La situazione odierna rappresenta un momento particolarmente propizio per muoversi verso una ricostruzione di una certa unità tra le cosiddette “scienze esatte” ed altre forme di sapere, in primo luogo la filosofia, ma anche altre, non da ultimo l'arte. Siamo tutti persuasi che la visione scientifica del mondo riveste oggi una straordinaria importanza per la vita dell'uomo. Si potrebbe quasi dire che molte teorie scientifiche sviluppate durante questo ultimo secolo, peraltro piuttosto complesse, sono entrate nell'“immaginario collettivo”, sono diventate delle “icone culturali”, non da ultimo grazie a film famosi come ad esempio GATTACA, Artificial Intelligence, A beautiful mind, e altri. Molti sarebbero fondamentalmente d'accordo con l'affermazione del biologo Christian De Duve, secondo il quale «la biologia è oggi diventata più importante della fisica nel messaggio, direi, filosofico che essa ci trasmette». Quale sia però questo messaggio filosofico che la biologia moderna ci trasmette è tutt'altro che chiaro. Se si osservano le cose come esse appaiono in superficie, sembra trattarsi di un messaggio riduzionista, non certo esaltante dal punto di vista dell'immagine dell'uomo, dell'universo (ed è questa per inciso la posizione di De Duve). Se invece si comincia ad approfondire, si può intravedere un altro messaggio, più nascosto, ma molto significativo per quanto riguarda il futuro dei rapporti tra scienze e filosofia e probabilmente anche tra scienze e fede. Infatti assistiamo oggi nella biologia, così come quasi un secolo fa nella fisica e nella matematica, a ciò che potrebbe essere definito come l'abbandono della autoreferenzialità nelle scienze, con la riscoperta di concetti quali l'indeterminismo, il concetto di forma, oppure anche il finalismo nello sviluppo dell'organismo, concetti che erano stati cacciati dalla porta di casa delle scienze esatte, ma che sono rientrati dalla finestra, dato che senza di essi risulta impossibile spiegare le dinamiche evolutive.
Non vi è dubbio che la riscoperta di questi concetti da una parte mette in crisi la definizione classica della biologia e delle altre scienze come “scienze esatte”, d'altra parte apre la strada al recupero della dimensione ontologica nelle scienze. Di fatto, a ben vedere, osserviamo nelle scienze moderne una situazione contraddittoria: da una parte penso si possa affermare che oggi i portatori di un concetto forte di verità, almeno in modo implicito, sono gli scienziati piuttosto che i filosofi. Sono gli scienziati quelli che oggi sono abituati a compiere il passaggio “dal fenomeno al fondamento” auspicato dall'Enciclica Fides et ratio. Per rendersi conto di questo stato di cose basta pensare all'elaborato apparato di auto-controllo che si è sviluppato in questi ultimi decenni nel mondo scientifico (il processo di peer-review, l'esigenza di riproducibilità dei dati prima che questi vengano accettati dalla comunità scientifica...). Esagerando un po' si potrebbe arrivare a dire che l'errore scientifico è diventato la versione moderna dell'errore dottrinale, ossia l'eresia. D'altra parte è anche vero che è avvenuto un importante mutamento che riguarda il valore ed il fine della conoscenza scientifica in epoca contemporanea. Infatti, si assiste proprio nelle scienze (o in chi ne impiega le risorse) ad un importante ridimensionamento del concetto di verità, sempre più spesso connesso alla riduzione del concetto di realtà a ciò che è osservabile e tecnologicamente manipolabile. Non pochi universitari europei lamentano una crisi della ricerca di base, ossia di quella ricerca il cui motore è semplicemente la curiosità scientifica, la conoscenza “fine a se stessa”. In un recente convegno svoltosi presso la sede della Commissione Europea a Bruxelles, un ricercatore del Karolinska Institutet veniva ad affermare che una ricerca che non abbia applicazioni immediate è immorale. Invece, è opinione di molti che il primo motore della ricerca è, e deve rimanere, la scoperta della verità. Il primo atteggiamento dell'uomo di scienza deve essere quello contemplativo, infatti alla dimensione attiva (applicativa) si arriverà inevitabilmente, quasi suo malgrado. Se non è lui stesso che ci pensa, saranno i suoi colleghi maggiormente versati negli affari a farlo. Quando gli uomini di scienza perdono di vista il fine veritativo dell'attività scientifica, vanno inevitabilmente incontro ad essere asserviti ad altri poteri: ideologico, politico, economico.
Affinché l'attività scientifica non perda di vista il suo fine veritativo, ritengo sia necessario riannodare il dialogo tra scienze e filosofia, non tanto nel senso ristretto di promuovere la filosofia della scienza, che valuta criticamente gli strumenti di conoscenza utilizzati dalle varie scienze, ma anche, e soprattutto, nel senso di cercare il punto di incontro nel concetto di verità. Dal punto di vista della filosofia, questo presuppone il ritorno ad una concezione della filosofia come scienza disposta a chinarsi sui dati e le teorie che vengono incessantemente generati dalle altre fonti di conoscenza, dando per scontato il loro contenuto di verità, anche se parziale, per ricavarne risposte alle domande fondamentali che l'uomo si pone. Si tratta di un dialogo benefico sia per le scienze che per la filosofia. Affinché questo dialogo possa avvenire sono però imprescindibili due passi, uno da parte dei filosofi, l'altro da parte degli uomini di scienza. Per quanto riguarda i filosofi è imprescindibile che la filosofia recuperi una concezione forte di verità. Si tratta di un passo di ordine etico prima ancora che intellettuale: il recupero della passione per la verità ossia amore appassionato per la verità, così come ci viene suggerito dall'Enciclica Fides et Ratio: «Talvolta chi era chiamato per vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria speculazione, ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo nell'immediato alla fatica di una indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La filosofia che ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare con forza la sua vocazione originaria» (n. 6)
Per quanto riguarda invece gli uomini di scienza, essi devono recuperare una “concezione globale” della verità: non mi accontento di una verità parziale, valida solo dal punto di vista della mia disciplina, ma voglio aspirare a scoprire “tutta” la verità su una data cosa. Per questo motivo la mia indagine non può essere in linea di principio chiusa a nessuna fonte di conoscenza che possa darmi notizie autentiche della cosa che sto indagando: ad esempio se il mio campo di interesse è la fisiologia dell'udito, devono interessarmi anche gli aspetti storici, letterari o musicali del problema dell'udito. Quello di cui c'è bisogno sono quindi uomini di scienza capaci di mettere a fuoco il loro pensiero non solo su un particolare livello di realtà, quello della loro disciplina, bensì su tutti i livelli di realtà che richiede la comprensione integrale dell'oggetto dell'indagine, anche se i metodi di indagine appropriati per ciascun livello possono essere profondamente differenti e possedere gradi di certezza e di precisione differenti. In altre parole, si tratta di mettere in secondo piano il metodo di indagine e di mettere in primo piano l'oggetto dell'indagine. Si tratta quindi, per gli uomini di scienza, di avere passione per la “verità ontologica”, con tutte le sue sfumature e con la sua inerente vaghezza, piuttosto che solo per la verità logica, più certa, più precisa, ma che non permette di cogliere l'oggetto nella sua interezza. Riassumendo in termini generali quello detto fin qui, possiamo dire che la chiave per la riunificazione delle scienze con la filosofia non è quella di arrivare ad un metodo ed un linguaggio universali (impresa impossibile), ma quella di assumere la prospettiva dell'oggetto e del significato che questo assume nell'esperienza integrale del soggetto conoscente.
A dire il vero, non è difficile identificare uomini di scienza che sono stati capaci di unificare le prospettive delle scienze esatte con quelle di altri saperi nelle loro opere, e che potrebbero essere additati come modelli di riferimento, anche in vista di educare una nuova generazione di ricercatori. Possiamo citare prima di tutto Aristotele, che ai libri della metafisica fa precedere i libri dedicati alla filosofia della natura. Non si tratta evidentemente di riprendere pedissequamente le categorie aristoteliche e di applicarle tout court alle conoscenze scientifiche moderne. Si tratta piuttosto di imitare “l'atteggiamento intellettuale” di Aristotele, che sviluppa le sue concezioni filosofiche a partire dall'osservazione paziente ed accurata degli animali, del cielo, del tempo meteorologico, ecc. Più recentemente tra i filosofi che hanno prestato particolare attenzione alle conoscenze scientifiche possiamo citare H. Bergson (fenomeni neurologici), il “secondo” Wittgenstein (la sua discussione del linguaggio come gioco, la sua attenzione al problema del dolore), M. Polanyi (che proviene dalla chimica fisica), oltre naturalmente a fisici quali N. Bohr, W. Heisenberg, W. Heitler e altri. Vi sono anche esempi di medici e biologi che hanno una dimensione interdisciplinare e non-riduzionista, ad esempio il biologo A. Portmann, neurologi come A. Damasio, O. Sacks e altri. Non dobbiamo però dimenticare anche esempi di grandi artisti che hanno prestato attenzione al mondo della scienza. Un esempio classico è Dante: infatti, la sua arte poetica è solidamente fondata su una vastissima cultura scientifica (naturalmente entro i limiti della scienza della sua epoca). Se volessimo cercare di definire, a partire dalle discipline moderne, i campi scientifici toccati da Dante, potremmo dire che la sua opera poetica è basata su discipline quali la storia, la geografia, l'astronomia, la fisiologia, la psicologia, la demo-etno-antropologia, ecc. Si potrebbe affermare che Dante è il primo scrittore interdisciplinare o addirittura trans-disciplinare (ma forse tutte le grandi opere d'arte sono intrinsecamente trans-disciplinari, altrimenti non sarebbero opere d'arte). Se vogliamo arrivare a tempi più recenti, non esiterei ad accostare a Dante uno scrittore italiano poco noto al grande pubblico, Carlo E. Gadda, il quale non esita ad utilizzare nei suoi romanzi il linguaggio scientifico, il linguaggio burocratico, il linguaggio militare ecc., se questo è utile per trasmettere una visione più completa dell'oggetto del discorso letterario.
Più in generale, queste considerazioni ci portano al tema del rapporto tra opera d'arte ed opera scientifica, un tema che non è possibile sviluppare in questa sede, ma che ritengo estremamente interessante e centrale per il discorso del rapporto tra scienze ed altri saperi. Una scienza aperta alla complessità del reale può fare tesoro anche di approcci che non utilizzano il metodo scientifico, come appunto l'arte. Molti concordano probabilmente sul fatto che un'opera d'arte, ad esempio un'opera poetica, può arrivare a cogliere meglio la totalità di determinati oggetti che la somma di tutti gli approcci scientifici, soprattutto quando si tratta di oggetti di grande complessità, in primo luogo quindi l'uomo. Scrive Paul Ricoeur, a proposito della narrazione della Creazione: «Direi che sono convinto che un'interpretazione intellettuale della narrazione della Creazione ci fornisce l'unico riferimento per la radicale produzione dell'universo e di ciò che chiamerei l'uomo in sé stesso; l'uomo che io sono in quanto, da un lato, parte della natura e, dall'altro, responsabile delle mie proprie azioni; la spaccatura [gap] può essere superata non a livello di qualsivoglia pratica [scientifica], bensì a livello di un altro tipo di discorso che è, a mio avviso, poetico-mitico» ( The Cultural Values of Science, Pontificiae Academiae Scientiarum Scripta Varia 105, Vatican City 2003). D'altra parte va pure detto che la metodologia scientifica può aiutare a comprendere meglio il significato di un'opera d'arte, può aiutare a leggere la mente dell'artista; un esempio è quello dell'analisi del tempo dedicato da Michelangelo per dipingere i vari personaggi del Giudizio Universale: l'analisi delle “giornate” per mezzo di tecniche ottiche ha rivelato che Michelangelo ha dedicato un'intera “giornata” a dipingere il volto di Cristo, il che è perfettamente coerente con la ben nota centralità della figura del Cristo nell'affresco.
Mi sono volutamente dilungato su una serie di modelli di atteggiamento intellettuale (non necessariamente modelli di vita) pensando alla “prospettiva educativa”: penso infatti che sia urgente cominciare ad educare una nuova generazione di ricercatori, secondo un modello nel quale essi vengono formati in maniera rigorosa e approfondita in una disciplina specifica, non importa se molto specialistica (la specializzazione è sempre più necessaria per ottenere risultati scientifici di buon livello) e allo stesso tempo incoraggiati a pensare all'interno una prospettiva che supera la propria disciplina, arrivando a mettere in primo piano l'oggetto e la sua unificazione nel soggetto piuttosto che il metodo.