Gli autori e lo scopo del libro
L'ultimo libro di Stephen Hawking, che si presenta come i precedenti in una veste editoriale molto curata, con carta patinata e numerose illustrazioni (per la maggior parte realizzate al computer), è stato scritto in collaborazione con Leonard Mlodinow, il cui nome, per ovvi anche se discutibili motivi commerciali, compare sulla copertina in caratteri molto più piccoli rispetto all'insigne coautore.
Stephen Hawking non ha effettivamente bisogno di presentazione: teorico di alto livello, autore di importanti lavori di fisica fondamentale, ha tenuto testa alla grave malattia che l'ha costretto sulla sedia a rotelle e si è anche dedicato con successo alla divulgazione, divenendo immensamente popolare. Mlodinow ha un dottorato in Fisica teorica e tiene attualmente un corso presso il Caltech, ma ha soprattutto lavorato come sceneggiatore, ad esempio nella popolare serie televisiva di fantascienza Star Trek, e come divulgatore (in quest'ultima veste ha già collaborato con Hawking).
Questa volta, scrivendo The Grand Design, i due autori si sono prefissi uno scopo ambizioso: infatti, non si sono voluti limitare a una presentazione e discussione delle ultime teorie nel campo della fisica fondamentale e della cosmologia, ma hanno anche voluto mostrare che la scienza non ha bisogno di ricorrere a un Dio per spiegare l'esistenza dell'universo. Questo aspetto, unito al richiamo che esercita il nome di Hawking, non ha lasciato indifferenti persino alcuni nostri quotidiani nazionali.
Ero naturalmente curioso di vedere con quali argomentazioni gli autori avrebbero sostenuto il loro punto di vista: pensavo di leggere una versione “cosmologica” del libro di Richard Dawkins, The God Delusion, che, per quanto se ne possano o no condividere le tesi, è stimolante e provocatorio. Purtroppo così non è: più precisamente, il libro di Hawking e Mlodinow è senz'altro provocatorio, ma non all'altezza degli scopi ambiziosi, troppo ambiziosi, che si prefigge. È purtroppo un libro superficiale nella parte storica e filosofica, contenente diversi errori, anche grossolani, insieme a giudizi perentori e arroganti. Rimane interessante la parte centrale, dove gli autori descrivono ciò di cui hanno davvero competenza, ma che non è peraltro particolarmente originale per chi segue questi argomenti e ha letto i precedenti libri di Hawking.
Il contenuto dei primi due capitoli del volume
Nel primo capitolo, Hawking e Mlodinow esordiscono affermando categoricamente che «La filosofia è morta», perché ciò che una volta era spiegato dalla filosofia, oggi viene spiegato dalla scienza e precisano: «Per comprendere l'universo al livello più profondo, dobbiamo sapere non solo come l'universo si comporta, ma perché. Perché c'è qualcosa piuttosto che il nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualcos'altro? Questa è l'Ultima Domanda della Vita, l'Universo e Ogni Cosa. Cercheremo di darle una risposta in questo libro. Diversamente dalla risposta data nella Guida dell'Autostoppista della Galassia, la nostra non sarà semplicemente '42'». Proclamare la morte della filosofia è una provocazione che andrebbe sostenuta da solide argomentazioni; quanto al fatto che la scienza si debba interessare dei perché è legittimo, ma i perché hanno sempre una certa ambiguità e i tre interrogativi ai quali gli autori vogliono rispondere sono, a mio parere, mal posti e profondamente diversi l'uno dall'altro.
Nel secondo capitolo, intitolato The rule of the law (Il regno della legge), si traccia una rapida “storia” della scienza. Storia tra virgolette, perché appare più un riassunto di mal digerite letture di manuali di seconda mano. Viene innanzitutto, e giustamente, sottolineata l'importanza dei filosofi Ionici, che si sono contraddistinti perché per primi hanno cercato spiegazioni razionali dei fenomeni naturali e dell'universo stesso. Curiosamente però con il termine «Ionico» gli autori includono praticamente tutto ciò che i Greci hanno prodotto di scientifico dal vi secolo a.C. all'ellenismo. Di Pitagora menzionano la scoperta della relazione fra la lunghezza delle corde e le armoniche dei suoni e la scoperta dell'omonimo teorema, osservando, senza altra spiegazione, che Pitagora «probabilmente non scoprì davvero» né l'una né l'altro. Il lettore magari si chiede il perché e sarebbe stato interessante che gli autori ce lo spiegassero. Ad esempio, avrebbero potuto dirci che Egizi e Babilonesi, pur conoscendo già la relazione fra le misure dei lati di un triangolo rettangolo, non avevano la nozione di rigorosa dimostrazione matematica, mentre i teoremi sono un'eredità greca. A Pitagora andrebbe dunque più correttamente attribuita la “dimostrazione” del teorema che porta il suo nome.
Leggiamo poi che i Greci conobbero soltanto tre leggi fisiche, tutte scoperte da Archimede, il quale però “non le chiamava leggi”e non le spiegava riferendosi ad osservazioni o misure, invece le trattava come teoremi matematici. Perché, già che ci siamo, non aggiungere che siccome i suoi lavori non venivano pubblicati sulla Physical Review non erano lavori di fisica? Tralasciamo l'affermazione un po' ridicola che i Greci conoscessero solo tre leggi (evidentemente gli autori escludono l'ottica o le scienze applicate, con la famosa legge di scala per la costruzione delle catapulte). Quanto ad Archimede, ovviamente scoprì le sue leggi basandosi su osservazioni ed esperimenti; leggi che erano poi fondamentali per la progettazione e costruzione di congegni meccanici, in particolare di macchine per sollevare pesi e di navi. Archimede nei suoi trattati volle però presentare in forma “rigorosa” i suoi risultati, dimostrandoli partendo da assiomi; fu così che scrisse i primi capitoli della fisica che conosciamo, la statica e l'idrostatica. La comprensione delle sue opere ebbe un ruolo determinante nella nascita della scienza moderna: senza Archimede non avremmo avuto né Galileo né Newton. Peccato che di tutto ciò non si trovi traccia nella “storia” di Hawking e Mlodinow.
Procedendo nella lettura, scopriamo poi che i Greci avevano un serio problema di metodo: «Così se uno studioso dichiarava che un atomo si muoveva in linea retta finché non collideva con un altro atomo, e un altro studioso dichiarava che un atomo si muoveva in linea retta finché non si scontrava con un ciclope, non vi era alcun modo obiettivo di stabilire chi avesse ragione». Sarà una battuta, ma non fa molto ridere. È vero che vi furono in Grecia scuole filosofiche in contrapposizione; ma queste discutevano a livelli di profondità e finezza problemi riguardanti lo spazio, il tempo, il moto, che evidentemente i due autori non conoscono.
Arriviamo poi allo sconcertante riferimento ad Epicuro: «Il filosofo Epicuro (341 a.C. - 270 a.C.), per esempio, si oppose all'atomismo con la motivazione che è ‘meglio seguire i miti sugli dèi che divenire schiavi del destino dei filosofi naturali’». Questa affermazione degli autori appare straordinaria ed inspiegabile essendo “diametralmente opposta” alla realtà storica. Epicuro, infatti, riprese l'atomismo da Leucippo e Democrito e ne fece “il fondamento” della sua filosofia, come possiamo anche leggere nel grande poema di Lucrezio De Rerum Natura! Inoltre, la frase riportata dagli autori è incompleta. È tratta dalla Lettera a Meneceo, riportata nel decimo libro dell'opera di Diogene Laerzio Vite dei filosofi, e che vale la pena citare insieme al contesto:
Chi ritieni possa essere migliore di colui che ha opinioni corrette sugli dèi, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilità, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi? Un uomo così ha imparato a sorridere di quel potere – il fato – che per alcuni è il sovrano assoluto di tutto: di fatto ciò che accade può essere spiegato non soltanto attraverso la necessità, ma anche attraverso il caso o in quanto frutto di nostre decisioni per le quali possiamo essere criticati o lodati. Quanto al fato, di cui parlano i filosofi della natura, era meglio credere ai miti sugli dèi che essere schiavi di esso: il mito infatti dà agli uomini la speranza di placare gli dèi venerandoli, il fato invece ha un'implacabile necessità.
È evidente che Epicuro non sta dicendo che “alla sua epoca si debba” credere ai miti sugli dèi, ma, con una provocazione, si oppone ad una concezione fatalista della vita umana.
A parte i limiti della scienza antica già citati, Hawking e Mlodinow ritengono inoltre che il progresso scientifico nell'antichità si sia arrestato anche perché i Greci avevano difficoltà a calcolare … Per la verità i Greci erano perfettamente in grado di fare i conti (si legga l'introduzione di Thomas Heath alle Opere di Archimede o anche il libretto di Buscherini Nel segno di Urania, recensito sul «Giornale di Astronomia», dic. 2010, vol. 36, n. 4, p. 47). Inoltre, per i numeri molto grandi Archimede aveva mostrato nell'Arenario come si poteva procedere. Il problema è naturalmente ben più complesso e dibattuto dagli storici; tra le varie ragioni, si possono citare la fine dei regni ellenistici, conquistati da Roma, e lo scarso interesse dei Romani per la teoria e per ciò che non avesse un'utilità pratica.
Se Archimede è stato trattato nel modo descritto, ci si può immaginare che cosa Hawking e Mlodinow possano dire di Aristotele: in effetti, questi è praticamente dipinto come un falsificatore, dato che avrebbe distorto i fatti quando non coincidevano con le sue teorie. La fisica di Aristotele era ovviamente sbagliata (tant'è vero che se ne accorsero anche i fisici ellenistici che l'abbandonarono), ma era intuitiva ed in grado di spiegare qualitativamente molti fenomeni: a questo si deve il suo successo in epoca imperiale e nel Medioevo. Aristotele non aveva proprio nulla da falsificare e dobbiamo supporre che fosse in perfetta buona fede.
Notiamo senza commenti che, en passant, nello stesso capitolo Hawking e Mllodinow esaminano il noto problema del libero arbitrio. Non ci si soffermano molto, a dire il vero, perché l'hanno già risolto: il libero arbitrio non esiste.
La tesi centrale del terzo capitolo
Purtroppo anche nel terzo capitolo, What is reality?, non mancano le affermazioni perentorie e discutibili, quando non sono completamente errate. L'esordio riguarda l'Italia: il Consiglio comunale di Monza, alcuni anni fa, vietò l'uso di bocce per i pesci rossi e gli autori spiegano che il provvedimento fu in parte giustificato, perché la boccia distorce la visuale. In realtà lo scopo della legge, che riguarda altre specie animali e non solo i pesci rossi e che è stata applicata anche da altri comuni italiani, è quello di assicurare agli animali domestici condizioni ambientali adatte: in particolare, anche i pesci rossi hanno bisogno di acqua sufficientemente ossigenata e spazio sufficiente quali solo un acquario consente. Ma gli autori hanno evidentemente voluto trovare uno spunto spiritoso per una riflessione sulla nostra posizione di osservatori nell'universo. In questo discorso, come se non fosse sufficiente quanto di sbagliato hanno scritto in precedenza, sottolineano come Aristotele credesse che la Terra fosse al centro dell'universo “per ragioni mistiche».Che due fisici non conoscano nulla di Aristotele non è così grave, anche se è disdicevole che ne vogliano parlare in pubblico come se lo conoscessero; però ci si aspetterebbe almeno una certa precisione riguardo alla storia della cosmologia moderna. Leggiamo invece che Hubble, misurando gli spettri delle galassie, si aspettava di trovare tante galassie in avvicinamento quante in allontanamento: invece il fenomeno del redshift sistematico delle galassie era ben noto da diversi anni ed era stato scoperto da Vesto Slipher; ancora peggio, a proposito dell'espansione dell'universo, “scoperta” da Hubble (la realtà storica è un po' più complicata, ma pazienza), apprendiamo che a lungo molti non vollero accettarla e rimasero attaccati all'idea dello stato stazionario: ma la teoria dello steady-state non negava l'espansione, ipotizzava anzi la creazione continua di materia per mantenere costante la densità dell'universo che tende appunto a diminuire con l'espansione. Ovviamente, Hawking non può ignorare una cosa del genere; Mlodinow forse sì, ed è a questo punto legittimo cominciare a chiedersi chi abbia scritto e/o come sia stato scritto questo libro.
Ma esaminiamo ora l'argomento centrale del terzo capitolo. Pur avendo dichiarato che la filosofia è morta, i due autori sono in effetti costretti implicitamente a resuscitarla, quando devono definire che cosa sia la realtà. La loro soluzione è quello che chiamano model-dependent realism, ovvero il realismo dipendente dal modello. L'idea che lo scienziato non si debba chiedere che cos'è la realtà in sé e che si debba unicamente verificare che il modello matematico riproduca le osservazioni non è nuova, ma gli autori ne sembrano dare una versione estrema. Confesso, infatti, di rimanere confuso quando affermano che la tesi creazionista e la teoria del Big Bang sono entrambe reali, solo che la seconda è più utile della prima. E pensare che avevano deriso i Greci perché, a detta loro, non avrebbero potuto stabilire se fosse o no un Ciclope a fermare gli atomi … Eppure, a meno che non si ridefinisca ciò che intendiamo comunemente con il termine realtà, è evidente che la tesi creazionista e quella del Big Bang “non possono essere” entrambe reali, in quanto sono “contraddittorie”: o i fossili “hanno” milioni di anni o “sembra” che li abbiano. Ho l'impressione che si confonda il confronto fra una teoria scientifica e una tesi non scientifica e non falsificabile, con la descrizione complementare della realtà data da descrizioni scientifiche diverse. Nel secondo caso, gli autori affermano che non esiste necessariamente il modello migliore, ma che possiamo, e probabilmente dobbiamo, descrivere la realtà con modelli diversi. Questo mira a giustificare la convinzione di Hawking e Mlodinow che occorra rinunciare al sogno di un'unica teoria che riesca a descrivere tutti gli aspetti della realtà. Si tratta di un'opinione rispettabile, ma discutibile: in tutti i casi non possiamo concludere che la realtà dipende dai modelli, ma soltanto che finora non siamo riusciti (e potremmo effettivamente non riuscire) a elaborare un unico modello matematico che permetta di descrivere in maniera coerente tutti i fenomeni. Ci sarebbe molto da discutere e approfondire al riguardo, cosa che gli autori non fanno e che non faremo neppure noi, visto che questa è una semplice recensione. A commento di questa parte, mi si lasci soltanto notare che chi solennemente afferma che «la filosofia è morta» non dovrebbe mettersi a filosofeggiare: il risultato non può che essere men che mediocre.
Dal quarto all’ottavo capitolo: Il Grand Design e le risposte degli autori alle domande “teologiche”
La parte, diciamo così, seria del libro, dove gli autori parlano di argomenti di loro competenza, comincia finalmente a pagina 63 [citiamo qui dall’edizione inglese], con il capitolo intitolato Alternative histories (Storie alternative) e dedicato alla meccanica quantistica. Nel quinto capitolo, The theory of everything (La teoria del tutto), che va da pagina 87 a pagina 119, sono introdotti l'elettromagnetismo e le equazioni di Maxwell, l'esperimento di Michelson e Morley, la relatività ristretta (a proposito, perché mai viene dato il titolo dell'articolo di Einstein del 1905 anche in tedesco?), la relatività generale, le quattro interazioni fondamentali, l'elettrodinamica quantistica, i diagrammi di Feynman, le particelle virtuali e il vuoto quantistico, la supersimmetria, la teoria delle corde e la teoria M (mi scuso se mi sono dimenticato qualcosa). Il tutto in 33 pagine con un testo ben spaziato e con undici illustrazioni: potrebbe essere un record. Ci si può chiedere se abbia davvero un senso risparmiare al lettore medio qualsiasi formula (l'unica espressione matematica si trova proprio alla fine di questo capitolo: è 10500), per poi propinargli una tale sintesi rapida di fisica teorica; dobbiamo d'altronde ammettere che è una sintesi “standard” e i lettori che abbiano già letto altri libri su questi argomenti dovrebbero essere in grado di seguire il discorso.
Nel capitolo 6, Choosing our universe (Scegliendo il nostro universo), dopo aver citato con tono derisorio i miti di diverse civiltà, Genesi inclusa, gli autori annunciano di poter ora dare al lettore una possibile risposta alle domande iniziali del libro, ovvero perché c'è un universo e perché è fatto come è fatto. Al centro della risposta c'è l'idea, già descritta da Hawking negli altri suoi libri, che la storia del nostro universo sia la somma di Feynman delle storie di tutti gli universi possibili. Si pone a questo punto il problema del perché nell'universo la vita è possibile, visto che nella maggior parte degli altri universi non è così. La risposta è data dal settimo capitolo, The apparent miracle (Il miracolo apparente), dove si fa ricorso, naturalmente, al principio antropico e alla teoria M. Perché però c'è la teoria M, e non qualcosa d'altro? L'ultimo capitolo, The Grand Design, fornisce la risposta definitiva a tutti gli interrogativi.
Innanzitutto, gli autori pongono la vecchia domanda: «se Dio ha creato l'universo, chi ha creato Dio?» E se dobbiamo ammettere la preesistenza di un Ente senza bisogno di creazione, non è più semplice assumere che questo Ente sia l'universo, del quale siamo sicuri che esiste? Qui solitamente si separano le strade: da una parte gli atei che si affidano unicamente alla ragione, dall'altra i credenti delle varie religioni che si affidano alla fede, e gli agnostici in mezzo.
Gli autori, invece, sviluppano le loro argomentazioni con lo scopo di mostrare che Dio non è necessario. Per comprendere come le strutture si possano organizzare a partire da leggi semplici, ricorrono all'esempio del celebre gioco Life di Conway. Per spiegare come ci sia qualcosa piuttosto che nulla, osservano che l'universo è nato spontaneamente dal vuoto. In realtà, non costa energia creare qualcosa dal nulla: l'energia gravitazionale è infatti negativa e compensa l'energia positiva richiesta per creare la materia. Tutto qui.
Che Dio non solo non sia necessario, ma non debba mai entrare nel discorso scientifico, è la regola di base su cui tutti, atei e credenti (tranne gli integralisti religiosi) sono d'accordo. Ma non è affatto detto che la scienza possa dare una risposta a qualunque domanda, indipendentemente dalla questione sull'esistenza di Dio. E a mio parere gli autori, pur proclamandosi atei, fanno invece parte di coloro che si affidano alla fede. Semplicemente, la loro divinità è la “teoria-M”. Di fatto, la teoria-M è, almeno per il momento, indimostrata quanto Dio e ha l'equivalente del dogma della Trinità, in una forma anzi moltiplicata per due: infatti, si manifesta a noi sotto forma di 6 teorie applicabili in regimi diversi, seppure collegate fra loro.
Per quanto riguarda la nascita dell'universo dal nulla, se gli autori non avessero buttato via la filosofia si sarebbero ricordati di Parmenide e del problema fondamentale che questo filosofo ha posto duemilacinquecento anni fa alla cosmologia: il nulla non esiste e dal “non essere” non può derivare “l'essere”. Gli autori in realtà confondono il vuoto (un concetto fisico) col nulla (un concetto filosofico), che sono profondamente diversi: si può spiegare come l'universo possa essere generato dal vuoto, ma il vuoto di cui si parla è dotato di proprietà fisiche. La domanda diventa a questo punto: «perché esiste il vuoto al posto del nulla?»
Concludendo
Pur trattando, seppure in maniera superficiale, di tanti argomenti, noto che il libro non dispone di alcuna bibliografia. Eppure, data la complessità degli argomenti trattati e la brevità del testo, sarebbe stato molto utile offrire al lettore la possibilità di approfondire i temi trattati, magari da diversi punti di vista. Fra l'altro, quasi nessun fisico contemporaneo vivente viene citato, forse per non appesantire la lettura. Eppure diversi di questi fisici hanno dato contributi basilari alla cosmologia e alla fisica fondamentale e molti hanno idee diverse da quelle di Hawking.
Scorrendo infine i ringraziamenti, si vede come il manoscritto, apparentemente, non sia stato fatto leggere in anteprima a nessun collega; certo, avranno ritenuto che si trattasse di “bassa” divulgazione (e a me sembra effettivamente che un libro del genere manifesti disprezzo verso il lettore), ma, se uno storico o filosofo della scienza e un astronomo avessero letto il testo prima della sua pubblicazione, ci sarebbe stata risparmiata almeno una parte della lunga lista di errori imbarazzanti. Probabilmente non sono tutti da attribuire a Hawking che però, firmando il libro, divide la responsabilità di quello che c'è scritto. È certo, comunque, che The Grand Design sarà un best seller (appena uscito era ai primi posti nelle classifiche di vendita di Amazon un suo breve estratto è stato pubblicato sulle pagine di «Scientific American»): io invito caldamente il lettore a rivolgersi a letture più istruttive.
Fonte: «Giornale di Astronomia» 37 (2011), n. 1, pp. 59-62. Si ringraziano l’Autore e l’Editore per il permesso di riproduzione.