La libertà poggia la sua ontologia sull’autoconsapevolezza dell’io personale. La percezione della prima dipende dalla coscienza della seconda. Al tempo stesso, l’io personale si esprime e si rivela mediante la libertà, che rappresenta pertanto non solo il fondamento della soggettività, ma anche il suo compito. L’autoconsapevolezza dell’io è in ciascuno di noi esperienza esistenziale intima e radicale, sebbene essa si manifesti progressivamente, con lo sviluppo dell’uso della ragione e con il graduale arricchimento del nostro vissuto. Nell’atto con cui il soggetto coglie il proprio io libero e personale vi è, tuttavia, un “fondo abissale”, il cui riconoscimento è propedeutico ad ogni possibile apertura all’Assoluto. Non ci riferiamo qui al semplice atto con cui l’essere umano si riconosce soggetto delle proprie azioni, centro di unificazione del suo biose della sua psyché; non ci riferiamo nemmeno, ad un livello più profondo, all’atto con cui ciascuno di noi coglie la gratuità e la contingenza del proprio esserci. Ci riferiamo piuttosto all’atto psicologico con cui cogliamo, in modo nitido e quasi sbalordito, la relazione trascendente che l’esserci del proprio io implica nei confronti di un Fondamento verso il quale tale relazione si dirige.[1] Non è questa la meraviglia di fronte all’io che noi siamo, bensì la meraviglia di fronte all’essere io che il nostro essere personale implica.
Quando vi sono le condizioni di una riflessione pacata e matura, libera da condizionamenti e distrazioni, l’essere umano può avvertire che il proprio io personale non è soltanto il soggetto di operazioni vitali, un io contingente comparso sulla scena del mondo in modo gratuito; ciascuno di noi è anche, in modo più radicale, il “potersi dire io perché di fronte a Qualcuno”. Tale percezione non è solo psicologica, ma religiosa. Il proprio “dirsi io”, cioè, viene scoperto come anticipato, sempre e comunque, da Chi “dice me prima di me stesso”. Qualcuno mi ha pronunciato ed io, come conseguenza, posso cogliere la relazione che mi lega ad un Tu che mi trascende. Tale relazione è espressione della volontà con cui quel Tu mi ha voluto e mi vuole, mi ha conosciuto e mi conosce.[2] Nella percezione che stiamo qui cercando di illustrare, l’essere umano non si chiede solo: “perché esisto proprio io al mondo, qui e adesso?”; egli si chiede, piuttosto: “perché sono statovolutoproprio io?”. Non si conosce il Volto di chi fonda tale relazione, ma la relazione stessa è sperimentatacome causa del nostro esserci: non solo un esserci biologico o psicologico, ma un esserci entro un orizzonte di senso, e dunque entro un orizzonte religioso.
Ci siamo già chiesti se la percezione del proprio “essere io” potesse emergere semplicemente dalla nostra evoluzione biologica, quale mero prodotto della complessificazione del nostro sistema neuronale. Non abbiamo negato che l’evoluzione biologica e la complessificazione neuronale sono certamente le condizioni di possibilità di tale riconoscimento auto-riflessivo. Ci chiediamo adesso, in modo più preciso, se possano essere anche le cause totali e adeguate del nostro “dirsi io” colto entro un orizzonte di senso. La domanda ha un’analogia evidente con il tema dell’origine ultima del senso religioso e con l’origine della coscienza di sé. Alla domanda se il senso religioso manifestato dalla nostra specie sia interpretabile come semplice conseguenza dell’evoluzione biologica e psicologica di Homo sapiens o se richiede invece, per dare ragione soddisfacente della sua fenomenologia, l’esistenza di un’Alterità, di un Assoluto altro-dall’uomo, rispondiamo osservando che le indagini di ordine empirico non sono adeguate a negare l’esistenza di tale Alterità trascendente, e che la fenomenologia religiosa viene interpretata in modo soddisfacente solo affermandola. In merito alla domanda circa l’origine della coscienza va poi chiarita la differenza fra cause dispositive per l’emergenza dell’io, che interessano l’ambito biologico e neuroscientifico, e la sua natura ontologica come principio di unificazione degli atti umani di ciascuno, che trascende il piano empirico. Qui l’accento è posto sull’esercizio della libertà: non è la percezione dell’io come soggetto di una relazione di “dipendenza” da un Assoluto che intendiamo tematizzare, né la sua condizione di soggetto che unifica le parti trascendendole, bensì la percezione dell’io come soggetto di atti liberi, ovvero atti di cui si coglie la “responsabilità” di fronte a Qualcuno.
Non sarebbe esagerato affermare che ci troviamo di fronte ad una questione-chiave per il “problema di Dio”. Non più, in terza persona, chi è l’uomo e come il problema dell’uomo possa aprirsi alla domanda sensata su Dio; bensì, in prima persona, chi sono io e come dai gradi progressivi della percezione del mio io posso ascendere alla ragionevole percezione che io sono detto da Te. Non è al linguaggio formale, forse neanche a quello filosofico in senso stretto, che possiamo affidare la descrizione di tale itinerario. Qui il linguaggio si fa necessariamente esperienziale, mistico, dossologico. Perché io al mondo? Sarebbe potuto essere, il mio io, il semplice soggetto unificante dei miei atti biologici, soggetto di nutrizione, di riproduzione e di lotta per la sopravvivenza, come per tutti gli altri viventi di questo pianeta e come avviene probabilmente in forma più o meno cosciente nei mammiferi superiori? A priori nulla ci impedisce di ritenere che, anche per il genere Homo, le forme della soggettività sarebbero potute essere quelle dei nostri predecessori non umani. Cosa aggiunge l’io percepito dal sapiens, rispetto a tutto ciò? Perché il mio io non si ferma a strati biologici e psicologici elementari, sufficienti alla mia sopravvivenza, ma sceglie, crea, soffre, spera, ama, prega? Perché siamo “condannati” ad essere liberi, dovendo ciascuno costruire, nella libertà e con la libertà, la propria storia? Non è la risposta a simili domande che adesso cerchiamo; desideriamo solo affermare che queste domande sorgono e fanno del nostro io un “io umano”, fanno di me qualcuno che deve decidere della propria vita, liberamente. Rendere l’uomo d’oggi sensibile a tali domande ed educarlo a riconoscerne la sensatezza rappresenta un preambolo della fede, ovvero un necessario “spazio di interiorità” mancando il quale ogni rapporto personale con l’Assoluto perderebbe significato.
L’auto-possesso dell’io è base per ogni progettualità: la libertà umana apre alla speranza. Quest’ultima è la “condizione di possibilità” della realizzazione dell’auto-trascendenza che la libertà manifesta nell’umano, presupposto antropologico della nostra capacità progettuale. La proiezione significativa dell’uomo verso il futuro, verso un “andare oltre” nella conoscenza, nella volontà e nella libertà, è possibile solo se il futuro è visto come attesa, come apertura positiva, come spazio di compimento delle promesse.[3] Se è vero che la libertà si nutre di verità, è altrettanto vero che essa si nutre anche di speranza. La chiusura di orizzonti, la disillusione, la sfiducia in sé stessi e negli altri, il peso cocente della delusione, sono spesso ostacoli insormontabili tanto per l’esercizio del libero arbitrio quanto per il possesso di sé. Senza speranza l’uomo non soltanto non sceglie più, ma non può più essere sé stesso, non può più vivere, lasciando che l’ultima scelta sia, drammaticamente, proprio quella di voler porre fine alla propria esistenza. Una società senza speranza non è certo nelle migliori condizioni per rispondere al Vangelo, perché annuncio rivolto ai prigionieri, non ai disperati. In questi ultimi, se ormai non vogliono ascoltare più nessuno, la Parola non potrà far breccia; ai prigionieri, invece, essa reca il suo annuncio di liberazione, la rivelazione del compimento di quanto si è continuato, senza sosta, a desiderare.
La libertà rivela la sua condizione di preparazione alla fede anche nel manifestare il suo carattere responsivo. Di fatto, riconoscere la libertà e l’unicità del proprio io equivale a cogliersi come soggetto capace di rispondere e, per questo, responsabile. Se la modernità ha insistito sulla libertà come auto-affermazione del soggetto, è adesso la sua condizione di apertura e di intersoggettività che va sottolineata. Emmanuel Lévinas e Martin Buber sono fra gli autori contemporanei che meglio hanno messo in rilievo la necessità di tale lettura.[4] «Essere io significa, in conseguenza, non potersi sottrarre alla responsabilità, come se tutto l’edificio della creazione posasse sulle mie spalle […]. L’unicità dell’io è il fatto che nessuno possa rispondere in vece mia».[5] Non sono l’identità e l’autoaffermazione che producono libertà, ma il riconoscersi di fronte a qualcuno; è la relazione con qualcuno altro-da-sé che sollecita il nostro io, lo svela e lo qualifica come inter-soggettivo. È proprio in questo dinamismo che la libertà manifesta il suo indissolubile legame con la responsabilità, ovvero un respondere compreso come apertura all’altro e decisione per l’altro. A ben vedere, ogni scelta libera ha sempre un valore responsivo. Essa non può restare illimitata, incondizionatamente e assolutamente libera, perché è proprio nel suo esercizio che ogni libertà si vincola. Essa si afferma, paradossalmente, proprio nella soggezione all’altro, nella deposizione della propria sovranità, nell’accettare il limite e il condizionamento. La scelta libera è una risposta e la risposta è, in certo modo, una scelta libera. La libertà, in ciascuno, “attende” di incontrarsi con la libertà dell’altro, perché libertà è il nome dell’essere personale.
Non è difficile comprendere che ogni autentico rapporto con Dio, tanto sul piano del senso religioso naturale, come su quello di una risposta storica ad una Sua parola rivelata, può fondarsi solo su un’antropologia che riconosca nella libertà, nella responsabilità e nella speranza i caratteri qualificanti dell’io personale. Il puro individualista, il cui orizzonte di desideri e di aspirazioni è unicamente finalizzato all’affermazione del sé – affermazione biologica, edonistica o estetica – può certamente sopravvivere in una società umana, anche cooperare con gli altri per profitto o per proprio tornaconto, ma finisce vivendoci in modo non umano. Una società senza libertà e responsabilità può dare origine a un efficiente comunità animale, ma non sarà mai una società umana. Così come una società senza speranza e senza fiducia può trasformarsi in un funzionale esercito di automi e raggiungere anche potenti obiettivi eteronomi, ma resta una società di macchine, non di uomini.
Per quanto riguarda il rapporto con Dio, la propedeuticità di una “antropologia della responsabilità” è specialmente evidente nel caso del cristianesimo. A differenza di altre religioni, nelle quali le forme di rivelazione divina e il rapporto con l’Assoluto valorizzano soprattutto la dimensione di interiorità personale, talvolta fino a identificarsi con essa, la rivelazione ebraico-cristiana è Parola di fronte all’uomo, parola che chiama e interpella, invita e meraviglia, promette e compie. Parola storica che chiede all’uomo una risposta, con parole e opere, realizzate anch’esse nella storia. Il cristianesimo non è una gnosi ma un appello alla conversione, una storia di salvezza che reca al suo interno un mistero di peccato e di redenzione. È facile comprendere che solo entro una dimensione relazionale e di responsabilità può nascere la coscienza della colpa e dunque il desiderio di perdono, mancando il quale lo stesso annuncio di remissione universale dei peccati recato dalla Pasqua di Gesù Cristo perderebbe significato.
Non sorprende che un autore particolarmente attento alla propedeutica della fede, come lo è stato John Henry Newman, abbia visto nella coscienza libera dell’uomo – da lui definita come «la nostra grande maestra interiore di religione»[6] – il più importante preambolo della fede, e nel suo retto esercizio la più chiara preparazione ad accogliere la Rivelazione. Essa appartiene solo a me, soltanto io sono chiamato a rispondere di fronte ad essa.[7] Nell’uomo naturaliter religiosus– osserva opportunamente Newman – la percezione della coscienza sfocia nella percezione della colpa, essendo il senso religioso fondato sulla convinzione che l’Essere Supremo premi il bene e punisca il male, come mostra, fin dalle origini, la diffusa presenza di sacrifici espiatori. Se questo potrebbe essere visto come il “lato severo” della religione, continua il teologo inglese, vi corrisponde però un “lato luminoso”, rappresentato proprio dalla guida della coscienza che ci dice di fare il bene e di evitare il male.[8]
Responsabilità e speranza, osserva Juan Alfaro, sono le primogenite della libertà, le due parole che rendono l’essere umano disponibile all’incontro fruttuoso con la rivelazione divina e lo aiutano a maturare fino al dono di sé. «La parola “responsabilità” sottolinea l’aspetto di “ascolto”, “accoglienza”; la parola “speranza” pone in rilievo l’aspetto di “grazia”, “gratuità”. Disponibilità e consegna di fronte a Colui che l’uomo può solo aspettare con fiducia, costituiscono l’atteggiamento proprio dell’uomo di fronte al problema di Dio. Questo atteggiamento “prefigura” l’atteggiamento specifico della fede, della speranza e dell’amore cristiani, prefigura cioè la risposta dell’uomo all’autorivelazione di Dio in Cristo nella storia di Gesù il Nazareno».[9] Il duplice ruolo svolto dalla libertà è dunque quello di tenere aperta la domanda su Dio e assicurare le condizioni affinché l’essere umano risponda ad una Parola che, costituendolo nell’essere, può venirgli incontro nella storia. Rendendo possibile il rapporto con Dio, essa fonda ugualmente il rapporto dell’uomo con sé stesso, perché la libertà è autodeterminazione e autoappartenenza. Offuscare la libertà equivale ad offuscare sia il senso di Dio che il senso dell’uomo.
da G. Tanzella-Nitti, Teologia Fondamentale in contesto scientifico, vol. 3: “Religione e Rivelazione”, Città Nuova, Roma 2018, 209-215.
[1] Numerosi gli autori, come è noto, che hanno approfondito il significato filosofico e religioso della percezione dell’io personale, da Agostino a Tommaso d’Aquino, da M. Eckhart ad Edith Stein, da Jung a Maritain. Sul tema, anche per un confronto con le religioni storiche, cf. L. Gardet, O. Lacombe, L’esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Massimo, Milano 1988; P. Manganaro, Sguardo filosofico-tomistico sull’esperienza del sé, in R. Ferri, P. Manganaro(edd.), Gesto e parole. Ricerche sulla Rivelazione, Città Nuova, Roma 2005, 375-404.
[2] Secondo la prospettiva di un’antropologia filosofica aristotelico-tomista, tale relazione verrebbe espressa con la nozione di “atto di essere”, che lega la creatura al Creatore e che, in quanto atto, costituisce la forma umana del corpo, ovvero la sua anima.
[3] Riteniamo assai significativa, in proposito, l’espressione “l’avventura della libertà”, impiegata dalla predicazione di san Josemaría Escrivá sulla santificazione delle realtà terrene e sulla corresponsabilità dell’essere umano nell’opera della creazione: «Mi piace parlare di avventura della libertà. È così, infatti, che si svolgono la vostra vita e la mia. Liberamente – da figli, ripeto, non da schiavi – percorriamo il sentiero che il Signore ha indicato a ciascuno di noi. Assaporiamo questa scioltezza di movimenti come un dono di Dio», J. Escrivá, La libertà dono di Dio (1956), in Amici di Dio, Ares, Milano 2000, n. 35.
[4] Cf. E. Lévinas, Fuori dal soggetto(1987), Marietti, Genova 1992; Id. Totalità e infinito (1961), Jaca Book, Milano 1977; M. Buber, L’Io e il Tu(1923), IRSef, Pavia 1991; Id., Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993. Sul tema, si veda F. Riva, Intersoggettività e figure della libertà, in F. Botturi(ed.), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, Vita e Pensiero, Milano 2003, 187-209.
[5] E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, 73.
[6] Newman, Saggio a sostegno di una grammatica dell’assenso X, 1, in Scritti filosofici, a cura di M. Marchetto, Bompiani Milano 2005, 1503.
[7]«La coscienza è una guida personale e la uso perché devo usare me stesso, riesco tanto poco a pensare con una mente che sia la mia quanto a respirare con i polmoni di un altro», ibid.
[8] Cf. ibid., 1507-1509; 1521.
[9] J. Alfaro, Dal problema dell’uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991, 289-290.