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La saggezza tra etica ed evoluzione

Theodosius Dobzhansky
1962

Mankind Evolving: The Evolution of the Human Species

In questo breve passo – quasi alla fine del libro L’evoluzione della specie umana – Dobzhansky – uno dei più grandi biologi e genetisti del ‘900, protagonista nella formulazione della cosiddetta “sintesi neo-darwiniana” – affronta il problema dei rapporti tra evoluzione biologica ed etica. Il titolo originale del paragrafo qui riportato è “Evoluzione, valori e saggezza". Il tema è profondo e assai dibattuto anche tutt’oggi. Colpisce però, l’apertura, la freschezza e il rigore con cui Dobzhansky lo affronta: rigore nel trattare concetti biologici come selezione naturale e adattamento (o valore adattativo di tratti), freschezza nel recepire sviluppi in corso proprio in quegli anni (in cui il gene-centrismo del decennio precedente iniziava ad allentarsi), apertura nel non esitare, da biologo, a parlare di saggezza, e persino di “Saggi”.

È certamente possibile che la selezione naturale abbia favorito lo stabilirsi nell'evoluzione umana di certi modelli di comportamento che noi chiamiamo «etici» o «non etici». La tendenza dei genitori, in special modo della madre, a proteggere e curare la prole, fino all'abnegazione e al sacrificio di sé, ci sembra ammirevole sempre, tra gli uomini, tra gli uccel­ li o qualsivogliano altri animali. Spesso dimentichiamo che negli animali un tal comportamento è, in verità, «obbligato» perché l'animale non può scegliere di comportarsi altrimenti; l'uomo, invece, può farlo e qualche volta lo fa; ad ogni modo, la tendenza è un tratto innato e fondamentalmente genetico.

Haldane mostrò, molto tempo fa (The causes of evolution, 1932), che i geni di «comportamento altruistico» possono essersi diffusi quando l'umanità era divisa in tanti piccoli gruppi endogami; mentre non è probabile che ciò avvenga in una grande specie indivisa. Infatti un tal «gene» può abbassare l'adattamento darwiniano dei suoi portatori se questi ultimi, sacrificandosi per il bene dei loro simili, mettono a repentaglio le loro probabilità di lasciar prole. Una piccola tribù, in cui siano presenti geni d’altruismo, può trarre vantaggio dal sacrificio di qualcuno dei suoi membri, che permetterà alla tribù stessa di moltiplicarsi ed estendersi; mentre, nelle grandi società, è probabile che Ia selezione naturale operi in direzione opposta ed elimini i geni dell'altruismo. D'altra parte è probabile che un gene di comportamento egoistico o criminale, che avvantaggia i suoi portatori e Ia loro prole, sia eliminato quando appare in una piccola tribù e al contrario si diffonda in una società grande.

È improbabile che molti valori umani possano aver preso piede nelle società umane, per mezzo di processi selettivi simili a quelli su esposti nei riguardi dei geni «altruistici» e «criminali»; sebbene sia vero che certi giudizi e valutazioni possono facilitare, e altri ostacolare il successo, compreso quello biologico, della società in cui si manifestano e si stabiliscono. Parecchi autori videro qua analogie con le mutazioni e le combinazioni di geni, perpetuate o eliminate dalla selezione naturale. Le analogie sono interessanti: però, Ia supposizione che un gene mutante possa, non solo far di una persona un inventore o un pensatore, ma anche determinare che cosa inventerà o penserà, sembra poco compatibile con Ia tendenza attuale della genetica umana, dell'antropologia e della psicologia; perché l'adattamento principale nell'evoluzione umana è consistito nella capacità di imparare idee molto varie e di fare le più varie invenzioni, non di imparare solo certe idee e fare solo certe invenzioni. A me sembra, in complesso, più probabile che la selezione naturale abbia determinato nell'uomo una spinta verso quella che Maslow (Motivation and personality, 1954) chiama «attualizzazione di sé» e abbia evitato di fissare i mezzi con cui l'attualizzazione di sé può essere raggiunta.

Waddington (The ethical animal, 1960) si mantiene abilmente lontano dai trabocchetti di cui eran disseminate le teorie precedenti di etica evolutiva; riconosce che Ia selezione naturale non ha dato all'uomo una certa etica e certi valori, ma la capacità di acquistarli: i valori sono prodotti della cultura, non del genotipo umano. Ma per diventare un «essere eticizzante», l'uomo deve essere un «recettore di autorità» e di informazioni socialmente trasmesse. Waddington fa buon uso delle conquiste degli psicoanalisti che descrivono i processi attraverso cui un neonato sviluppa un «sistema portatore di autorità»; trova, però, che tali processi hanno aspetti adattativi ed anche non-adattativi: i primi riguardano lo sviluppo del «superego» e per essi l'infante ben socializzato diventa crescendo un membro effettivo della sua società, i secondi conducono allo strano risultato di «produrre autorità etiche, che hanno quelle caratteristiche di ultraterreno e di assoluto che troviamo nei nostri sentimenti etici, come pure senso di colpa e di ansietà che sono un'altra delle loro caratteristiche inattese ma invadenti».

Tutto ciò tende a spiegare come noi sviluppiamo la nostra convinzione che certe cose siano buone e altre cattive; non spiega perché dobbiamo considerarle rispettivamente buone e cattive. Waddington, però, ritiene che: «Una discussione razionale sui vari sistemi etici ed il confronto dei loro vari meriti e demeriti, si può fare solo entro il quadro dell'evoluzione umana ed animale». II processo dell'evoluzione ha prodotto una specie umana capace di convinzioni etiche; la funzione biologica dell'etica e di promuovere l'evoluzione umana; di conseguenza, si può giudicare una teoria etica a seconda del modo in cui assolve tale funzione: Waddington lo chiama il criterio della «saggezza» biologica. Egli confronta la «saggezza » biologica dell'etica con la «saggezza » alimentare; la funzione dell'alimentazione è di assicurare una sana crescita; se qualcuno dichiarasse che preferisce crescere in modo malsano ed anormale, gli si potrebbe dire soltanto che «va contra natura». Nello stesso modo non si può mettere in dubbio Ia «saggezza» dell'evoluzione: I’evoluzione è «saggia» per definizione.

Questa soluzione è troppo facile: sappiamo noi sempre che cosa è e che cosa non è in accordo con la natura? È in accordo con la natura l'utopia di Muller su descritta? Vi è chi pensa che andrebbe tutto bene, per l'uomo, se la selezione naturale agisse liberamente; ma abbiamo visto che questa è tutt'al più una mezza verità, poiché la sorta di selezione «naturale» che agiva all'età della pietra sarebbe innaturale per l'uomo moderno.

«La saggezza del corpo» e «la saggezza dell'evoluzione» sono buone metafore, ma non sono sinonimi della saggezza che è la sorgente e la conferma dell'etica. Questo è stato detto molto bene da Simpson (The major features of evolution, 1953): «I mezzi per raggiungere giusti fini implicano insieme evoluzione organica ed umana; ma, nei riguardi di quelli che sono giusti fini, la scelta umana deve basarsi sull'evoluzione umana... La vecchia evoluzione era ed è essenzialmente amorale; la nuova comporta conoscenza, compresa la conoscenza del bene e del male».

Non credo (e nemmeno Simpson ci crede) che la comprensione dell'evoluzione, della biologia o della scienza sia senza importanza, nei riguardi della saggezza. La saggezza stessa si evolve e comprende le percezioni che derivano da un insieme di conoscenze, che includono la biologia. Come disse Bronowski (Science and human values, 1956): «La scienza non è niente altro che ricerca per scoprire un'unità nella selvaggia varietà della natura – o, più esattamente, nella varietà delle nostre esperienze». Ma la saggezza comprende altre percezioni. Sant'Agostino disse: «urgunt indocti et rapiunt coelum», gli ignoranti vengono e afferrano il cielo: questa non è apologia dell'ignoranza e nemmeno dell'uomo irrazionale; lo stesso Waddington chiede qualche cosa di più della saggezza biologica, quando scrive:

  

Non direi che l'ideale scientifico sia da solo un fondamento pienamente adeguato per la vita dell'individuo o per una più elevata civiltà sociale... A mio credere, gli occorre il complemento dell'ideale creativo dell'artista: ideale che si esprime in processi di pensiero che si muovono in una dimensione diversa da quelle della logica e dell'esperimento.

  

Non sappiamo se quello che conferisce ad alcune persone un tipo di saggezza, che stranamente sembra non aver alcun rapporto con Ia loro padronanza di un insieme di conoscenze, sia un sottoprodotto della facoltà estetica […] o della facoltà più fondamentale della coscienza di sé […]. In Guerra e pace, l'eroe aristocratico e colto di Tolstoj apprende la saggezza da un soldato-contadino ignorante; e la massima saggezza fu una volta affidata ad un gruppo di pescatori illetterati della GaIilea.

I valori umani e l'umana saggezza sono prodotti dell'evoluzione culturale, condizionati, sì, dall'evoluzione biologica, ma non da essa deducibili. Di fatto, l'uomo non rinuncia all'aspirazione arrogante di investigare se l'evoluzione biologica e quella cosmica – che, in mezzo a infinite altre cose, produssero lui stesso – si conformano o no alla sua saggezza ed ai suoi valori. Un antico sapiente cinese (citato da Herbert Muller, The uses of the past, 1957) proponeva questo criterio di saggezza e di valori, che è il migliore che io conosca:

   

Ogni sistema di leggi morali deve basarsi sulla coscienza stessa dell'uomo, esser verificato dall'esperienza comune dell'umanità, convalidato dalla sanzione dell'esperienza storica e trovato scevro d'errore, applicato alle operazioni e ai processi della natura nell'universo fisico, e trovato scevro di contraddizioni, deposto davanti agli dei senza incertezza o timore: e deve poter attendere cento generazioni ed essere confermato senza dubbi da un Saggio della posterità.

      

T. Dobzhansky, L’evoluzione della specie umana (trad. it. di L. Pecchioli), Giulio Einaudi Editore, Torino 1965 pp. 348-351.