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Cosa apportano le scienze cognitive alle conoscenze della religione?

Dicembre 2003
Lluís Oviedo
Docente di Antropologia teologica, Pontificio Ateneo Antonianum

Da alcuni anni, le case editrici in lingua inglese ci sorprendono con nuovi libri che annunziano lo svelarsi di un mistero, una specie di rivelazione scientifica, o forse nuove scoperte, come quelle che hanno contribuito a cambiare il mondo nei tempi moderni. I titoli sono assai significativi: Why God won’t go away (Perché Dio non scompare); Why Gods persist (Perché persistono gli dei); How religion works (Come funziona la religione); Secular utility of religion (L’utilità secolare della religione); Religion explained (La religione viene spiegata). In ogni caso, si tratta di tentativi di spiegare la religione entro una cornice scientifica, che consenta di capire un fenomeno assai enigmatico: come mai la religione resiste in molte società avanzate, malgrado il trionfo di una mentalità razionale e scientifica, e di uno sviluppo economico e politico che sembrano rifiutare le convinzioni religiose?

Oggi, le risposte vengono soprattutto da due campi scientifici “forti”, come la biologia e le discipline cognitive, e i loro argomenti completano sicuramente quelli che una volta venivano elaborati dalle filosofie e dalle scienze umane e sociali che, dal secolo XIX, sono alle prese con “la questione religiosa”. Quale sarebbe l’apporto significativo delle nuove scienze? Fondamentalmente, esso si pone in chiave evolutiva e dunque funzionale: la religione “tiene” così bene perché essa costituisce un elemento positivo nelle dinamiche evolutive del genere umano. La religione aiuterebbe a gestire meglio situazioni di crisi e di stress, offre una maggiore coesione ai gruppi, nonché orientamenti utili per la sopravvivenza e la continuità della specie. Una simile visione riflette l’approccio darwiniano: se una realtà si prolunga nel tempo, ciò significa che essa è positiva per chi l’adopera e diventa un valido aiuto nella lotta per esistere e crescere. Se c’è ancora religione, dobbiamo dedurre che essa continua a essere utile, almeno per una parte della popolazione, altrimenti si sarebbe estinta.

Un secondo modo di proporre spiegazioni scientifiche sulla religione si rifà a concetti sviluppatisi nel campo cognitivista. Qui, gli sforzi sono tesi a scoprire come funziona la nostra mente, quali sono i meccanismi e le dinamiche che ci consentono di conoscere, ricordare, comunicare, prendere decisioni… Anche se diversi autori ammoniscono sui limiti delle nostre conoscenze in un campo così difficile e ancora pieno di misteri, alcuni autori hanno azzardato spiegazioni sulle “strutture cognitive” della religione, e cioè su come essa “funziona”, o perché il nostro cervello è in grado di produrre “esperienza religiosa”. Sembrerebbe che si possa parlare addirittura di un “modulo mentale” specializzato in tale compito.

A grandi tratti, la prospettiva cognitivista cerca di capire come la mente elabora un determinato tipo d’informazione, nel nostro caso quella che riguarda l’ambito religioso, o che fa ricorso a istanze oltre la realtà immediata. Gli studiosi in questo campo concordano, in genere, nel considerare l’esperienza religiosa come una sorta di meccanismo per formalizzare “l’agente” che interviene in quegli eventi per i quali manca una spiegazione soddisfacente. La mente funzionerebbe attraverso il fondarsi di concatenazioni causali: una cosa accade perché qualcuno la provoca. Allora, dato che alcuni fenomeni sono difficilmente associabili a cause chiare, il soggetto fa ricorso a cause soprannaturali o trascendenti, soddisfacendo così un bisogno della nostra mente, che altrimenti resterebbe nel buio e nell’ansia.

Altri studi si sono diffusamente occupati di analizzare dei processi neurofisiologici, sulla base di esperienze religiose profonde, come l’estasi mistica. Si applicano metodi per “illuminare” le parti del cervello che vengono attivate durante tale esperienza, per cercare di comprenderne la logica. Le conclusioni puntano a un meccanismo cerebrale di “auto-trascendenza”, in grado di ridisegnare il senso della realtà, che conduce a uno “stato unitario totale”. Parliamo dell’esperienza mistica e della sua “realtà” così come questa è registrabile a livello neurologico, dove si può ipotizzare un certo “statuto di verità”.

Ritengo opportuno fare un bilancio di tutti questi sforzi per “capire”, ancora una volta, la religione. Intanto, siamo sicuramente di fronte a un altro capitolo della vecchia storia, iniziata con l’Illuminismo, che pretende di appropriarsi razionalmente del significato della fede cristiana. Per alcuni critici, il fatto che la fede cristiana venga designata col termine “religione” fa parte di un programma di appropriazione non solo intellettuale, ma anche politica, di quell’eredità, tipico delle strategie moderne. Inoltre, le nuove versioni di questa tradizione moderna sono spesse volte gravate da un “riduzionismo” che impoverisce la complessità di ciò che si vuole conoscere. La cosiddetta “religione” viene ridotta infatti a un contributo funzionale per la sopravvivenza della specie umana, soprattutto a livello collettivo, oppure a strategie per fronteggiare le situazioni di forte disagio, con maggiori chances di superamento della crisi. La prospettiva cognitiva offre spiegazioni su come tale funzione viene assolta entro le chiavi che presiedono ai meccanismi mentali; la religione non sarebbe altro che un modo di “elaborare informazione”, più o meno in linea con le altre modalità della nostra attività cerebrale, solo che essa fa ricorso a una “agenzia” particolare, desunta dalla realtà fisica.

La lettura dei contributi segnalati desta un’impressione di dejà vu, di cose già sapute o dette prima in altre sedi. Tutto sommato, le loro conclusioni appaiono scontate o persino tautologiche. Ci chiediamo, comunque, se sia possibile sfruttare i nuovi metodi apportati dalle scienze biologiche e cognitive per interpretare i “fenomeni religiosi”. Probabilmente sì, sempre che la ricerca non si limiti a tali semplificazioni, e sia in grado cogliere la complessità, anche cognitiva, della comprensione religiosa cristiana, che certamente può essere descritta in termini di una “elaborazione di informazione”, ma operando a un livello più rigoroso, che rispecchi la sua identità. In questo senso, anche alcuni settori della teologia potrebbero avvalersi degli apporti delle nuove scienze, per capire meglio le strutture di pensiero che sottostanno ad alcuni dei nuclei dell’esperienza religiosa cristiana.

Un’ultima questione riguarda il contributo che simili studi possano fornire al dialogo tra scienza e religione. Credo che, per ora, le visioni scientifiche sul fatto religioso sono suscettibili di una ricezione teologica in grado di sfruttare soprattutto alcuni dei nuovi metodi proposti. A livello di contenuto, invece, si resta con l’impressione che tali discorsi celino una squalifica di ogni tentativo di fare della religione un serio interlocutore della scienza. Quest’ultima, piuttosto, predomina sulla sfera religiosa e se ne appropria entro una cornice particolare. Le voci che procedono dall’ambiente religioso verranno dunque sempre ridotte a qualcosa di secondario, e le proteste del teologo, considerate come mera retorica, incapaci di cogliere la realtà delle cose; insomma, una tipica strategia “d’immunizzazione”.

Da parte dei scienziati che collaudano i loro metodi in questo campo, è certamente necessaria un’apertura al dialogo interdisciplinare con la teologia, specie se vogliono superare il rischio di nuove forme di riduzionismo antropologico. Senza tale sforzo, l’acritica assunzione di tali visioni non farebbe che danneggiare i tentativi di avvicinamento e di interazione fruttuosa tra scienze e religione.