Felicità

  Tutti desideriamo essere felici. Nessuno direbbe mai il contrario. Cerchiamo la felicità seguendo strade diverse, forse disperando dal poterla conquistare, ma tutti la vogliamo raggiungere e, una volta raggiunta, farla durare il più a lungo possibile. È qualcosa di innato, di vitale per noi. Come l’aria da respirare. Così come tutti abbiamo il diritto alla vita, in un certo senso tutti abbiamo il “diritto” di essere felici. Ma sì, proprio un diritto… Lo ritroviamo così nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776), che recita: «Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità». Tra le verità basilari che sorreggono l’esistenza umana, i redattori di questo importante documento non esitarono a porre il diritto di ricercare la felicità. Che rapporto ha questa ricerca della felicità con la nostra condizione di “cercatori di senso”? Se vuoi, puoi cominciare a pensarci.

  Cosa ci rende felici? Una prima risposta è pensare che siano alcune cose a renderci felici. Desideriamo degli oggetti, il cui possesso riteniamo ci appaghi e rechi con sé uno stato di felicità. In alcuni casi, il possesso di quanto è necessario alla sopravvivenza rappresenta già un primo obiettivo che ci rende felici. Sul nostro pianeta un piatto di riso fa felice una parte non indifferente dell’umanità. Eppure, soddisfatto un primo livello di bisogno, ci rendiamo conto che la nostra sete di felicità non è appagata, pur possedendo gli oggetti desiderati. Gli oggetti cambiano, non durano, ci soddisfano solo per un tempo limitato. Ne desideriamo subito altri. La felicità sembra sfuggirci e noi la rincorriamo. A un certo punto iniziamo a pensare che è la disponibilità di denaro ciò che potrà renderci felici. Il suo potere di scambio e di acquisto è illimitato. Grazie al denaro possiamo avere il controllo sugli oggetti dei nostri desideri e averlo sul nostro futuro. La ricerca del denaro è una molla fortissima. Le trame di un gran numero di romanzi e di film mostrano persone disposte a tutto pur di raggiungere ciò che desiderano, ciò che ritengono possa renderli felici. Chi ci riesce davvero sembra essere una minoranza… pochi fortunati! Non è forse questa la finalità della maggior parte dei protagonisti delle diverse storie? Per arrivare al denaro, al caveau di una banca, ai gioielli, al successo nella professione, a stabilirsi in una bella casa su un’isola felice, lontana e nascosta, fanno davvero di tutto. Ma qui sopraggiunge una seconda riflessione: come far durare nel tempo questo stato di felicità?

  Chi cerca la felicità è costantemente esposto a molti rischi: la meta non è chiaramente definita in partenza; nonostante l’aspirazione che si riconosce presente, si affaccia il pensiero di non saper raggiungere l’obiettivo, di non poter realizzare quella felicità avvertita come naturale compimento del proprio desiderio. Nasce così la paura di non riuscire a essere felici: la sfiducia nelle nostre capacità, l’incertezza sul futuro, forse addirittura un principio di disperazione. Capiamo che la felicità dipende anche delle relazioni che abbiamo instaurato, da chi abbiamo accanto nella fruizione degli oggetti finalmente posseduti, ma torniamo a chiederci: con chi condividiamo questa vita felice? Come potrà durare? Pensando a chi abbiamo attorno ci chiediamo: muteranno i loro caratteri, le loro disposizioni verso di noi? Gli amici resteranno tali, per sempre? E le numerose condizioni che non controlliamo – la salute fisica, l’ambiente attorno a noi, le forze della natura – ci saranno sempre favorevoli e mai avverse?

  Non siamo in grado di spiegarlo fino in fondo, ma ci rendiamo conto che le “piccole felicità” che abbiamo collezionato potrebbero non fare una “vita felice”. Ci regalano un assaggio – precario e temporaneo – di qualcosa che vorremmo fosse destinato a durare per sempre. Pensa allo sguardo di chi ami: non vorresti che quell’attimo, che tanto ti soddisfa, non terminasse mai? La vera felicità possiede il timbro dell’eterno. Vogliamo sia qualcosa di definitivo. Ed è proprio constatare il carattere temporaneo delle nostre “piccole felicità” che può aiutarci a riflettere. Quando, inevitabilmente, l’istante magico svanisce, rimane in te la sua eco. Scopri allora che alcune soddisfazioni sono soltanto passeggere, che alcuni piaceri sono puramente “sostitutivi”, ti hanno forse aiutato a riempire un vuoto, la cui misura resta incolmabile. Soprattutto, inizi a capire che il termine “felicità” viene usato per indicare esperienze molto diverse e che soltanto alcune di esse soddisfano quel desiderio profondo che senti dentro di te.

  Forse hai già conosciuto persone che sono felici pur non avendo molto denaro, trovandosi in condizioni precarie di salute, con pochi beni materiali e poche esigenze. Allora qualcosa non torna. Che vi fossero diversi modi di intendere la felicità lo sapevano già i filosofi greci, che si interrogavano su cosa significasse una “vita felice” dando risposte differenti: ricevere onori e ricchezze; l’assenza di dolore e di preoccupazione; possedere saggezza e virtù; godere dell’amicizia e della vita in comune. Pensatori come Epicuro in Occidente e Buddha in Oriente hanno insegnato a minimizzare i dispiaceri, narcotizzare il dolore, eliminare gli effetti psicologici della sofferenza… Eppure, nella sua Lettera a Meneceo, Epicuro chiariva al suo discepolo che tutto ciò era insufficiente per ottenere una vita felice: questa non dipendeva solo dalla presenza di piaceri e dall’assenza di dispiaceri, ma era necessaria una vita virtuosa.

  Epicuro e Buddha invitavano a guardare dentro di sé. E se guardassimo oltre? Pensa ai momenti in cui sei stato davvero felice: non erano forse sempre legati alla presenza di qualcuno, a un’esperienza piena e appagante di condivisione? Provo a dirlo con un termine differente: la felicità non avrà forse a che vedere con l’amore? Se hai mai provato l’esperienza di sentirti atteso e accolto sai bene cosa intendo. Per quanto parziali, incompiuti o travagliati siano i nostri amori, essi ci sembrano una specie di anticipazione, come un “trailer” della vita felice o – con un termine usato da poeti e saggi – della vita beata. Felicità e amore sono due facce della stessa medaglia.

  Iniziamo a intuire che il compimento del nostro desiderio di felicità non è una soddisfazione egoistica e solitaria, ma porta con sé una necessaria apertura alla relazione con l’altro. Nella ricerca della felicità, non valgono i criteri quantitativi: non ci basta una serie di esperienze positive per poterci dire “felici”. Possiamo sommare attimi su attimi, ma la misura del nostro desiderio non è mai colma. Siamo esseri personali, e solo una persona può farci felici. Il compimento a cui aspiriamo conduce sempre davanti a un volto, a una relazione d’amore vissuta faccia a faccia, posando il capo sul cuore della persona amata, per ascoltarne le parole. Se è l’amore a renderci felici, capiamo allora perché alcune persone, che ritenevamo non avessero motivi per esserlo, lo sono; ed altre, viceversa, pur avendone, non lo sono.

  A questo punto, quasi senza volerlo, mi vengono in mente le parole di qualcuno che aveva insegnato proprio questo, e in modo sorprendente. Gesù di Nazaret ha descritto la felicità in un modo paradossale, riconoscendo come “beati”, nel Discorso della montagna, tipi umani e atteggiamenti che apparentemente sono molto lontani dall’ideale comune di “vita felice”: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5,3-10). Ecco qualcuno che si prende la responsabilità di dichiarare apertamente come essere felici, e lo fa suggerendo percorsi che vanno controcorrente rispetto alla mentalità del suo tempo (e di tutti i tempi). I poveri in spirito, gli afflitti, i miti, chi ha fame e sete di giustizia, chi tratta gli altri con misericordia, perdonando, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia… Tutti costoro, che il mondo giudicherebbe dei perdenti, forse dei falliti, incarnano agli occhi di Gesù di Nazaret un modello di felicità che sa guardare avanti, oltre l’attimo fuggente, perché sono capaci di costruire un mondo nuovo.

  In realtà, se le beatitudini insegnate da Gesù di Nazaret delineano un mondo nuovo, non è perché qualcosa sia cambiato “là fuori”: ciò a cui esortano è a “trasformare” lo sguardo sulla realtà circostante, su quello che c’è già. Le situazioni da cui gli uomini cercano abitualmente di sfuggire, proprio perché reputate massimamente infelici, sono qui indicate come porte d’accesso a un’esperienza di vita riuscita, piena, concreta. La felicità non è un concorso a punti, non è una raccolta di piccole esperienze sconnesse e solitarie, ma è cambiare lo sguardo sul mondo e, così facendo, lasciarsi coinvolgere da una trasformazione profonda. Improvvisamente al primo posto non ci sono più i tuoi piccoli rimedi alla tristezza, ma la costruzione di qualcosa che, intuisci, durerà: una vita rinnovata insieme agli altri, insieme all’Altro. Lascia che la tua ricerca di senso ti porti fino a qui, provando magari il brivido della felicità, proprio là dove non te l’aspettavi.