In Italia da troppe settimane piangiamo ogni giorno la scomparsa di centinaia di persone per COVID-19. Insieme ai lutti, ci prepariamo alle conseguenze della pandemia globale, e vediamo all’orizzonte un periodo di crisi economica probabilmente senza precedenti.
In queste settimane di lockdown ho pensato a lungo a cosa potessi imparare da questa situazione inedita per tutti. Devo confessare che convivo con un forte senso di contrasto interiore: convivono in me il desiderio di obbedire alle indicazioni che mi impongono di ridurre la mia attività, e allo stesso tempo il desiderio di fare di più per aiutare e accompagnare molte persone in un momento tanto difficile. Ma so che quella che stiamo vivendo non è affatto una situazione nuova nella nostra storia.
Ricordando la peste ad Atene (431 a.C.), Tucidide affermava che «non bastavano a fronteggiarla neppure i medici i quali, non conoscendo la natura del male, lo trattavano per la prima volta […]. Tutte le suppliche fatte nei luoghi sacri e ogni rivolgersi ai vaticini e a cose del genere risultò inutile, e alla fine gli uomini abbandonarono questi espedienti, sopraffatti dal male» (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1985, libro II, 51-53, pp. 345-349).
I cristiani hanno convissuto con epidemie per 2000 anni: dalle epidemie dell’epoca classica, alle pestilenze dell’epoca medievale e moderna, a quelle contemporanee come ad es. HIV, ebola, ecc. Non è una situazione affatto inedita. Qual è stato il “segreto” dei cristiani in tempo di pandemia? Come possiamo aiutare l’umanità a uscirne vittoriosa, anche se ferita?
Ho letto con piacere l’articolo di Lyman Stone, “Christianity Has Been Handling Epidemics for 2000 Years”, Foreign Policy, 13 marzo 2020. Ho rivisto con altrettanto piacere il saggio del sociologo delle religioni statunitense Rodney Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo (or. inglese Rise of Christianity del 1996, pubblicato in italiano da Lindau nel 2007). Quest’ultimo testo contiene un intero capitolo sul perché le epidemie siano state un fattore di espansione del cristianesimo, quando per la demografia del mondo classico sono state invece un fattore implosivo. I cristiani in tempi di pestilenza non solo sono sopravvissuti curiosamente in misura maggiore rispetto al resto della popolazione, ma sono addirittura aumentati di numero. Tutto ciò curando non solo i malati cristiani, ma anche i non-cristiani allontanati e abbandonati dai loro sodali. Insomma, una lettura interessante in tempi di quarantena.
Il testo propone tre tesi suggestive, ben documentate. Riporto per brevità solo la seconda, che mi ha fatto molto riflettere: «Sin dall'inizio, i valori cristiani dell'amore e della carità erano stati tradotti in norme di solidarietà sociale all'interno delle comunità. Di conseguenza, i cristiani erano più preparati ad affrontare le calamità, e questo determinò i loro tassi di sopravvivenza notevolmente più alti» (Stark, cit., 107).
Dionisio, vescovo di Alessandria, in una sua lettera ricorda che durante l’epidemia dell’anno 260: «La maggior parte dei nostri fratelli, dunque, senza avere alcun riguardo per sé stessi, per un eccesso di carità e d'amore fraterno, accostandosi gli uni agli altri, visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo e morivano assai gioiosamente con loro; contagiati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo e ne assumevano volentieri le sofferenze. Molti poi, dopo aver curato e ridato forza agli altri, morirono essi stessi […]. Dunque i migliori dei nostri fratelli persero in questo modo la vita, alcuni presbiteri, diaconi e laici, furono grandemente lodati, al punto che anche questo genere di morte, frutto di grande pietà e fede coraggiosa, non sembrò per nulla inferiore al martirio. […] Completamente opposta era la condotta dei pagani: essi allontanavano coloro che cominciavano ad ammalarsi, evitavano le persone più care, gettavano per le strade i moribondi, trattavano come rifiuti i cadaveri insepolti, cercando di sfuggire alla diffusione e al contagio della morte, che non era facile allontanare, nonostante prendessero tutte le precauzioni» (Lettera di Dionisio vescovo di Alessandria, citata in Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, Città Nuova, Roma 2001, libro VII, 22, 113-115).
Riflettevo sulla seconda di queste tesi e sulle parole di Dionisio, e al fatto che oggi non incoraggiano affatto i cristiani a comportamenti imprudenti. Stark stesso ci invita a prendere con cautela le affermazioni di Dionisio, che richiedono una probatio diabolica: bisognerebbe dimostrare che i cristiani prestarono veramente soccorso ai malati mentre la maggior parte dei pagani non lo fece, e che da questo comportamento siano derivati tassi di mortalità diversi in misura statisticamente significativa (Stark, cit., 117).
Quelle di Dionisio sono comunque notizie esemplari: ricordano l’abnegazione di uomini che hanno assistito i propri fratelli, assumendosene eroicamente rischi e responsabilità. Quali sono questi rischi e responsabilità? Quelle che derivano dalla norma del quinto comandamento del decalogo, non uccidere (cf. Es 20,13).
Oggi questo comandamento sembra interrogarci in modo diverso. Questo precetto non ci dice solo di non togliere la vita a nessuno. Ci chiede di custodire la vita nostra e altrui, perché è sacra. E perché? Il Genesi ci dice che l’uomo è imago Dei (Gen 1,26). E questa sacralità possiamo sfortunatamente metterla a repentaglio con comportamenti sia positivi che omissivi.
Il quinto comandamento in questi giorni di epidemia è stato invocato da molti a sostegno della cura che dobbiamo avere nel seguire le norme per ridurre le probabilità di contagio. Non è medicina, ma statistica. Anzi, è civiltà. E questa civiltà passa dalle piccole cose: dall’usare un fazzoletto di carta, dall’uso diligente di una mascherina, dal saper stare in coda rispettando le distanze di sicurezza, dal saper tossire o starnutire “nel gomito”, dal rinunciare a un abbraccio o un bacio.
La cura che abbiamo nel rispettare le indicazioni che ci arrivano dalle autorità di sanità pubblica è un modo concreto che abbiamo per tutelare la vita nostra e altrui. Questo è un precetto che si è sempre dimostrato il “segreto” del caso cristiano. Afferma Lyman Stone nell’articolo prima citato: «Il motivo cristiano per l'igiene e la sanitizzazione non si basa sull'autoconservazione, ma su un'etica di servizio al prossimo. Vogliamo prenderci cura degli afflitti, il che significa innanzitutto non contagiare i sani. I primi cristiani crearono i primi ospedali in Europa come luoghi igienici per fornire cure durante i periodi di peste, con la consapevolezza che la negligenza che diffondeva ulteriormente la malattia era, di fatto, omicidio». (Stone, cit., mia traduzione)
Incertezza scientifica davanti al male, e senso di insufficienza e inadeguatezza spirituale. È quello che molti, anche cristiani, stanno provando in questi giorni con reazioni molto diverse. I richiami irenisti al buonumore e le esortazioni a una visione soprannaturale “di precetto” contribuiscono certamente a mantenere l’ordine domestico, ma stridono fortemente con i lutti e il sacrificio di molti. Aiuta poco cercare consolazioni economiche negli studi che ricordano che alle catastrofi, come ad esempio le pandemie, storicamente segue la riduzione delle diseguaglianze economiche (Scheidel Walter, The Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century, Princeton University Press, 2017). Nessuno in questo mondo avrebbe voluto aggiungere una sola pagina a questi studi.
Vale però la pena interrogarci se il nostro comportamento è conforme al comandamento della custodia della vita umana. Questo può richiedere talvolta dei comportamenti eroici, ma ordinariamente impone il semplice rispetto di quanto abbiamo imparato dalla scienza per la custodia della vita nostra e altrui. Perché è sacra, e perché è sensato da un punto di vista evolutivo. Sembra essere questo un chiaro esempio, pratico nella sua essenza, in cui scienza e fede vanno d’accordo in tempo di COVID-19.