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Buon compleanno, Sigmund. Sull'attualità della psicanalisi

Nicolò Terminio
2006

“Sono nato il 6 maggio 1856 a Freiberg in Moravia. Avevo tre anni quando i miei genitori si trasferirono a Lipsia e poi a Vienna, dove hanno abitato stabilmente fino ad oggi. Ricevuti i primi insegnamenti nella casa paterna, frequentai poi una scuola elementare privata…”. Inizia così un breve scritto del 1885, definito scherzosamente da Freud come “un lavoro preliminare alla sua autobiografia”, redatto in occasione della domanda per la libera docenza in neuropatologia all'Università di Vienna.

Oggi, a 150 anni dalla nascita del padre della psicoanalisi, il dibattitto sulla “scoperta dell'inconscio” non sembra spegnersi e si alimenta delle diverse evoluzioni (ortodosse ed eterodosse) che ha subito il pensiero freudiano. Un pensiero del quale non si possono ignorare le influenze su ambiti dell'antropologia che riguardano la sfera dei sentimenti e dell'emotività, della memoria e della sessualità, ma anche della psicologia del sacro e della religione. Ma al di là di ogni polemica suscitata dalla portata clinica, antropologica e storico-sociale delle Opere di Freud, permane ancora la rilevanza che la matrice freudiana riveste per ogni pratica psicoterapuetica di ispirazione psicodinamica. L'attualità di alcuni concetti psicoanalitici è infatti evidente per ogni psicopatologo clinico che si appresta ad ascoltare la sofferenza di un altro soggetto. È da lì che è infatti iniziato quel percorso di ricerca che ha portato Freud ad inventare la psicoanalisi.

Per Freud il dolore è il punto di partenza da cui elaborare la teoria e su cui orientare la cura. Si tratta del dolore del sintomo isterico, del dolore dell'ipocondria, del tormento psichico della nevrosi ossessiva o del dolore per la perdita della persona amata. Il sintomo occupa per la psicoanalisi la posizione di causa: ne segna la nascita, è il motivo per cui un soggetto chiede una cura e rappresenta quella dimensione umana in cui Freud individua il “lavoro dell'inconscio”.

Nello scritto Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) Freud sostiene che la scoperta dell'interpretazione dei sogni è stata il frutto dell'innovazione del metodo di esplorazione dei sintomi nevrotici, che è consistito nell'abbandono della suggestione ipnotica e del metodo catartico in favore delle associazioni libere. Il metodo psicoanalitico inventato da Freud consisteva semplicemente nel domandare al paziente di dire tutto ciò che gli veniva in mente, senza reticenze, senza tener conto della logica o delle convenzioni. L'applicazione del metodo delle associazioni libere consentì di evidenziare in primo luogo una distinzione tra il “sintomo medico” e il “sintomo analitico” e, in seconda battuta, la valenza inconscia che i sintomi delle isteriche venivano ad indicare.

La posizione di ascolto di Freud metteva in luce quel distacco tra il visibile e l'enunciabile che — come scrive Michel Foucault ne La nascita della clinica — fra il XVIII e il XIX secolo aveva prodotto un cambiamento dello “sguardo medico”, consentendo il passaggio da un'ermeneutica dei segni patologici al metodo anatomo-patologico, metodo che caratterizza lo statuto moderno della scienza clinica. Nel caso delle malattie mentali questo rivolgimento metodologico è sfociato nel mito positivistico di una certa psichiatria organicista, che a cavallo tra Ottocento e Novecento trovava in Emil Kraepelin un illustre rappresentante di quell'approccio che riduceva l'incontro con il paziente ad una mera descrizione di sintomi. I sintomi erano solo dei disturbi ed erano raggruppati in entità nosografiche, che richiamavano semmai le classificazioni della botanica. In opposizione a questa prospettiva si pronunciava Karl Jaspers, che nel testo Psicopatologia generale (1913) sottolineava: “il fatto che le malattie mentali siano fondamentalmente umane ci obbliga a non vederle come un fenomeno naturale generale, ma come un fenomeno specificatamente umano”.

Il percorso freudiano si collocava in questo secondo orizzonte, quello della psicopatologia strutturale, che parte dalla tesi secondo cui i sintomi hanno un significato e non sono semplicemente delle secrezioni bizzarre del cervello. Freud si interessò così ad un confronto fra le paralisi isteriche e quelle organiche, cercando di dimostrare che nell'isteria la paralisi e le anestesie si ripartiscono nelle singole parti del corpo in base alla rappresentazione comune che gli uomini hanno del proprio corpo e non in base alla rappresentazione anatomica. L'isteria si configurava quindi oltre che un evento di corpo anche un avvento di significazione.

È la natura squisitamente umana delle cosiddette “malattie mentali”, il fatto cioè che una res cogitans — Freud la chiamerà “realtà psichica” ( Realität ) differenziandola dalla “realtà materiale” ( Wirklichkeit ) — intervenga nell'esperienza del soggetto con lo stesso statuto di realtà della realtà corporea.

Con L'interpretazione dei sogni (pubblicata nel novembre 1899) si apre un campo di studio che connette la dimensione simbolica con tanti fenomeni fino ad allora relegati al piano delle disfunzioni fisiologiche. L'obiettivo della psicoanalisi è quello di consentire di rientrare in possesso dei propri significati e di se stessi a partire dall'atto stesso della significazione. Con il passaggio freudiano dalla “clinica dello sguardo” alla “clinica dell'ascolto”, ossia dal percettibile all'enunciabile, viene ammessa cittadinanza ad un “cogito” che anima il corpo del soggetto. Si tratta di un processo psichico che Freud ha definito “inconscio”.

E l'espressione “lavoro dell'inconscio” indica che l'inconscio è operante senza che il soggetto ne sappia nulla. Per Freud il soggetto non regola il suo inconscio, ma ne è regolato. È importante però sottolineare che uno dei fraintendimenti storici relativi all'inconscio riguarda la concezione in base a cui esso non sarebbe stato altro che un serbatoio di pulsazioni arcaiche o un'istanza non ancora cosciente, non ancora assorbita dal potere di sintesi dell'io. L'inconscio è piuttosto una trama simbolica, un insieme di processi psichici — spostamento, condensazione, rimozione etc. — attraverso cui decifrare il sintomo, ma anche tanti altri fenomeni come il sogno, il lapsus, il motto di spirito e l'atto mancato, che Freud assieme al sintomo definì “formazioni dell'inconscio”.

L'inconscio delinea un sapere che il soggetto non sa di sapere. Le formazioni dell'inconscio e la loro interpretazione dimostrano che c'era del senso laddove prima non lo si scorgeva. Il sintomo analitico è infatti un fenomeno soggettivo che provoca sofferenza e che, al tempo stesso, si fa portatore di senso, di un senso oscuro, che a differenza del sintomo medico non si rivolge allo specialista, al curante, ma al malato stesso. In modo non chiaro, il sintomo parla al soggetto e si presenta come un messaggio, anche se per il soggetto il suo significato rimane ignoto, sconosciuto. La complessità delle vicissitudini sintomatiche – vicissitudini che rivelano tutta la loro conflittualità e paradossalità quando i pazienti riferiscono: “Non ne posso più, ma non ne posso fare a meno” — si configura quindi sia come un enigma cui rispondere sia come segno di un discorso in cui un soggetto è coinvolto e rappresentato, senza saperlo. “I fatti dell'inconscio” costituiscono un sfida alla ragione autonoma. Freud parlerà a tal proposito di una “terza ferita narcisistica” inferta all'uomo, dopo quella di Copernico e di Darwin.

La regola delle libere associazioni — detta “fondamentale” da Freud — mostra la faglia che si produce nel discorso del paziente, ossia il distacco tra il voler dire cosciente e la forma verbale di questo voler dire. La dimensione della parola sorpassa l'intenzionalità cosciente del soggetto, che si scopre parlato da una intenzione che va al di là delle sue parole, che dice più del suo dire, che si situa al di là del campo di giurisdizione dell'io. In questa mancanza soggettiva di padronanza qualcosa del sapere si collega al non sapere e si apre ad un senso nuovo.

Eppure rimanendo solo su questo piano l'inconscio è soltanto “supposto” e l'esperienza psicoanalitica non viene ancora colta nel suo statuto di pratica psicoterapeutica. Il sintomo in quanto interpretabile potrebbe essere ricondotto al suo senso inconscio attraverso una qualsiasi “semantica dei sintomi”, anche la più delirante. La validità dell'intervento dell'analista, quando appartiene al registro dell'interpretazione, si misura però con il carattere oggettivo del sintomo. La peculiarità del sintomo infatti, rispetto a tutte le altre manifestazioni dell'inconscio, risiede nelle sua “ripetitività”; il sintomo non è fugace o evasivo, insiste nella vita del soggetto con un ritorno di sofferenza che non è solo simbolico, ma vissuto.

Nel quadro della sua ultima teoria delle pulsioni, introdotta in Al di là del principio di piacere (1920), Freud individuerà la causa di questa “coazione a ripetere” nella “pulsione di morte” ( Todestrieb ): si tratta di una tendenza autodistruttiva, una soddisfazione maligna, una spinta libidica irresistibile verso qualcosa che arreca al soggetto una sofferenza che ricerca al di là di ogni principio di piacere. Le pulsioni di morte vengono vissute in un dualismo in cui si oppongono alle pulsioni di vita ( Lebenstriebe ) e a differenza di queste ultime non sono inserite in una dialettica intersoggettiva, non tengono conto dell'altro perché appartengono ad una dimensione incondivisibile e non civilizzata. La pulsione di morte è l'anti-amore del soddisfacimento libidico, è un punto di inerzia psichica, una “resistenza” al progresso della cura. E riferendosi alle pulsioni di vita e alle pulsioni di morte Freud parlerà di una lotta tra Éros e Thanatos , tra ciò che crea un legame e ciò che lo distrugge.

Una cura della parola — talking cure la definì una paziente di Freud — come la psicoanalisi è portata quindi a confrontarsi con l'efficacia del simbolico sulla pulsione, dimensione che si situa “al limite tra lo psichico e il corporeo”. La pratica terapeutica inventata da Freud si basa sulla tesi che la parola abbia effetto sul reale corporeo, sulla parte vissuta del sintomo. Nella prospettiva psicoanalitica il sintomo non è dunque solo una “formazione” dell'inconscio, ma anche una “funzione” che trasporta una manifestazione dell'inconscio nel reale corporeo.

Il lavoro dell'inconscio allora non è altro che un modo dell'essere umano per creare un linguaggio per una realtà istintuale che non ha nulla di naturale, ma che è stravolta dalle vicende simboliche e relazionali. L'inconscio allude ad un senso ulteriore a quello biologico e fa dell'organismo ( Körper ) un corpo vissuto ( Leib ).

Ma questa umanizzazione dell'essere-il-proprio-corpo non avviene automaticamente, o naturalmente si potrebbe dire. Le psicopatologie gravi, come la schizofrenia, ci illuminano infatti su ciò che ci rende umani proprio nel momento del suo dissolvimento.

Qui interviene il celebre mito freudiano del “complesso d'Edipo”, l'espediente trovato da Freud per dire che il soggetto non è il frutto dell'accoppiamento di uno spermatozoo e di un ovulo, ossia che non è solo un'espressione fenotipica di un genotipo, ma è l'effetto del rapporto tra due cause, il padre e la madre.

Freud si appoggiò ai miti per fondare il suo linguaggio, sul crinale di un sapere che ha le sue radici nell'umanismo e che guarda all'ausilio degli avanzamenti scientifici. Il complesso di Edipo è quindi un modo freudiano per articolare la questione che riguarda la costituzione soggettiva di ciascuno. In ogni caso clinico osserviamo infatti cosa ne è stato del padre e della madre.

La famiglia, in ambito psicoanalitico, così come negli studi di storia e antropologia, non è mai riducibile ad una semplice unità naturale, dove avviene cioè soltanto la riproduzione biologica degli individui, ma è il luogo dove un soggetto incontra il proprio destino, nel bene e nel male. Nei legami familiari vengono trasmesse delle strutture simboliche di comportamento, di rappresentazione della realtà, ma soprattutto viene fondato il perno della particolare posizione etica del soggetto. E qui intendiamo etica nel senso di apertura all'esistenza.

Il “tramonto del complesso edipico”, ossia il passaggio per la “castrazione”, rende perduto quello stadio mitico in cui il soggetto aveva accesso al vissuto corporeo senza la mediazione del simbolo e che a causa di tale assenza era marchiato dalla frammentazione delle energie libidiche, fino a quel momento parziali e non soggettivate. La nozione di “castrazione” non vuol dire altro che la pienezza del soddisfacimento pulsionale è di per sé irraggiungibile, “perduta” dice Freud. Il complesso di Edipo è una legge di simbolizzazione, è la trovata freudiana per universalizzare non il cosiddetto triangolo primario (madre-bambino-padre), ma l'ingresso dell'uomo in una dimensione simbolica che altera irrimediabilmente l'ordine naturale degli istinti. Si esce da uno stato di narcisismo e il soddisfacimento è inserito in una dialettica intersoggettiva, che a differenza dell'istinto non richiede solo l'oggetto di soddisfacimento ma la presenza dell'altro. Il presupposto biologico della disposizione umana alla nevrosi deriva quindi dall'impossibilità (la castrazione), sancita dal simbolico, di un accesso diretto, puramente istintuale al corpo e alla sessualità.

Se ci fosse un accesso darwinianamente prederminato alla sessualità non ci sarebbe alcun “labirinto della vita amorosa”, ma essa si svolgerebbe seguendo delle leggi necessarie, leggi ancorate al solo aspetto biologico. In tal modo ogni essere umano troverebbe, prima o poi, la realizzazione di una completezza sferica con l'altro, in un percorso predeterminato e necessario. Invece l'incontro amoroso, il felice incontro, è esposto alla contingenza, al caso, alla tuké dell'amore, per riprendere un termine di Aristotele.

La novità dell'apporto freudiano alla problematica dell'amore riguarda però soprattutto lo studio di quelle “condizioni amorose” ( Liebesbedingungen ) che si presentano nella vita del soggetto come un elemento di necessità psichica. I tre saggi riuniti ne i Contributi alla psicologia della vita amorosa (1910-1917) rappresentano appunto uno degli sforzi di Freud per illustrare il modo in cui la trama simbolica dell'inconscio sottende la scelta soggettiva del partner.

Ora, all'interno di questa operazione di lettura dell'influenza dell'inconscio nella vita relazionale, Freud si meravigliò del fatto che durante una cura psicoanalitica si produceva un legame, un attaccamento del paziente all'analista. Freud chiamò questa traslazione affettiva sull'analista “transfert” o “amore di transfert”. Già nel poscritto al Caso clinico di Dora (1901) si interrogava sulla natura di questa “traslazione” e scriveva: “in altri termini, un gran numero di esperienze psichiche precedenti riprendono vita, non però come stato passato, ma come relazione attuale con la persona del medico”. Inizialmente Freud considerò il transfert come un ostacolo alla decifrazione dei sintomi: vi rintracciava una resistenza che, al contempo, segnalava l'avvicinarsi del conflitto inconscio.

Le manifestazioni transferali non sono però ripetizioni letterali, ma equivalenti simbolici di ciò che del passato viene riattualizzato. In seguito proprio questa seconda dimensione del transfert fu messa in valore da Freud perché favoriva l'operazione analitica in quanto operazione di interpretazione. Il trattamento della coazione a ripetere rivissuta all'interno del transfert consente al soggetto di ri-sperimentare e quindi di riportare alla luce “relazioni emotive che derivano dai suoi investimenti oggettuali più remoti e appartenenti al periodo rimosso della sua infanzia”. In tal modo il transfert diventa per l'analista il miglior ausilio nella cura e la dinamica relazionale che sostiene il processo di guarigione. La psicoanalisi si configura quindi come una pratica clinica “sotto transfert”: ci si accosta al sintomo a partire dalla relazione analista-paziente. Ecco perché Freud diceva che “non c'è analisi senza transfert”.

Tuttavia nell'opera di Freud rimane ancora un mistero il motivo per cui la parola abbia un effetto sul corpo, su come cioè avvenga il cambiamento psichico o su quale punto un'analisi possa dirsi conclusa. In un saggio raccolto in Tecnica della psicoanalisi (1911-1912) Freud espone alcuni consigli per il trattamento psicoanalitico e in riferimento all'efficacia dell'azione terapeutica si pronuncia così: “un chirurgo del passato aveva preso per suo motto le parole: Je le pansai, Dieu le guérit . L'analista dovrebbe accontentarsi di qualcosa di simile”. In realtà ancora oggi il dibattito su quali siano i fattori che influiscono sul cambiamento psichico rimane aperto.

Occorre poi sottolineare che nonostante Freud facesse proprio il motto “Io lo medicai, Dio lo guarì”, fino alla fine della sua vita sostenne di non credere in Dio. Per Freud Dio è un sostituto del “padre”, o più precisamente l'immagine ideativa che il bambino si è fatto del padre e che da adulto ricompare nella rappresentazione individuale di Dio.

Se però Freud ha messo come perno della sua teoria il “mito del padre” è perché la questione dell'articolazione tra la funzione paterna e Dio è ineludibile. Ora, senza addentrarci sul valore della dottrina freudiana a proposito del nucleo paterno che ritrova dietro ogni figura divina (rimandiamo il lettore alla voce Freud del Dizionario Interdisciplinare on line in questo Portale), consideriamo non la soluzione speculativa che Freud propone, ma il valore clinico che la “questione del padre” riveste nella cura delle psicopatologie gravi. Nel celebre Caso clinico del presidente Schreber (1910) possiamo osservare che Freud, nonostante individui un problema relativo al padre dietro il delirio religioso su Dio, non si preoccupa di scoprire l'identità perduta del significato del delirio, bensì di risalire con il suo discorso lungo quel processo mentale che sfocia nell'esordio psicotico dell'eminente magistrato Daniel P. Schreber.

La strada aperta da Freud ci permette di comprendere quelle coordinate antropo-logiche capaci di organizzare l'esperienza, o il destino, di un soggetto. Alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi definiscono un metodo di ascolto e la trama simbolica a partire da cui possiamo pensare l'intervento psicoterapeutico. Fare una diagnosi psicopatologica descrivendo soltanto i sintomi o evidenziando le basi neurobiologiche del disturbo inserisce il soggetto umano in una prospettiva riduzionistica, e soprattutto non ci dice nulla su come condurre una cura, almeno fino ad oggi, a 150 anni dalla nascita di Sigmund Freud.