Quando lo scorso 3 gennaio 2004 il robot Spirit è felicemente atterrato sulla superficie di Marte cominciando ad inviarci il frutto delle sue ricognizioni, erano trascorsi ben 126 anni dal momento in cui, il 5 maggio 1878, l'astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910) comunicava alla Reale Accademia dei Lincei i risultati delle sue osservazioni ottiche del pianeta rosso. Lo strumento impiegato allora da Schiaparelli non regge certamente alcun paragone con la sofisticata strumentazione tecnologica oggi a bordo delle due sonde della NASA, Spirit e il suo gemello Opportunity. Il telescopio a disposizione del direttore dell'Osservatorio di Brera era infatti un modesto rifrattore Merz da 22 cm di diametro, da poco collocato nella sua sede, fra i tetti di Milano (quando le stelle si vedevano anche dalle nostre città...). Eppure, fra i due eventi, vi è qualcosa di paragonabile, che ne suggerisce un significativo accostamento. Le osservazioni di Schiaparelli, come quelle realizzate dagli strumenti a bordo dello Spirit, sono state più che sufficienti ad innescare un vivace, a tratti acceso, dibattito sulla possibilità che il pianeta rosso ospiti forme di vita. Nella relazione che l'astronomo tenne ai Lincei, intitolata Osservazioni astronomiche e fisiche sull'asse di rotazione e sulla topografia del pianeta Marte – Memoria prima , veniva messa in luce, sulla superficie marziana, l'esistenza di strutture allungate, che sembravano ramificarsi dalle calotte polari, bianche, fino alle estese zone rosso-verdastre dell'equatore. Di qui il nome di “canali” (nome che anche un altro astronomo italiano, il sacerdote gesuita Angelo Secchi, aveva suggerito già nel 1859, senza dar loro però particolare importanza). Invece delle mappe tracciate a mano da Schiaparelli, sui nostri giornali abbiamo visto quasi quotidianamente fotografie di crateri, di valli, e della ricca orografia marziana, giungendo tutti ad distinguere (anche i non specialisti) tracce assai simili a quelle che, in un normale invaso terrestre, pare lasciare l'acqua dei nostri mari sulle rocce, quando evapora e si ritira. Il dibattito sulla reale possibilità che Marte abbia ospitato, anzi ospiti tuttora la vita, è così tornato ad investire ampi strati dell'opinione pubblica (a dir la verità, con un entusiasmo che pare superare le stesse regole del ragionamento, dato che l'esistenza di acqua è solo una condizione necessaria ma non sufficiente perché si abbia la vita) .
Ne è stata nuovamente investita la teologia, e ciò giustifica perché parlarne nella rubrica di un portale di Documentazione Interdisciplinare (chi è interessato agli aspetti esclusivamente tecnologici della questione potrà visitare i siti ufficiali dedicati dalla NASA alla missione americana: http://marsrovers.jpl.nasa.gov). Per varie settimane i giornalisti sono andati a caccia di introvabili teologi e, una volta intercettati, non hanno avuto remore ad indirizzare loro la fatidica domanda: “come la mettiamo, adesso, con la narrazione biblica della creazione della vita sulla terra, con la storia del genere umano, del peccato, con la portata della redenzione e con tante cose ancora?”. Qualcuno ha provato a stanare anche il sottoscritto, raccogliendone alcune risposte, frammentarie ma non improvvisate, che sono state tuttavia rilanciate in siti web di natura assai diversa, dai quotidiani fino ai siti degli ufologi. Ed è proprio quest'ultima occorrenza che merita una breve, sobria precisazione. Il dibattito sulle condizioni che rendono possibile la vita nel cosmo, così come i programmi scientifici che si propongono di dedicare alcuni tempi di osservazione dei nostri radiotelescopi all'ascolto di segnali che potrebbero essere stati ragionevolmente emessi da forme di vita intelligente presenti su corpi celesti estremamente lontani, sono temi che rientrano a buon titolo nella letteratura e nella ricerca scientifiche, sebbene si possa approvare o meno la spesa di impiegare risorse economiche per questo genere di ricerche. Affermare di avere prove della presenza di visitatori cosmici sulla Terra o in prossimità di essa, di aver avuto contatti di “qualche” tipo con esseri giunti fino a noi (su dischi o sigari volanti, a seconda dei casi), sostenendo magari che le autorità politiche o l'establishment scientifico (e magari anche religioso?) siano al corrente di ciò ma lo neghino per evitare i problemi che ne deriverebbero, appartiene alla fantascienza (o forse alla follia). Nessun pensatore serio, scienziato, filosofo o teologo che sia, sottoscriverebbe tale posizione, anche se alcune delle sue affermazioni, estratte da contesto, potrebbero essere strumentalizzate per suffragarla.
Ma l'interesse del pubblico per le domande che facevamo prima, quelle indirizzate alla teologia, resta. Ed è questo che ci spinge a proporre anche in queste righe qualche semplice riflessione, rimandando il lettore interessato a quelle pagine del portale ove la tematica viene affrontata in modo sistematico ( Extraterrestre, Vita ).
Chi si occupa di teologia non può non guardare con interesse, come ogni altro essere umano, alla ricerca della vita al di là del nostro pianeta. Chi crede che la vita sia un dono di Dio, e che il Creatore dell'universo sia la fonte e la pienezza di una vita che va al di là dello spazio e del tempo, non può, a mio avviso, non rallegrarsi nel sapere che le condizioni ambientali, fisiche e chimiche, adatte ad ospitare la vita siano assai più diffuse nel cosmo di quanto potevamo pensare, forse solo pochi decenni or sono. Non si tratta di “credere o non credere” all'esistenza di altre forme di vita: siamo infatti di fronte ad una possibilità di eventi fattuali , eventi la cui conoscenza sarà possibile solo mediante dei fatti di natura sensibile, come la scoperta, in modo diretto e sperimentale, di forme semplici di vita, oppure il contatto via radio con forme di vita intelligente. La risposta può venire solo dai fatti, quando li avremo e se li avremo, non dalle nostre ipotesi o dai nostri preconcetti. Le enormi dimensioni dell'universo e la presenza di innumerevoli siti adatti a dare origine a nicchie biologiche favorevoli, sono certamente condizioni necessarie ma non sufficienti per affermare che vi sia davvero vita extraterrestre: tuttavia la presenza di vita al di fuori della Terra non è un'ipotesi irragionevole, né contradditoria e, come tale, non può essere esclusa a priori, né dalla scienza, né dalla teologia.
Per la teologia, come per tutta l'umanità, la scoperta di altre forme di vita obbligherebbe certamente ad un notevole allargamento di orizzonti. La teologia dovrebbe probabilmente rileggere sotto una luce nuova alcune pagine della Rivelazione biblica che ci parlano del nostro modo di comprendere la vita e i suoi rapporti con il Creatore. Ma non per questo le verità della fede cristiana ne verrebbero inesorabilmente travolte. Alcune di esse dovrebbero però essere interpretate in un quadro concettuale più ampio di quello che oggi possiamo immaginare. Alcune “riletture” della Rivelazione, forse un po' meno radicali, sono state già realizzate: pensiamo alle grandi scoperte geografiche dei secoli passati, oppure alla scoperta che l'essere umano ha avuto una lunga storia evolutiva, biologica e culturale, molto più estesa di quanto solo pochi decenni fa potevamo ritenere.
Per coloro che hanno familiarità con la fisica, suggeriamo un paragone. L'ipotesi che il genere umano sia l'unica forma di vita intelligente nell'universo potremmo paragonarla a ciò che in fisica si chiama una “soluzione classica”: si tratta di una formulazione semplice, che serve per interpretare in modo soddisfacente una grande quantità di fenomeni in condizioni ordinarie, una soluzione che deve essere però completata da altri fattori o parametri quando le caratteristiche del sistema mutano sensibilmente, come avviene ad esempio nel passaggio dalla meccanica classica a quella relativistica o quantistica: la parte di verità contenuta nella soluzione più semplice non si perde, ma viene inglobata in una soluzione più generale, che è quella che descrive più accuratamente il sistema in esame. In teologia, considerare il genere umano come un evento assolutamente singolare nella storia dell'universo e ritenere che Dio si sia rivelato in pienezza solo sul nostro pianeta, nel suo Figlio fatto uomo per noi, è appunto una soluzione classica. Se il quadro sperimentale si allargherà, dovremo allargare anche il corrispondente quadro interpretativo, senza perdere le verità di fede che già possediamo, ma inglobandone certamente di nuove. L'esistenza di altri esseri razionali non ci obbliga assolutamente a rinunciare a quanto abbiamo appreso dalla Rivelazione. Non dimentichiamo che proprio la Rivelazione ci parla di altri esseri intelligenti, diversi dalla persona umana: gli angeli. Essi hanno avuto una loro storia, o meglio una loro economia di grazia, diversa da quella dell'uomo. E sappiamo che Cristo esercita anche su di loro la sua regalità, come Signore e re degli angeli, pur possedendo Egli una natura umana perfetta, la nostra, e non una natura angelica.
Un ulteriore chiarimento riguarda il fatto di non affidare ad un contatto con civiltà extraterrestri l'onere di dimostrarci l'esistenza di Dio. In primo luogo noi non abbiamo una sufficiente conoscenza dei piani di Dio, tale da dover stabilire come e quando la Rivelazione e la storia di salvezza della quale siamo destinatari, debba essere applicata o estesa ad altri esseri razionali. Non possiamo neanche escludere (ipotesi in certo modo abissale) di dover essere noi umani a dover parlare del Creatore a queste creature. Finora noi terrestri non ci siamo comportati sempre bene in materia di “informazione religiosa cosmica”. Nel 1974, dal radiotelescopio di Arecibo (Portorico) fu rivolta verso l'ammasso globulare M13 una trasmissione di circa tre minuti, con molte informazioni sulla Terra, sull'umanità e sulla vita. Neanche un cenno al fatto che la maggioranza degli esseri umani crede in un Dio Creatore. Neanche le immagini collocate sulle sonde Pioneer, spintesi negli anni '70 al di là del nostro sistema solare, contenevano qualcosa che lasciasse pensare ad una dimensione spirituale dell'essere umano. Dunque, noi terrestri, da questo punto di vista, non l'abbiamo detta tutta.
Una maggiore coscienza religiosa nella nostra umanità può favorire un atteggiamento di rispetto verso la vita, ovunque essa sia presente e si manifesti, anche quella intelligente, se esistesse, perché tale coscienza ci ricorderebbe che siamo creature dello stesso Creatore. Se mai un giorno la notizia arrivasse, dovremmo accoglierla con spirito di umiltà. Con desiderio di capire, e di aprirci a una verità che assumerebbe davvero una portata e dei contorni totalmente insospettati.