Nei trattati di epistemologia teologica, più in generale nella riflessione teologica sul discorso su Dio tanto all'interno della dogmatica come in prospettiva teologico-fondamentale, è oggi facile incontrare un preciso riferimento a Ludwig Wittgenstein. La filosofia di questo allievo di Russell, nato a Vienna nel 1889 e morto a Cambridge nel 1951, è stata oggetto di interpretazioni differenziate, che variano dall'associarlo erroneamente al riduzionismo neopositivista del Wiener Kreis , fino a vedere in lui il principale artefice di un'intuizione capace di riportare la riflessione su Dio nell'unica sede che le sarebbe propria, quella meta-linguistica.
Il saggio di Rocco Pititto, docente di filosofia del linguaggio presso l'Università della Basilicata a Potenza ed autore di vari contributi dedicati alla lettura della vicenda della filosofia analitica all'interno del rapporto fra fede e ragione, ci propone una visione a tutto campo sulla personalità del filosofo viennese, privilegiando come oggetto formale del suo studio il rapporto fra Wittgenstein e la religione. Le risonanze esistenziali costituiscono dunque la falsariga del lavoro, prima ancora che le ricadute nel terreno della filosofia analitica. Di fatto, la possibilità di mettere a tema un simile «oggetto formale» come chiave di lettura dell'intero pensiero di Wittgenstein, costituisce la tesi fondamentale del libro. Tesi forse inedita per la radicalità con cui l'Autore la propone, ma certamente in confluenza con una linea di riflessione già sufficientemente consolidata, che riconduce l'impossibilità di un formalismo concettuale convincente nel discorso sull'Assoluto ad un'apertura verso un sapere, ma non un conoscere , di livello più alto, oltre ogni possibile linguaggio. Come è noto, proprio quest'ultima apertura, la quale non può però prescindere da un ulteriore approfondimento logico ed insieme antropologico su cosa debba intendersi per linguaggio, ha dato origine in ambiente anglosassone ad un ramo della filosofia analitica, la Oxford-Cambridge philosophy , in fecondo dialogo con il sapere credente. Ne sono esponenti ben conosciuti S. Toulmin, J. Austin, E. Anscombe, G. Ryle, N. Malcolm, R. Swinburne e, più recentemente, F. Kerr e J. Haldane (quest'ultimo a St. Andrews, Scozia) insieme a vari altri.
Dopo una breve introduzione biografica nella quale vengono sottolineati gli aspetti umani ed esistenziali di Wittgenstein, fondamentali ai fini di una migliore comprensione di quell'«oggetto formale» cui prima ci riferivamo, il saggio di Pititto muove dal primo Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus , al secondo delle Ricerche filosofiche e dei Pensieri diversi , passando attraverso le incertezze dellaConferenza sull'etica . Ma al primo Wittgenstein andrebbe forse premesso un Wittgenstein nascosto , quello che comincia a raccogliere le sue riflessioni nei Diari segreti precedenti al Tractatus , il cui afflato continuerà però a ripresentarsi lungo tutte le considerazioni dei Pensieri diversi . A dare voce al Wittgenstein nascosto sono, oltre i suoi Notebooks , soprattutto le numerose testimonianze raccolte dai suoi colleghi, studenti ed amici, alle quali Pititto dedica una particolare attenzione: dal rapporto con Bertrand Russell a quello con gli amici Drury, Parak ed Engelmann, a quello con i suoi studenti Anscombe o Smythies. La trattazione si svolge così lungo quattro agili capitoli (I. Wittgenstein pensatore religioso: un dibattito aperto; II. Un'etica senza fondamento; III. Il linguaggio religioso ed il valore della testimonianza; IV. Un approdo nell'indicibile), per concludersi con un epilogo propositivo. In esso l'Autore offre una sua sintetica visione sul valore della filosofia di Wittgenstein al fine di indirizzare correttamente il dibattito sulla possibilità di un linguaggio su Dio, sia nei suoi aspetti apofatici che in quelli affermativi, raccogliendone come ultimo esito la necessaria confluenza di questi ultimi nel linguaggio della testimonianza, sull'opportunità del quale lo stesso Wittgenstein non ha voluto tacere.
Pur affrontando la difficoltà di armonizzare i ricordi di diversi testimoni, l'itinerario religioso di Wittgenstein è ben evidenziato in sede biografica da Pititto: al di là delle differenze, ne emerge un quadro di fondo abbastanza convincente; le residue incongruenze non sbiadiscono la religiosità del filosofo viennese, ma indicano piuttosto la presenza di inevitabili tratti contraddittori, espressione di una personalità singolare, protagonista di una intensissima esperienza intellettuale ed esistenziale. Proprio questo itinerario viene così efficacemente riassunto da Pititto: «Wittgenstein nel suo lungo camminare verso Dio si attesta sul limitare della fede, giungendo, infine, a considerare la fede come passione, un desiderio di Dio che vive nell'uomo, mentre Dio rimane l'“indicibile”, colui del quale non si può parlare. Il passaggio ultimo di questo cammino è rappresentato dall'invocazione, il grido di chi, stanco del lungo interrogare, prega e invoca aiuto. Questo ultimo passaggio non gli è del tutto sconosciuto, ma gli è anzi familiare, perché più volte nella sua vita si è trovato ad attraversarlo, lasciandosi soggiogare dalla forza della preghiera [...]. E la sua preghiera a Dio diventa insistente: dammi aiuto, illuminami, ma sia fatta sempre la tua volontà e non la mia. Richiesta di aiuto e sottomissione alla volontà di Dio sono gli elementi dell'invocazione wittgensteiniana» (pp. 27 e 167).
È alla luce di questo anelito verso l'indicibile — il «mistico», secondo la nota indicazione del Tractatus — che Pititto leggerà lo sforzo speculativo di Wittgenstein. Il movente principale del suo sofferto pensare non sarebbe dunque la volontà di fare ordine nei limiti o nelle ambiguità del linguaggio, ma fare ordine in ciò che egli, come uomo, può sperare senza poter razionalmente conoscere. Anche se forse poco sottolineato dall'Autore, il legame fra questo itinerario filosofico e quello che conduce alla giustificazione della ragion pratica kantiana pare a nostro avviso evidente, peraltro in accordo con la principale fonte di interazione e forse anche di esperienza religiosa di Wittgenstein, che restò certamente quella della tradizione riformata, sebbene egli ricevette un battesimo ed una prima formazione di fede cattolica. Allo stesso tempo però, un simile itinerario lo distanzia in modo deciso dal neopositivismo tradizionalmente inteso, cosa opportunamente ribadita da Pititto in più occasioni, commentando sia i suoi rapporti con il Circolo di Vienna, sia quelli col suo maestro Russell: «questa distanza diventava ancora più abissale considerando la conclusione paradossale del Tractatus , nella quale si faceva riferimento ad una realtà diversa, non immediatamente percepibile, il “mistico”, che avrebbe avuto dalla sua tanta letteratura, una specie di contraltare rispetto al mondo dei fatti. Su questa realtà bisognava tacere — affermava Wittgenstein —, là dove, invece, i neoempiristi di Vienna ritenevano giusto parlarne per criticarla e avevano concluso per il non senso di tutte le affermazioni relative ad essa» (p. 22). In una lettera inviata a Russell, sarà proprio Wittgenstein a segnalare al filosofo inglese l'errata interpretazione da lui data alla tesi principale del Tractatus (cfr. p. 49).
Al momento di compiere un passo successivo, capace di far intravedere la natura o per lo meno le implicazioni dell'apertura verso l' indicibile , Wittgenstein resterà ancora fedele alla sua rigorosa impostazione logico-formale. Nella Conferenza sull'etica , quella apertura la si riconosce collegata con l' ulteriore , con quella tendenza dell'animo umano che non può non dirigersi al bene, ma non possiede lo statuto di una scienza. Non lo possiede neanche la teologia (che in molti passaggi del suo pensiero viene però assimilata alla religione), né può possedere statuto scientifico ogni discorso che voglia accostarsi all'Assoluto attraverso le regole del linguaggio. Ciò fa sì che l'etica e la religione possano essere descritte, ma non insegnate ; in modo ancor più radicale, l'etica non può essere fondata (cfr. pp. 83-84). Questa convinzione spinge Wittgenstein a dirigere la sua attenzione verso scrittori che hanno descritto l'esistenza umana (Dostoevskij e Tolstoj), perché l'unico accesso ad un'etica, ad un senso della vita, può giungere attraverso un'esperienza vitale. L'etica appartiene certamente alla sfera del divino e, proprio per questo, anch'essa resta indicibile (cfr. p. 106). Con le parole di uno dei commentatori di Wittgenstein, «l'etica si mostra in ciò che gli uomini fanno e dicono, nel loro modo di lodare e di disprezzare, di criticare se stessi e gli altri in ciò a cui si sentono costretti, in ciò che per essi è “escluso”, nel loro modo di soffrire, di gioire, e così via» (pp. 109-110). L'appartenenza dell'etica al «mondo del soggetto e delle sue intenzioni» e non al mondo dei fatti, fa concludere al filosofo austriaco che vi sono allora tante etiche, tutte egualmente legittime.
Quale possibilità di significato, di comunicazione, è dunque affidata ad una riflessione su un Assoluto che si può pensare ma non dire, che si può invocare ma non predicare? Pititto affronta il tema nei capitoli III e IV del suo saggio orientandosi decisamente a leggere questa significatività nell'ambito della testimonianza . A tale categoria, abituale nel linguaggio religioso-teologico, viene ora assicurato un accesso nell'ambito della filosofia analitica, poiché quell'«uso linguistico dei termini» caro al secondo Wittgenstein, l'unico capace di rivelare il significato delle parole, diviene adesso «l'uso della parola Dio» e l'uso delle altre parole del linguaggio religioso ad essa collegate. Una religione non si può contraddire (ma neanche affermare) in sede razionale: si può soltanto «mostrare». «La religione, di cui Wittgenstein si fa portavoce — afferma Pititto — è, soprattutto, testimonianza, impegno di vita ed ha a che fare con la visione : affermare Dio potrebbe non significare nulla, perché non vi sono prove scientifiche a cui fare ricorso, ma una vita credente, fatta di scelte libere e consapevoli, è essa stessa una prova irrefutabile di Dio. Non si afferma Dio, ma lo si vede nella vita dei credenti. La fede, dopo tutto, è una passione, un appassionato decidersi per Dio, come il filosofo stesso più volte ha affermato, e come tale non ha bisogno di parole e di teorie, ma solo di essere vissuta» (p. 154). In questa visione della comunicabilità della fede religiosa rientrano per Wittgenstein tutte le religioni della terra, veritiere nella loro dimensione di invocazione e di preghiera, false nel loro tentativo di enunciarsi come teoria. L'Autore del saggio che qui presentiamo farà suoi e svilupperà nell'epilogo finale questi spunti offertigli dal filosofo viennese prospettandone, ci pare di capire, le implicazioni per la vita religiosa e pastorale ancor prima che per l'epistemologia teologica propriamente detta.
Il libro di Pititto è fedele al suo titolo. Lungo tutta l'esposizione si percepisce l'afflato della fede come passione, e sullo sfondo del pensiero di Wittgenstein si coglie il desiderio implicito dell'Autore di leggere la vicenda dell'uomo contemporaneo, la necessità che questi ha oggi di cogliere segnali significativi si senso e di autenticità che sorpassino l' impasse del pensiero moderno e del suo esito nichilista. La presentazione del pensiero di Wittgenstein è senza dubbio ben riuscita e di facile comprensione, anche per un pubblico non abituato agli incontri ravvicinati con la filosofia del linguaggio. Come tale, la tesi dell'Autore è in chiave storico-biografica certamente condivisibile, forse con l'unica osservazione di non aver sufficientemente separato dalla critica di Wittgenstein alla teologia razionalista di certa neoscolastica, quel discorso su Dio di tradizione tomista (per es. pp. 68 e 127), il quale, per molteplicità di approcci metafisici e densità di ricchezza esistenziale, si porrebbe su un piano assai diverso. In chiave teoretica l'itinerario riassunto da Pititto resta volutamente limitato, perché dettato dallo specifico oggetto formale intelligentemente adottato. Un più esteso contesto teologico avrebbe infatti implicato affrontare, o comunque accennare, tematiche determinanti ai fini dell'utilizzo del pensiero di Wittgenstein in sede di epistemologia teologica, come ad esempio il rapporto fra religione e teologia, quello fra semplice possibilità e significatività di un discorso su Dio, quello in definitiva fra conoscenza naturale di Dio e Rivelazione di Dio su Se stesso, le cui implicazioni sono così importanti e delicate per tutta l'intera questione del problema di Dio.
Non è questa la sede per sviluppare se e come tali tematiche, così necessarie per il discorso teologico, possano essere oggi affrontate nel quadro di riferimento della filosofia del linguaggio, cosa peraltro già oggetto di studio da parte di molteplici autori, ormai anche in ambito continentale. Dalla prospettiva della teologia fondamentale, quella a noi più congeniale, ci permettiamo solo di segnalare alcune osservazioni e puntualizzare alcuni nodi da sciogliere.
In primo luogo andrebbero evitate letture sbrigative di Wittgenstein, le quali potrebbero facilmente associarne tout court il pensiero ad una sorta di irrimediabile fideismo. Molte delle sue affermazioni riportate da Pititto offrirebbero, è vero, sufficienti motivi per recensire l'autore del Tractatus in tal senso, ma non va dimenticato che l'orizzonte di Wittgenstein non è teologico, ma logico. Da questo punto di vista la differenza con Kant ci pare essenziale, pur nell'analogia già segnalata fra i due autori, in quanto il filosofo di Königsberg si proponeva una fondazione dell'etica e, con essa, un accesso al Dio della fede, cosa che Wittgenstein non fa. Detto in altre parole, un'assunzione diretta e senza correzioni dell'impianto kantiano in sede teologica sposerebbe la posizione fideista — non conforme alla tradizione teologica cattolica e, riteniamo, neanche alla rivelazione biblica — assai più di quanto non farebbero le riflessioni di Wittgenstein in sede logica. La teologia deve pertanto prestare grande attenzione alle aperture ed al rigore presenti nella sua filosofia. La teologia non è nuova a questi richiami, sia per la grande tradizione di linguaggio apofatico e dossologico che costella la sua storia, sia per gli avvertimenti in sede teoretica rivoltile da Kant e in tempi più recenti da Heidegger. Ciononostante — e desideriamo sottolineare questo punto — la teologia sa che l'approccio al mistero di Dio deve potersi sviluppare lungo tutte le dimensioni antropologiche, nessuna esclusa, pena la separazione fra religione e mondo, fra verità e vita, fra fede e conoscenza. Fino a quando il discorso razionale (nel senso più ampio del termine) viene riconosciuto significativo in non pochi ambiti della vita e del comportamento umano, motore delle scelte che guidano un'esistenza, anche la nozione di Dio dovrà poter trovare non solo spazio, ma anche significato (il che non vuol dire esaurimento, né completezza) pure nell'ambito di una simile razionalità. In tal senso l'itinerario di Wittgenstein è logicamente corretto, ma antropologicamente incompleto.
In secondo luogo, la teologia non può prescindere dal rapporto con la parola, perché in relazione costitutiva con la Parola incarnata. Un Dio che noi non possiamo dire, nella sua vita intima dice il Suo Verbo e, nella sua autocomunicazione al mondo, ha voluto dirsi con parole umane. Un discorso su Dio che sia possibile, non contraddittorio, perfino significativo, ma non comunicabile, non può essere utilizzato né dalla teologia, né dalla fede. Esistono certamente molti modi di comunicare ed è opportuno rivalutare le valenze di universalità contenute nell'esperienza religiosa e nella testimonianza, operazione già in atto a partire dal personalismo del XX secolo, grazie al superamento di molti pregiudizi ed incomprensioni generati dalla crisi modernista. Tuttavia, tanto l'esperienza come la testimonianza, categorie certamente costitutive dell'intera Rivelazione, poggiano in ultima analisi su un annuncio, su un messaggio riconosciuto sensato e significativo da tutte le dimensioni antropologiche del destinatario, intelligenza e cuore, esercizio della ragione e slancio della volontà. Una fede come passione non può essere disgiunta da un'altra passione, quella per la verità.
Infine, rappresenta un'importanza a nostro avviso fondamentale l'esplorazione delle aperture meta-linguistiche ed anche metafisiche della filosofia del linguaggio in rapporto alla possibilità e al significato di una Rivelazione. L'impossibilità di fondazione autoreferenziale — quanto Wittgenstein operò nel campo della logica troverà interessanti analogie con quanto opereranno Gödel nell'ambito della matematica, Heisenberg in quello della microfisica o perfino la cosmologia fisica contemporanea nell'ambito delle ricerche che le sono proprie — non dice solo incompletezza e rimando nel mistico wittgensteiniano, ma anche attesa di un significato che può essere ricevuto solo come dono , rapporto con la trascendenza non solo in termini di apertura, ma anche di fondazione e di legame costitutivo. Letta in questa chiave, perfino l'affermazione di Wittgenstein circa l'impossibilità di una fondazione scientifica dell'etica risulta forse più chiara: un'etica autoreferenziale non esiste e, quindi, non è scientifica, nel senso che è incompleta, richiede una fondazione al di là di essa, come lo richiedono la logica, la matematica, la fisica o l'antropologia.
Tutto ciò non rimanda solo al divino inteso in senso misterico, ma ad un'area di senso rintracciata come sede delle risposte alle domande che la ragione ha riconosciuto sensate, cioè antropologicamente ragionevoli e, perciò, comunicabili. A Wittgenstein va il merito di aver posto le domande giuste, alla teologia il compito di mostrare che la Rivelazione ne contiene le risposte.