Il duplice pericolo del concordismo e della “doppia verità”. Il desiderio della scienza di dare una visione esaustiva di tutta la realtà è in fondo il desiderio dell’uomo di avere una risposta al senso della sua esistenza. È questo desiderio che deve aprirsi al “mistero” del mondo, e riconoscerne le risposte nel messaggio donato dalla Rivelazione.
Riflettiamo più da vicino sulla duplice tentazione a cui può andar soggetto ogni pensiero cristiano e che, da una parte consiste nell’insidia del concordismo, dall’altra in quella della cosiddetta doppia verità. Il primo suppone che la verità rivelata e la verità razionale debbano talmente concordare tra loro, che entrambe vengano semplicemente a esprimere, sia pure in termini diversi, la medesima cosa. A questo scopo, però, esso manipola in tal modo i dati della rivelazione, da distorcerne e travisarne addirittura il senso. In pari tempo, fabbrica una falsa scienza, le cui elaborazioni, mediante esperienze e ragionamenti truccati, vengono preadattate a formule bell’e fatte che si pretende siano dedotte dalla rivelazione. È così che i sei giorni della Genesi diventano periodi geologici, mentre si arriva a voler dimostrare che il serpente striscia sul ventre in conseguenza appunto della maledizione divina, osservando nel suo scheletro certe escrescenze, che potrebbero costituire la testimonianza di originarie zampette miracolosamente scomparse.
Si raggiungeranno vertici addirittura grandiosi in questo genere di elucubrazioni, allorquando si darà per certo, come è stato fatto, che Adamo, pur non avendo mai avuto, per ovvie ragioni, il cordone ombelicale, avrebbe tuttavia dovuto portarne il vestigio, affinché in lui la natura umana potesse dirsi perfetta; mentre si farneticherà del Creatore intento a nascondere certi fossili fittizi entro gli stai geologici, allo scopo, nientemeno, di confondere e imbrogliare un giorno i calcoli di empi scienziati.
Non meno preziosi saranno i risultati a cui porterà la doppia verità. I pensatori cristiani più lontani da ogni concordismo non esiteranno a professare, ogni domenica, la propria fede in Dio Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, delle cose visibili e delle invisibili; e intanto vi spiegheranno che il mondo visibile è esistito da sempre, e che, per quanto riguarda il mondo invisibile, pare invece che il cristianesimo, dopo il giudaismo, sia stato contaminato da una concezione iranica, ma nulla vi sarebbe che meriti di venir preso in seria considerazione. Oppure si continuerà a sostenere che il cristianesimo si basa interamente sulla fede nella risurrezione del Salvatore, ma d’altra parte si lascerà intendere che il racconto del sepolcro vuoto è evidentemente leggendario, e che bisogna essere rimasti a uno stadio di mentalità mitologica per attribuirvi comunque una qualche importanza.
È più facile tuttavia ridersi di simili risultati che non evitarli. Chi più, chi meno, siamo tutti concordisti; e questo non ci trattiene dall’andare un po’ tutti a impantanarci, più o meno elegantemente, in quella «terra di nessuno» che separa la scienza dalla rivelazione.
Dovremo allora capitolare di fronte al moderno pensatore non cristiano che ci dice: «Ecco: vedete quali meschini compromessi o a quali inammissibili contraddizioni vi obbliga la vostra fede, non appena cominciate a voler pensare»? No, proprio non è il caso di capitolare. Anzitutto perché quel pensatore si trova, anche lui, nella medesima situazione; e poi perché la situazione, per il cristiano, non è affatto senza uscita, anche se in verità, l’uscita non è lì a portata di mano.
È infatti la sorte di tutte le conoscenze umane che, quanto più si approfondiscono in un campo particolare, altrettanto trovino difficoltà a raggiungere e assimilare cognizioni che si attingono in altri rami del sapere. Ogni specialista è quindi tentato, o di rinchiudersi nel proprio terreno di studio al punto d’ignorare sistematicamente gli altri, se non proprio di negarne l’esistenza, oppure di tendere ad annessioni puramente formali rispetto a quei rami per i quali non è attrezzato. Perfino tra certe scienze che sono, ai nostri tempi, strettamente collegate e interdipendenti nel proprio sviluppo, come la fisica e le matematiche, c’è tanto divario per quanto concerne le modalità dell’indagine e del ragionamento, che la conciliazione delle rispettive concezioni, peraltro necessaria la progresso della scienza, ne riamane sempre alquanto rallentata e ritardata. È noto come Einstein, negli ultimi anni della sua vita, mai sopportasse di dover segnare il passo di fronte a una concezione dell’universo fisico che egli non riusciva a unificare, perché nessuno dei sistemi matematici a sua disposizione poteva servirgli per dare una formulazione alle sue scoperte; mentre i matematici, dal canto loro, si dichiaravano incapaci di trovare una formula che riuscisse a integrare i dati forniti da Einstein. Da alcuni giorni, il mondo della scienza si è aperto a una ardente speranza: Heisenberg, lo stesso che ha posto in evidenza la sconcertante indeterminatezza in cui vanno a finire le misure più esatte concernenti le particelle elementari del nostro universo, avrebbe trovato finalmente, a quanto si va dicendo, la formula capace di ricomporre in unità un mondo che, in conseguenza del progresso stesso delle nostre cognizioni, si presentava alla nostra mente come scompaginato?
Se tali sono il dramma e la speranza per tanto tempo delusa perfino dalle due scienze, che da Cartesio in poi camminano di pari passo e strettamente unite e la cui coordinazione sta alla base di tutte le tecniche moderne, che dire di altre branche del sapere, la cui situazione reciproca è completamente diversa? […]
L’uomo, in effetti, non può da se stesso pervenire a una visione coerente di tutta la realtà. Da un canto, egli non può astrarsi da questa realtà per abbracciarla con uno sguardo solo. Inoltre questa realtà, così come al presente si manifesta, è una realtà profondamente scissa, che nessuna forza umana o cosmica potrà mai ricomporre in unità.
L’uomo nelle sue visioni del mondo, non fa che ricucire insieme, bene o male, delle vedute necessariamente parziali e assai lacunose intorno a frammenti di un universo sconfinato, in cui egli si muove a volta a volta su settori diversi; e di questi settori, non ce n’è mai stato uno ch’egli possa esaurire; d’altra parte, non esiste alcuna prospettiva d’insieme che gli sia accessibile e nella quale trovi la possibilità di abbracciare tutto in una volta. Il prezzo dei limitati successi dell’uomo in un campo determinato è inevitabilmente una specializzazione, la quale rischia di renderlo del tutto sprovveduto e inetto ad altri rami, dovuti da lui trascurare allo scopo di indagare efficacemente il primo.
I successi della scienza moderna, specialmente nel dominio dei fenomeni fisico-chimici sotto il loro aspetto quantitativo, hanno avuto per effetto di portare tendenzialmente all’atrofia delle nostre percezioni in altri campi. L’ingegnere è un tipo d’uomo che può vantare al proprio attivo brillanti successi; ma l’ingegnere, che non è e non vuol esser altro che ingegnere, si preclude alla prospettiva religiosa sull’universo, al punto di credere che tale prospettiva non esista o non sia che una illusione. D’altra parte egli rischia, altrettanto, di fare naufragio nei campi della estetica, delle relazioni umane, del senso morale della vita, sia che ne disconosca l’esistenza sia che a essi non riconosca alcuna consistenza propria e voglia ridurre, per esempio, a un problema di equazione i suoi rapporti di capo nei confronti dei propri operai, di sposo nei confronti della moglie, di padre rispetto ai figliuoli, ecc.
Tuttavia, quand’anche lo specialista, al pari di certi genii prodigiosi, come un Leibnitz, riuscisse, per così dire, a moltiplicarsi e ad essere specialista in tutto, rimane il fatto che nessun uomo può arrivare a un vertice speculativo, donde sia possibile abbracciare in un solo sguardo tutto l’universo, perché ciò significherebbe uscire dall’universo e stabilirsi nel centro focale da cui l’universo intero dipende: in altre parole, equivarrebbe a essere Dio.
Meglio ancora: ed è questa una affermazione della Parola di Dio che risponde direttamente a uno dei più tenaci presentimenti fra quanti sono insiti al cuore umano: esiste, nell’universo così come è, nella natura del mondo come in quella dell’uomo, qualcosa di scompaginato che tende a ricomporsi, senza riuscirvi mai. Così, per Iddio stesso, la unificazione di tutte le cose in una visione coerente non è soltanto questione di uno sguardo superiore: è un’opera da intraprendere, l’opera per eccellenza.
Potremmo essere indotti a pensare che tanto la visione unitaria dell’intera realtà, alla quale la conoscenza umana non può cessare di tendere, quanto la unificazione dell’universo in e per l’uomo stesso, verso cui è proteso tutto lo sforzo umano, siano delle chimere irraggiungibili. Senonché la fede proclama che né l’una né l’altra sono inaccessibili. Tuttavia, affinché visione e unificazione possano veramente essere raggiunte, occorre che Dio metta alla nostra portata la chiave, il nesso di tutte le cose. Tale è appunto il mistero del Cristo e della sua Croce.
Il mistero della fede non è dunque una verità priva di contatto o di connessione con le verità che la nostra intelligenza può scoprire da sé, con le proprie forze. E il mistero non è neppure la sostituzione, fatta sul loro stesso piano, delle verità che noi possiamo acquisire da noi stessi, con una verità che ci venga offerta già bell’e fatta. Il mistero è ciò cui tendono tutte le genuine e valide ricerche di una verità parziale, senza tuttavia che le stesse abbiano la possibilità di raggiungere la verità totale. E il mistero è la sola verità creatrice in grado di sciogliere per l’uomo le contraddizioni ultime, che una visione delle cose sempre più approfondita gli fa presentire dolorosamente.
Come la vita stessa dell’uomo è tesa in una incoercibile aspirazione non soltanto alla vita, ma al suo pieno possesso in una totale e perfetta unione d’amore, e come questa vita è dilacerata dal richiamo ineluttabile della morte, così il pensiero dell’uomo aspira a conglobare e a ricomporre tutto in unità; ma sembra che le cose gli si sottraggano con una fuga tanto più vertiginosa quanto più egli avanza per conquistarle.
Come l’uomo, sul piano dell’esistenza, tende a crearsi degli ingannevoli approdi, dove la storia del mondo terminerebbe per lui nella illusione di un amore talmente perfetto, da fargli dimenticare la morte, - alla stessa guisa, sul piano del pensiero, l’uomo tende a crearsi certi modelli semplificati dell’universo, dove tutto si spiegherebbe alla luce di un’idea chiara e distinta. Dominato dal romantico influsso delle proprie passioni, l’uomo urta nella religione cristiana come in un complesso di divieti, ch’egli è tentato di rifiutare come dei tabù; e non s’accorge che il cristianesimo intende semplicemente vietargli l’oblio della illusione che, occultandogli la realtà della morte, la rende per noi più irrimediabile. Allo stesso modo, nella euforia delle sue parziali scoperte, ma soprattutto delle promesse e degli orizzonti che le medesime sembrano dischiudere alla sua attività, l’uomo urta nella fede ed è tentato di respingerla come importuna e intrusa. La fede, tuttavia, vuole ricordargli, illuminandolo, ciò che il meglio del suo stesso pensiero gli fa intuire: esservi, cioè, in questo mondo assai più cose di quante ne afferri il nostro pensiero.
La sola a sentirsi importunata e a trovare inciampo nella fede non può essere che una falsa scienza, una scienza che si è pigramente fermata entro i propri limiti attuali, o una scienza che ha voluto indebitamente avventurarsi oltre l’ambito delle sue prese reali.
La scienza umana, che non sia soltanto una specializzazione chiusa in se stessa o degenerata in follia senile – e, come tale, autoritaria al pari di ogni follia -, la scienza che approda a una genuina sapienza, giunge per ciò stesso a riconoscere il mistero che è insito nelle cose e nell’uomo.
Allora, anziché precludere l’uomo al mistero rivelato, al mistero della fede, essa ve lo prepara. Ed è quanto afferma Origene in un’aurea sentenza, che uno tra i maggiori apologisti moderni ha voluto scegliersi come motto: «Quando per fede si è riconosciuto che il Dio autore della natura è lo stesso Dio delle Sacre Scritture, non ci si sorprende più d’incontrarsi, da una parte e dall’altra col mistero».
Louis Bouyer, Umano o cristiano, Morcelliana, Brescia 1959, trad. it. di Battista Fanetti, pp. 66-69 e pp. 75-79.