Docente di filosofia araba alla Sorbona di Parigi e a Monaco di Baviera, il filosofo francese studioso di cultura islamica Rémi Brague espone in questo saggio il diverso rapporto del cristianesimo e dell’islam con la filosofia. La differente concezione del rapporto fra fede e ragione ha determinato due storie diverse, non sono soltanto le storie delle due religioni in questione, ma quella dell’Europa nel suo insieme, quando questa viene confrontata con la storia delle aree di influenza islamica.
L'islam si trova di fronte alla modernità con il compito di rinnovarsi, di aggiornarsi. La tentazione è di fare un confronto con il modo in cui la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, ha effettuato il suo aggiornamento. Essa l'ha compiuto dando ad alcuni articoli della fede una nuova formulazione e continua tuttora attraverso un esame critico del proprio passato. Si sente allo stesso modo dire, a volte, che l'islam dovrebbe "riformarsi"; si concepisce questo progetto sul modello della Riforma del XVI secolo. Simili paralleli mi sembrano falsi per molte ragioni. Sarebbe necessario evidenziare, in primo luogo, una falsa immagine della natura e del funzionamento dell'islam da una parte, e della Chiesa cattolica dall'altra. In seguito una falsa immagine di ciò che la Riforma voleva e di ciò che ha compiuto. Il problema è dunque sapere se il tanto sperato rinnovamento dell'islam potrebbe realizzarsi prendendo a prestito fonti esterne ad esso o attingendo a fonti interne. Si tratterebbe in questo secondo caso di rivitalizzare delle tendenze culturali passate che sarebbero state soffocate o dimenticate. Possiamo trovare a questo proposito dei paralleli, nella storia passata dell'islam? La filosofia può essere uno di questi paralleli?
L'esempio della filosofia è allettante. Si tratta in effetti di una disciplina che ha origini esterne all'islam. La filosofia è nata in Grecia; ha conosciuto un brillante percorso nel mondo romano pagano. I Padri della Chiesa cristiana hanno integrato molti elementi provenienti dalla filosofia e hanno loro stessi fatto progredire l'indagine filosofica, basti pensare a sant'Agostino. L'islam ha generato filosofi di primo piano. Le loro opere hanno rappresentato per il pensiero dei filosofi del Medioevo in Occidente una sfida ed una fonte di ispirazione: san Tommaso d'Aquino lesse Averroè, Duns Scoto si considerava discepolo di Avicenna. Così, si può dunque sperare in una ripresa del dialogo tra islam e filosofia? E nel Medioevo la sintesi si è davvero operata?
Il principale fattore che ha impedito alla filosofia di penetrare profondamente nel mondo islamico è che essa è rimasta un fenomeno d'élite. Certo, i grandi filosofi islamici sono a tutti gli effetti allo stesso livello dei loro equivalenti europei. Ma un esercito non è composto solo da generali. In terra islamica nessuno svolgeva la professione di insegnare o imparare la filosofia. Certamente niente impediva ad un imam di occuparsi di filosofia e di dare prova di grandi capacità in questo ambito. Ma tutto questo restava a livello di dilettantismo.
Questa situazione ebbe come conseguenza due modi di recepire la filosofia molto diverse. In terra d'islam essa non è mai stata istituzionalizzata. Nell'Occidente latino l'insegnamento della filosofia costituiva la base degli studi superiori. Erano necessari molti anni di filosofia prima di specializzarsi in medicina, diritto o teologia. Il quarto Concilio Lateranense (1215) sancì che era obbligatorio un corso di filosofia nella formazione dei teologi. Niente di tutto questo è mai esistito al di fuori dell'ambito cristiano latino. Di conseguenza, un medico, un giurista, un teologo dell'Occidente latino, sono prima di tutto filosofi. In compenso un uomo di religione pienamente competente, nell'islam, come d'altra parte nel giudaismo, non ha alcun bisogno di aver studiato filosofia. In Europa la filosofia non cessò di essere praticata fino ai nostri giorni. Fu praticata al più alto livello: dal cardinale Niccolò Cusano fino all'ultimo dei nostri papi, che ha iniziato la sua carriera come professore di filosofia.
Nell'islam, il percorso della filosofia fu abbastanza breve: dalla metà del IX secolo all'inizio del XIII secolo. Dopo questa data, la filosofia scomparve, «fatta eccezione per qualche retaggio che si può ancora ritrovare in un ristretto numero di persone isolate, sottostanti al controllo della Sunna». È così che Ibn Khaldun, nel XIV secolo, la presenta . La riscoperta del pensiero dei filosofi medioevali è avvenuta per tramite dell'Occidente. Il (troppo) celebre Trattato decisivo di Averroè fu stampato per la prima volta a Monaco nel 1862. È questo testo che fu ripreso nel mondo arabo a partire dalla fine del XIX secolo.
Il mondo musulmano, come si presenta oggi, potrebbe di nuovo mettersi in ascolto della filosofia? Ciò significa: sia prestare attenzione alla propria tradizione filosofica medioevale, sia alla filosofia che si è sviluppata in Occidente a partire dalla fine del Medioevo. Le prove di questo interesse non sono inesistenti, ma sono rare. Nelle università del mondo arabo, la filosofia viene insegnata nella maggior parte dei casi in dipartimenti dove si insegna anche il misticismo e l'apologetica. Così facendo, la filosofia si trova accostata alle discipline che sono state, nel passato dell'islam, le sue rivali più accanite. La tipologia di rapporto con il sapere, che è alla base della filosofia islamica, è altrettanto difficile da conciliare con la filosofia moderna. Gli islamici consideravano la filosofia come suscettibile di insegnamento poiché conteneva verità oggettive già scoperte. Per noi, invece, la filosofia non è un insieme di risultati, ma piuttosto un'attitudine dello spirito. L'islam fa fatica ad addentrarsi in questo tipo di ricerca incompiuta. Il modello di sapere proposto dalla religione musulmana invita piuttosto a poggiarsi su conoscenze già presenti. L'islam infatti non concepisce la Rivelazione allo stesso modo del cristianesimo: vi vede piuttosto la comunicazione definitiva di un messaggio divino e quindi immutabile.
La sfida davanti alla quale la modernità pone l'islam non è dunque tanto di appropriarsi di un determinato contenuto di sapere, che potrebbe essere il risultato della ricerca dei filosofi, ma anche di qualsiasi altro sapere. È piuttosto, se si può elevare al quadrato la formula, di appropriarsi di una certa modalità di appropriarsi, modalità che, fino ad ora, è stata quella dell'Europa e di essa soltanto.
Avvenire, 21 febbraio 2006, p. 23