistema la vita sia limitata ai satelliti oscuri. È vero che essa da noi non può esistere che entro confini di temperatura assai limitati, cioè tra 0° e 40° gradi centesimali [1]: ma chi può sapere se questi non sono limiti solo pei nostri organismi? Tuttavia, anche con questi limiti, se essa non potrebbe esistere negli astri infiammati, questi astri maggiori avrebbero sempre nella creazione il grande uffizio di sostenerla regolando il corso dei corpi secondarii, mediante l’attrazione delle loro masse, e di avvivarla colla luce e col calore. E qual sorpresa sarebbe, se fra tanti milioni, anche molti e molti di questi sistemi fossero deserti? Non vediamo noi, che sul nostro globo regioni, in proporzioni assai estese, sono incapaci di vita? L’immensità della fabbrica non verrebbe perciò meno alla sua dignità, né allo scopo inteso dell’Architetto.

La vita empie l’universo, e con la vita va associata l’intelligenza, e come abbondano gli esseri a noi inferiori, così possono, in altre condizioni esisterne di quelli immensamente più capaci di noi. Fra il debole lume di questo raggio divino che rifulge nel nostro fragile composto, mercé del quale potemmo pur conoscere tante meraviglie, e la sapienza dell’autore di tutte le cose è un’infinita distanza che può essere intercalata da gradi infiniti delle sue creature, per le quali i teoremi, che per noi sono frutto di ardui studi, potrebbero essere semplici intuizioni.

Ma questa è sfera ove l’astronomo non può estendere il suo regno. A lui è riservato lo sviluppo materiale e meccanico del mondo: rintracciarlo nello spazio e soccorrere al geologo che studia che lo studia nel tempo. Anche in questo la scala è sterminata. La condensazione delle nebulose è sì lenta, che il periodo di poco più di un secolo, da che le conosciamo competentemente, non ci ha mostrato traccia sicura di mutazioni, e questo intervallo non può riguardarsi che come un istante. Le stelle doppie, per poco che siano sensibili le loro distanze, già compiono i loro periodi in secoli. La configurazione delle costellazioni non ha sensibilmente variato da che l’uomo contempla il cielo. Tanta è la lentezza apparente, a cagione delle enormi distanze, con cui si fanno quei movimenti, che pure superano in velocità molte volte quello della nostra terra. Tali configurazioni però varieranno, e allora forse si potrà avere qualche idea dei rapporti del nostro sistema stellare cogli altri.

Intanto nessun corpo novello cospicuo è venuto a popolare permanentemente la sfera stellata, e se qualcuno apparve istantaneamente, ora sappiamo che non fu quello una novella creazione, ma uno di quei tanti incendi momentanei che non sono rari anche oggidì, ma solo son più difficili a riconoscere per la piccolezza apparente dei corpi, che ne sono la sede: sono questi incendii nati da collisioni esterne, o da nuove trasformazioni interne dell’astro? Noi nol sappiamo: ma ben vediamo che là dove pare eterno silenzio è una prodigiosa attività. La lunga serie di anni, che misura le rivoluzioni celesti, è parallela alla serie sopra cui il geologo calcola le durate delle rivoluzioni del globo; ed in questo i due estremi, la immensità dei cieli e la durata del nostro piccolo pianeta, si toccano. Ma anche qui siamo lungi dall’avere una durata infinita: se essa fosse tale, l’attività mondiale sarebbe già estinta. L’attività è fondata sopra le differenze di energia nelle diverse regioni, e questa energia tendendo sempre a livellarsi ed eguagliarsi, con una durata infinita anteriore avrebbe già raggiunto l’equilibrio generale, e quindi ogni fenomeno mondiale sarebbe reso impossibile.

Il calore è la forza prima, che anima l’universo; la sua azione si trasmette da un corpo all’altro mediante un mezzo continuo che chiamiamo etere; e noi siamo in contatto colle regioni più estreme dello spazio mediante questo mezzo misterioso, le cui vibrazioni costituiscono il calore radiante, la luce e l’attività chimica vitale, i cui squilibrii di densità producono le attrazioni e i fenomeni elettrici e magnetici. Questo mezzo è quello che tutto lega l’universo, e a tutto dà l’unità, malgrado delle enormi distanze.

La gravità è una forza che regge tutto il creato dal sassolino cadente sulla terra alla nebulosa che si va condensando nella profondità dello spazio. Essa è la causa prima dell’incandescenza degli astri per la forza viva prodotta nella caduta delle masse, che determinò la loro condensazione. Questa forza però non è la sola che domini nell’universo: forse ancor essa è conseguenza dell’equilibrio dell’etere. Ma le comete ci danno indizio di qualche altra forza non ancora ben definita che opera nello spazio. Il rapido sviluppo delle loro code non è spiegato col solo calore né colla gravità. Si invoca il magnetismo e l’elettrico; ma finora nulla è sicuro.

Le vicende decennali del sole, manifestateci nella periodicità delle sue macchie, e nella forza e vivacità delle sue eruzioni, sono riflesse nelle variazioni del magnetismo terrestre, e nelle manifestazioni elettriche delle aurore boreali; e ciò fa prova, che un’altra forza, oltre la gravità, parte dal sole e si spande nello spazio, la quale pervade i pianeti e ne determina le vicende più astruse. Noi siamo certi di questa forza, ma ignoriamo il suo modo di azione. È essa un’azione magnetica diretta, ovvero una semplice trasformazione della sua azione calorifica? Né siamo ancora alla fine delle meraviglie; lo saremo soltanto, quando cesseremo di studiare. Fu già un tempo, in cui tutto il sistema solare si limitava ad un corpo centrale luminoso, circondato da pochi astri maggiori oscuri. Non molto dopo vi si aggiunsero numerosi sistemi di secondo ordine, i satelliti, e si credettero finite le scoperte. Ora invece quali radicali mutazioni nell’idea stessa del sistema! Ora sappiamo che attorno al sole tra Marte e Giove circolano ben 172 piccoli pianeti; che un inviluppo gassoso lo circonda, il quale si estende sovente fino alla terra, formando la luce zodiacale: si aggiunsero pure numerose comete circolanti permanentemente nei limiti del dominio di sua attrazione, dotate di luce propria: si sono riconosciute numerose correnti di minutissimi corpuscoli, che solcano in tutti i versi lo spazio planetario; e tutto questo per corteggio ad un astro, che, posto alla distanza stellare sarebbe di sesto ordine, cioè come quelli che sono appena visibili ad un occhio nudo!

Così, non ha guari che si credeva lo spazio stellare popolato solo di corpi stellari definiti e compatti; ora vi abbiamo scoperto masse enormi di gas, le quali forse sono destinate a costituire altri corpi solidi; seppure non sono già in tal forma condensati; ma la luce non ce ne ha ancora recata la notizia. L’orbita del più lontano dei nostri pianeti potrebbe appena misurare l’estensione di una planetaria. Che cosa diremo poi di tante altre, come per esempio di quella di Θ di Orione che si estende per 30° quadrati nella parte più viva, senza contare la più pallida?

Quante altre meraviglie non devono trovarsi nell’immensità di quello spazio, che noi non possiamo scandagliare? Chi avrebbe immaginato, dieci anni or sono, le meraviglie che stava per rivelarci lo spettroscopio? …. Ogni nuovo perfezionamento dell’arte ne porta uno alla scienza, e l’astronomo, profittando dell’arte della scienza, ci svela sempre più la grandezza di Dio, e ci fa esclamare col reale Profeta: Che sono magne le tue fatture, o Signore; tutte esse in sapienza facesti [cf. Sal 104] e i cieli veramente contano le tue glorie! Si succede da un giorno all’altro l’encomio delle opere tue; e se il giorno ci stordisce colle meraviglie, la notte ci apre i tesori della scienza!... Non parlano, né fanno strepitio di voce, ma su tutta la terra, nel mondo tutto si spande il loro mistico linguaggio [cf. Sal 19].

   

[1] Il testo originale, trascrizione della conferenza, riporta la dizione "tra 0° e 40° in 45° gradi centesimali"

 

A. Secchi, La grandezza del Creato nelle combinazioni costitutive dell'universo, Discorso secondo, in Lezioni elementari di fisica terrestre coll’aggiunta di due discorsi sopra la grandezza del creato…, Ermanno Loescher, Torino e Roma 1877, pp. 212 - 218.