Ti sarà capitato qualche volta di fissare la tua immagine riflessa da uno specchio e dire: “quella persona sono proprio io”. Non succede solo davanti allo specchio: nella vita di tutti i giorni ti chiedi continuamente chi sei, se sei proprio tu, e ogni volta che ti poni questa domanda stai riflettendo sulla tua identità.
L’identità è la consapevolezza del fatto che i tanti aspetti che compongono l’immagine che hai costruito di te costituiscono un sistema coerente e integrato. Ogni volta che interagisci con l’ambiente, questa consapevolezza seleziona tra i comportamenti che hai imparato quelli più idonei all’adattamento, ti permette di riconoscerti nel presente e di proiettarti nel futuro.
Gli psicologi sostengono che ognuno costruisce l’immagine di sé nel tempo. Ciò significa che i tratti di quest’immagine vengono confermati o rigettati dalle esperienze che vivi da bambino, da adolescente, da adulto. Questi vengono continuamente aggiornati e incorporati nell’immagine complessiva, ma c’è una parte di questa immagine che permane nel cambiamento.
In prima approssimazione, l’identità è in fondo l’immagine che hai costruito di te stesso, “chi” pensi di essere per davvero. In base a questa immagine non solo sai riconoscerti perché hai certe caratteristiche fisiche, o perché reagisci in un certo modo a eventi o situazioni, ma sai riconoscere come tue le azioni con cui ti esprimi e ti poni in rapporto con gli altri.
Tuttavia la nostra identità individuale non è mai solitaria, ma è sempre definita in relazione a un altro. Non posso mai pronunciare “io” se non in relazione a un “tu” rispetto al quale affermare la mia alterità. Questa realtà è espressa dal fatto che ogni essere umano ha un nome, che in molte culture significa ciò che quella persona è. Nella Bibbia, ad esempio, il primo uomo si chiama Adamo, dall’ebraico adāmā, "terra", "suolo". L’attribuzione di un “soprannome”, un “nome in codice”, un “totem” (come avviene nel movimento scout ad esempio) ha la finalità di specificare una caratteristica o la missione di una persona. Il cambiamento del nome è legato all’acquisizione di una nuova identità o di un nuovo stato di vita. Ad esempio, nella Bibbia, poter cambiare il nome di qualcuno significa avere il possesso della sua essenza: così, Dio può dare un nome agli uomini (es. Adamo), o cambiarlo (es. da Abram a Abramo, da Giacobbe a Israele) a seconda del destino affidato a ogni uomo.
Oltre a riconoscerci come un soggetto autonomo, con la nostra identità, ci riconosciamo anche come membri di una comunità: cittadini di uno stato nazionale, con una cultura, una storia, una etnia, idee e valori. Siamo figli, amici, studenti. Ci riconosciamo preziosi per qualcuno, e questo ci fa felici. La nostra identità, individuale e sociale, ci rende diversi dall’altro, unici e irripetibili, in tutti i contesti in cui si sviluppa la nostra personalità.
Costruiamo la nostra identità nel tempo, anche grazie alla formazione che riceviamo. Nell’educazione veniamo continuamente trasformati dalla relazione con gli altri attraverso una delle principali forze usate dalla nostra mente per l’adattamento: l’imitazione. Una buona educazione, come noto, richiede l’esposizione a buoni esempi da imitare. Imitare però non è copiare. Infatti, l’obiettivo dell’e-ducazione (da ex ducere, condurre fuori) è mettere in gioco quello che siamo, tirar fuori il meglio di noi, ed è per questo che l’educazione ci trasforma. Se però ci limitassimo ad assumere modelli stereotipati, senza costruire la nostra personale identità, rischieremmo di lasciarci manipolare.
Il semplice adeguamento della propria identità a quella di un’altro non è l’esito di un “processo educativo”, ma “manipolativo”. La manipolazione dell’identità rende la persona profondamente infelice e può causare alterazioni della personalità nel dominio di sé e del suo rapporto con gli altri: autostima vulnerabile, dipendenza affettiva, scompensi emotivi, difficoltà nel mettersi nei panni degli altri e nello stabilire legami positivi e duraturi.
Corriamo questo rischio quando la nostra identità si trova implicata in relazioni inautentiche. Non sono autentiche le relazioni in cui le identità di ciascuno non si espongono al cambiamento, al rischio del dolore, della delusione e di una trasformazione di sé. Insomma, se non ci espongono a metterci in gioco. In una relazione autentica, invece, due persone vivono l’amicizia come una relazione in cui crescono entrambi, e nel confronto reciproco tra visioni del mondo esse rafforzano la loro identità: accettano la propria, e riconoscono quella dell’altro. È facile intuire che un forte senso di identità, perciò, ci porta a sviluppare pienamente la libertà e la responsabilità.
La dimensione religiosa ha una grande importanza nella definizione dell’identità della persona, definendola in rapporto a un “tu” trascendente. Paolo di Tarso offre una meravigliosa descrizione dell’identità del cristiano nella lettera agli Efesini: un uomo benedetto e infinitamente amato da Dio, scelto prima della creazione del mondo per partecipare alla vita divina, per diventare figlio ed erede attraverso Gesù Cristo.
Nella lettera ai Galati Paolo dice addirittura che non è lui a vivere la propria vita, ma è Gesù Cristo stesso a vivere in lui. Si tratta di una affermazione decisamente interessante: chi si professa cristiano, afferma che la propria identità è Gesù Cristo. Questa affermazione non nasconde semplicemente il desiderio di imitare un grande personaggio, come ciascuno di noi potrebbe desiderare di essere simile al proprio calciatore o cantante preferito. L’identità del cristiano è Gesù Cristo perché attraverso di lui egli attinge alla verità del suo essere.
Pertanto, quando il cristiano riconosce che Gesù vive in lui, egli spalanca la porta che gli permette di ritrovare sé stesso. Non è infatti il cristiano a proporsi di diventare come Gesù, ma è Gesù stesso a rivelare chi egli è veramente agli occhi di Dio: una creatura, un figlio amato che può rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre”.