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Riflettere sull’uomo

Józef Maria Bocheński
1959
Pubblicata in italiano sul volume Avvio al pensiero filosofico nel 1974, questa riflessione del logico domenicano di origine polacca Joseph Bochenski (1902-1995) espone con un linguaggio semplice e a tutti accessibile quali sono i principali interrogativi che emergono dallo studio filosofico dell’uomo, partendo dall’osservazione della sua emergenza sulla natura e dell’irriducibilità alla materia delle sue manifestazioni spirituali.

Rifletteremo ora sull’uomo. A suo riguardo i problemi filosofici sono così numerosi, che ora non è possibile nominarli tutti. La nostra meditazione si riferirà perciò necessariamente solo ad alcuni di essi. Prima di tutto, con i grandi pensatori del passato e del nostro tempo ci porremo la domanda: Che cosa è l’uomo, che cosa sono io veramente?

Sarà bene qui, come sempre, iniziare con lo stabilire quel­le proprietà dell’uomo che non soggiacciono a dubbio alcuno. Potremmo porre l’argomento sotto due titoli principali: l’uomo è innanzitutto un animale, in secondo luogo è un animale speciale, del tutto unico.

È quindi in primo luogo un animale e possiede tutte le caratteristiche di un animale. È un organismo: possiede organi di senso, cresce, si nutre, si muove, possiede potenti impulsi come l’istinto di conservazione e di lotta, l’istinto sessuale e altri, proprio come ogni altro animale. Se paragoniamo l’uomo agli animali superiori vediamo che esso costituisce una specie tra le altre specie animali. Certo, i poeti hanno lodato abbastanza di frequente i sentimenti umani con parole meravigliose. Ma io conosco alcuni cani, i cui sentimenti mi pare siano più belli e profondi di quelli di molti uomini. È forse spiacevole, ma si deve convenire che noi apparteniamo alla loro stessa famiglia, e che, ad esempio, i cani e le mucche sono un po’ come i nostri fratelli e sorelle minori. Per dir questo non abbiamo bisogno di rifarci alle teorie scientifiche dell’evoluzione, secondo le quali l’uomo ha origine, certo non da una scimmia, come vien spesso detto, ma da un animale. Che egli sia un animale è evidente anche prescindendo da una zoologia scientifica.

Eppure esso è un animale straordinario. Ha in sé molte cose che negli altri animali o non troviamo affatto o solo in minime tracce. Ciò che soprattutto colpisce è il fatto che l’uomo, dal punto di vista biologico, non avrebbe assolutamente alcun diritto di imporsi a tutto il mondo animale, di dominarlo, e, come il più potente parassita della natura, di approfittarne come effettivamente fa. È anzi un animale mal riuscito. Vista cattiva, olfatto quasi trascurabile, udito scadente, queste sono senz’altro le sue caratteristiche. Gli mancano quasi completamente armi naturali, per esempio artigli. La sua forza è insignificante. Non può né correre né nuotare velocemente; inoltre è nudo e muore molto più facilmente della maggior parte degli altri animali, di freddo e di caldo, ecc. Biologicamente considerato, non avrebbe diritto all’esistenza; dovrebbe essere scomparso già da lungo tempo come altre specie di animali mal riusciti.

Eppure, è accaduta tutt’altra cosa: l’uomo è il padrone della natura. Ha sterminato una larga serie di animali pericolosissimi, altri li ha fatti prigionieri e resi domestici. Ha cambiato la faccia del pianeta; anzi, basta guardare la superficie della Terra da un aeroplano o dalla cima di un monte per vedere come egli abbia sconvolto e mutato tutto. Ora comincia a rivolgersi al mondo esterno, al di fuori della Terra. Non è il caso di parlare di un estinguersi della specie umana; si teme piuttosto il suo proliferare.

Come fu possibile tutto questo? Conosciamo la risposta: per mezzo della ragione. L’uomo, benché così debole, possiede un’arma terribile: l’intelligenza. È senza confronti più intelligente di ogni altro animale, anche il più elevato all’infuori di lui. Senza dubbio troviamo una certa intelligenza anche nelle scimmie, nei gatti, negli elefanti, ma è un’inezia in confronto a ciò che l’uomo, anche quello più semplice, possiede. Ciò spiega il suo successo sulla Terra.

Questa però è solo una risposta comune e superficiale. Pare che l’uomo abbia non solo più intelligenza degli altri animali, ma anche un’altra specie di intelligenza o comunque la si voglia chiamare. Ciò è indicato dal fatto che egli, ed egli solo, presenta una serie di proprietà del tutto particolari. Quelle che più colpiscono sono le cinque seguenti: la tecnica, la tradizione, il progresso, la capacità di pensare in modo diverso dagli altri animali e infine la riflessione.

Dapprima la tecnica. Essa consiste nel fatto che l’uomo si serve di certi strumenti da lui stesso prodotti. Anche al­cuni tra gli altri animali fanno qualcosa di analogo, per esempio una scimmia può usare un bastone; ma il produrre con attività coscientemente finalizzata, strumenti complicati, mediante un lungo e faticoso lavoro, è tipico dell’uomo.

Eppure la tecnica non è certo l’unica particolarità dell’uomo. Essa non si sarebbe potuta sviluppare se l’uomo non fosse al tempo stesso un essere sociale, e sociale in un senso tutto particolare della parola. Noi conosciamo anche altri animali socievoli. Le termiti e le formiche, per esempio, possiedono una organizzazione sociale semplicemente meravigliosa. Ma l’uomo è sociale in modo diverso da queste. Egli si sviluppa cioé nella società mediante la tradizione. Questa non è innata in lui, non ha nulla a che vedere con i suoi istinti, egli l’impara. La può apprendere perché l’uomo, ed egli solo, possiede un complicatissimo linguaggio. La tradizione sola basterebbe già di per sé a distinguere nettamente l’uomo dagli altri animali.

Grazie alla tradizione l’uomo è progressivo. Egli impara sempre di più; e non apprende solo il singolo individuo − ciò avviene anche tra gli altri animali −, ma è l’umanità, la società che impara. L’uomo è ingegnoso. Mentre gli altri animali trasmettono di generazione in generazione in modo fisso il loro sapere, ogni nostra generazione sa di più, o almeno può sapere di più della precedente. Spesso nel corso di una sola generazione avvengono enormi innovazioni e noi, per esempio, ne abbiamo viste moltissime nella nostra stessa vita. Ancor più sorprendente è il fatto che questo progresso, come pare, abbia poco a che vedere con l’evoluzione biologica. Noi non siamo quasi affatto diversi biologicamente dagli antichi Greci, ma sappiamo incomparabilmente più di loro.

Pare che tutto − la tecnica, la tradizione, il progresso − debba dipendere da una quarta cosa, dalla capacità spe­ciale cioè che l’uomo possiede di pensare in modo diverso dagli altri animali. Questa diversità del suo pensiero non è facilmente riducibile ad una breve formula, poiché essa ha molti lati. Così, l’uomo è capace di astrazione: mentre gli altri animali pensano sempre in vista della cosa particolare, del concreto, l’uomo può pensare universalmente. Proprio a ciò deve le più grandi conquiste della sua tecnica; si pensi solo alla matematica, lo strumento più importante della tecnica. L’astrazione non è diretta solo all’universale, ma anche a oggetti ideali come numeri e valori.

Con ciò è sicuramente collegato il fatto che l’uomo pare possedere una indipendenza del tutto unica dalla legge della finalità biologica, che domina l’intero mondo animale. Io citerò solo due caratteristiche notevoli di questa indipendenza: la scienza e la religione. Ciò che l’animale conosce è sempre legato a uno scopo; esso ve­de o comprende solo quanto è utile a lui o alla sua specie. Il suo pensare è in tutto e per tutto pratico. Diversamente accade nell’uomo. Egli fa ricerche anche su oggetti che non possono avere alcun fine pratico, solo per amore del sapere; è capace di scienza oggettiva e l’ha effettivamente costruita.

Ancor più notevole è forse la sua religione. Quando vediamo che, sulla costa meridionale del Mediterraneo, dove la vite prospererebbe benissimo, essa viene coltivata pochissimo perché vi abitano i Musulmani, mentre è coltivata in condizioni incomparabilmente meno favorevoli, sul Reno o addirittura in Norvegia, paesi cristiani; quando osserviamo i grandi agglomerati nei deserti, attorno a santuari buddhisti o cristiani, allora dobbiamo dire che tutto ciò non ha un senso economico, biologico e che dal punto di vista animale è addirittura senza senso. Ma l’uomo si può concedere queste cose perché in certa misura è indipendente dalle leggi biologiche del mondo animale.

Questa sua indipendenza va anche oltre. Ognuno di noi ha l’immediata coscienza di essere libero; pare, almeno durante alcuni momenti, di poter superare tutte le leggi della natura. A ciò è connessa un’altra cosa. L’uomo è, e forse prima di tutto, capace di riflessione. Non è, come apparentemente tutti gli altri animali, rivolto esclusivamente al mondo esterno. Può pensare a se stesso, si preoccupa di se stesso, si interroga sul senso della propria vita. Sembra anche essere l’unico animale che abbia una chiara coscienza di dover morire.

Considerando tutte queste particolarità dell’uomo, non c’è da meravigliarsi se il padre della nostra filosofia occidentale, Platone, sia giunto alla conclusione che l’uomo è qualcosa di diverso dalla natura tutta. Egli −  o piuttosto ciò che lo rende uomo, la psiche, l’anima, lo spirito −  è certamente nel mondo, ma non appartiene al mondo: si eleva su tutta la natura.

Le suddette particolarità costituiscono solo un lato dell’uomo. Abbiamo già notato che egli è al tempo stesso un autentico e completo animale. Ancor più importante è il fatto che lo spirituale nell’uomo è strettamente legato a questa pura animalità, al corporeo. Il più piccolo disturbo nel cervello basta a paralizzare il pensiero del più grande genio, un mezzo litro di alcool è spesso capace di trasformare il poeta più raffinato in una bestia selvaggia. Ma il corpo con i suoi processi fisiologici e anche la vita istintiva animale sono qualcosa di così diverso dallo spirito, che si impone la questione di come sia in senso assoluto possibile una simile unione. Questo è l’interrogativo centrale della scienza filosofica dell’uomo; dell’antropologia, come viene chiamata.

Esistono diverse risposte a questa domanda. La più antica e più semplice consiste nel negare semplicemente che vi sia nell’uomo qualcosa d’altro oltre il corpo e i movimenti meccanici delle particelle del corpo. Questa è la soluzione del materialismo stretto. Essa oggi solo raramente è sostenuta a causa, tra l’altro, di un argomento che fu portato contro di essa dal grande filosofo tedesco Leibniz. Questi propose di immaginare il cervello così ingrandito da potersi muovere nel suo interno come in un mulino. Noi vi incontreremmo solo movimenti di diversi corpi, ma non mai qual­cosa come un pensiero. Il pensiero e simili devono essere assolutamente diversi dai semplici movimenti dei corpi. Naturalmente si può anche dire che non esiste né pensiero né coscienza, ma ciò è così palesemente falso che i filosofi di solito non prendono interamente sul serio tale affermazione.

Oltre questo materialismo estremo, ve ne è anche un altro moderato, secondo il quale esiste la coscienza, ma solo come funzione del corpo, una funzione che si distingue da quella degli altri animali soltanto secondo il grado. Questa dottrina è da prendere molto più seriamente.

Essa è abbastanza affine ad una terza concezione, che dobbiamo ad Aristotele e che oggi pare abbia ricevuto una forte conferma da parte della scienza. Si distingue in due punti dalle due precedenti specie di materialismo. In primo luogo essa afferma che non ha senso contrapporre unilateralmente al corpo le funzioni spirituali. L’uomo, insegna Aristotele, è un tutto, e questo tutto ha diverse funzioni: puramente fisiche, vegetali, animali e infine anche spirituali. Esse sono tutte funzioni non del corpo ma dell’uomo, del tutto. E la seconda differenza consiste nel fatto che Aristotele, con Platone, vede nelle funzioni spirituali dell’uomo qualcosa del tutto particolare, che non si trova negli altri animali.

Infine i platonici stretti − e non ne mancano nemmeno oggi − sostengono l’opinione che, come un maligno avversario ha formulato, l’uomo è un angelo che vive in una macchina, uno spirito puro che muove un puro meccanismo. Come già abbiamo detto questo spirito è pensato come qualcosa di assolutamente diverso da tutto il resto del mondo. Non solo il filosofo francese Descartes, ma anche molti filosofi esistenzialisti di oggi sostengono questa dottrina sia pure con diverse variazioni. Secondo essi l’uomo non è il tutto, ma soltanto lo spirito o, come oggi abbastanza sovente si dice, l’esistenza.

Come si vede, abbiamo qui propriamente due questioni: se nell’uomo esiste qualcosa di essenzialmente diverso che negli altri animali, e come questo qualcosa si comporti verso le altre parti costitutive della sua natura.

Ma riguardo all’uomo si pone anche un’altra questione fondamentale, che fu espressa con rigore dalla filosofia degli ultimi decenni, cioè dalla cosiddetta filosofia dell’esistenza o esistenzialismo. Noi abbiamo considerato diverse particolarità dell’uomo che gli conferiscono, tutte, una certa dignità e forza, grazie alle quali l’uomo è superiore agli altri animali. Ma l’uomo non è soltanto questo; è anche, e proprio a causa di queste proprietà, qualcosa di incompleto, di inquieto e in fondo di misero. Un cane, un cavallo, mangia, dorme ed è felice; oltre alla soddisfazione dei suoi istinti, non ha assolutamente altro bisogno. L’uomo è diverso. Egli si crea sempre nuovi bisogni e non è mai soddisfatto. Un’invenzione particolarissima dell’uomo è per esempio il denaro, di cui non ha mai abbastanza. Pare che non aspiri ad altro che a un progresso infinito, come se solo l’infinito lo potesse soddisfare. Nello stesso tempo l’uomo — e, pare, soltanto l’uomo — è consapevole però (pure) della sua finitezza, innanzitutto della sua morte. Queste due proprietà costituiscono insieme una tensione, in forza della quale l’uomo appare come un tragico enigma. Sembra esistere per qualcosa che non può assolutamente raggiungere. Che cosa è allora il suo senso, il senso della sua vita?

Per sciogliere questo enigma si sono affaticati, da Platone in poi, i migliori tra i nostri grandi filosofi. Essi ci hanno proposto in sostanza tre grandi soluzioni.

La prima, molto diffusa nell’800, consiste nell’affermare che il bisogno di infinito dell’uomo si deve soddisfare mediante una identificazione con qualcosa di più vasto: innanzitutto con la società. Non ha importanza, così dicono questi filosofi, che io debba soffrire, fallire, morire; l’umanità, l’universo continuerà. Dovremo ancora parlare di questa soluzione, più avanti. Qui diciamo solo che essa pare insostenibile alla maggior parte dei filosofi contemporanei, perché invece di sciogliere l’enigma, questa opinione nega il dato, cioè il fatto che l’uomo singolo desidera l’infinito per sé come individuo, e non per qualche cosa d’altro. Nella luce fosca della morte, tali teorie si dimostrano vuote e false.

La seconda soluzione, che oggi è molto diffusa tra gli esistenzialisti, afferma al contrario che l’uomo non ha assolutamente alcun senso. È un errore della natura, una creatura mal riuscita, una passione inutile, come scrisse una volta Sartre. L’enigma non può essere risolto. Noi rimarremo eternamente un tragico problema per noi stessi.

Ma vi sono anche filosofi che, seguendo Platone, non vogliono giungere a simile conclusione. Essi non credono a un così completo non senso del mondo. Secondo loro vi deve essere una soluzione all’enigma dell’uomo. 

In che cosa potrebbe consistere però questa soluzione? Solo nel fatto che l’uomo possa raggiungere in qualche modo l’infinito. Egli non lo può nella vita di quaggiù. Se dunque esiste una soluzione del problema umano, essa deve avere significato nell’aldilà, al di fuori della natura, del mondo. Ma come? 

L’immortalità dell’anima è dimostrabile secondo molti filosofi, a cominciare da Platone; altri l’affermano, senza tuttavia credere possibile una dimostrazione rigorosa. Ma anche l’immortalità non dà una completa risposta alla questione sopra posta: non si può capire come l’uomo nella vita di là, possa raggiungere l’infinito. Platone ha detto una volta che l’ultima risposta a tale problema può esserci data solo da un Dio, da una rivelazione che viene dall’aldilà. 

Ma questa non è più filosofia, bensì religione. Il pensiero filosofico suscita qui, come in altri campi, l’interrogativo: ci conduce fino ad un limite dove l’uomo, tacendo, guarda l’oscurità che non si può più illuminare.

    

Józef Maria Bocheński, Avvio al pensiero filosofico, La Scuola, Brescia 1972, tr. it. di Anna Sacchi Balestrieri, pp. 81-89.