Quando iniziai gli studi di fisica dovetti superare un piccolo trauma: venivo dal liceo classico ed ero molto spaventato dall'analisi matematica e dall'algebra. Avevo sempre avuto il massimo dei voti nelle materie scientifiche ed ero stato rassicurato nella mia scelta accademica dai professori che mi avevano conosciuto negli anni precedenti; ma nulla poteva togliermi la sensazione di idiota che provavo di fronte all'immane massa di simboli ignoti che si presentavano ai miei occhi ed alle mie orecchie, ad ogni ora di lezione.
Il piccolo trauma fu magistralmente risolto dall'intervento del docente di una delle materie più ardue, che mi rassicurò fornendomi un principio basilare della conoscenza scientifica, che non mi ha mai tradito: la matematica non si capisce, alla matematica ci si abitua.
Questo principio mi permise di accorgermi, a poco a poco, che, mentre cercavo di addentrarmi nei meandri della dimostrazione di un teorema di analisi o geometria, la mia mente stava svolgendo un processo che già le era ben noto: si trattava di imparare a maneggiare un linguaggio formale, per scoprire una sequenza logica nascosta dietro di esso. Stavo facendo esattamente lo stesso di quando traducevo dal greco. Dovevo solo abituarmi ad un nuovo codice astratto, ma dietro a quei segni strani c'era sempre un contenuto logico. La speranza e la salvezza era sempre il presupposto che dietro ai segni ci fosse un significato comprensibile da tutti, dai greci che avevano scritto venticinque secoli prima o da Laplace, che aveva formulato i suoi risultati solo due secoli prima.
Il trauma giovanile mi è recentemente tornato in mente sulle belle rive del lago di Como, dove, dall'11 al 13 ottobre 2004, si è svolto, a Varenna, presso la Villa Monastero , il Convegno Internazionale Dio, la natura e la legge - God and the Laws of Nature, organizzato dal centro Piero Caldirola per la Promozione della Scienza, in collaborazione con la John Templeton Foundation, l'Università degli Studi di Milano, la Società Italiana di Fisica ed altri Enti locali e nazionali.
Ciò che ha fatto riaffiorare il malessere, che ingenuamente pensavo superato, delle mie prime settimane universitarie è stato il confronto, reso possibile proprio dal Convegno di Varenna, tra scienziati, filosofi e teologi. In particolare, mi ha colpito come scienziati e teologi riuscissero a comunicare senza grandi problemi, in base al principio che esistono leggi esterne e previe all'uomo che conosce, mentre alcuni dei filosofi presenti si ponevano e rilanciavano costantemente la domanda sulla stessa esistenza di una realtà esterna al conoscente. In questo modo stavano mettendo in crisi la base di quel principio che mi aveva sostenuto durante tutti i miei studi prima di fisico teorico e poi di teologo dogmatico: l'esistenza di leggi naturali e di una struttura logica previa all'investigatore non era più garantita.
Lo shock mi ha obbligato a recuperare alcune riflessioni che mi avevano sorretto in quegli anni. In particolar modo, mi sono ricordato di quella definizione – o forse meglio, descrizione – della fisica, che R. Feynman propone nelle prime pagine del suo appassionante corso di lezioni: “We can imagine that this complicated array of moving things which constitutes "the world" is something like a great chess game being played by the gods, and we are observers of the game. We do not know what the rules of the game are; all we are allowed to do is to watch the playing. Of course, if we watch long enough, we may eventually catch on to a few of the rules. The rules of thegame are what we mean by fundamental physics.” (Feynman, R. P.; Leighton, R. B.; Sands, M. The Feynman Lectures on Physics, Addison-Wesley Publishing Company, Reading, sixth printing, 1977, Volume I, p. 2)
Da subito mi aveva impressionato l'idea che la stessa osservazione del mondo ci conduce alla scoperta di alcune leggi; da subito mi ero entusiasmato per questa possibilità di giocare a scacchi con gli dei; da subito mi aveva sostenuto l'idea che il gioco funzionasse. Adesso, di fronte all'incomprensione tra scienziati e filosofi, mi sentivo un poco come un bimbo che vede litigare i genitori, mi sentivo perplesso e deluso.
Una volta tornato a casa, aprendo un libro che da tempo avevo sul tavolo in ufficio, ho letto un aneddoto che mi ha risollevato da quello stato doloroso. Racconta M. La Matina, nel suo prezioso studio Cronosensitività (Carocci, Roma 2004), come nel luglio del 1995 si trovasse ad Urbino, per assistere ad uno dei seminari organizzati dal Centro Internazionale di Linguistica e Semiotica, diretto da Pino Paioni. I lavori si svolgevano in un moderno auditorium, dove erano stati collocati tre o quattro potenti condizionatori, per frenare la calura estiva. Si dà il caso che l'aria condizionata troppo forte causi al prof. La Matina dolorosi mal di testa, un po' come quando si mangia il gelato troppo in fretta. Per questo egli tirò fuori dalla macchina la prima cosa che trovò e che potesse servigli a ripararsi il capo dal getto gelido. E la prima cosa che trovò fu uno di quei cappellini da formula uno, rossi con lo scudetto giallo della Ferrari. La soluzione resse bene fino all'ultimo giorno dei seminari, quando uno dei partecipanti accorsi per la sessione finale, rivelò al prof. La Matina che molti degli studiosi lì presenti si stavano chiedendo come mai sfoggiasse un simile copricapo, quale era il suo significato. La rivelazione sconvolse il protagonista del nostro apologo, perché non poteva capacitarsi del fatto che un simile consesso di esperti e colti semiologi, dotati di un sistema circolatorio a sangue caldo, provasse il bisogno di identificare una qualche forma di contenuto al simbolo ferraristico, al di là della pura e semplice realtà del freddo generato dai condizionatori e di una normale reazione fisiologica.
L'esperienza del prof. La Matina mi consolò notevolmente, mi sentii capito, compreso. Questi dubbi dei filosofi, e soprattutto di quei filosofi che sentono la tentazione di ridurre la filosofia a filosofia del linguaggio, a proposito del legame tra segno e realtà era un fenomeno comune. Io, come fisico e come teologo non riuscivo a comprenderlo. Sia nelle scienze naturali che nella riflessione teologica si parte da una realtà previa, una realtà data, o meglio donata, come ha sottolineato il prof. Tanzella-Nitti, nel suo intervento durante il Convegno di Varenna.
Di per sé l'apertura alla realtà dovrebbe essere la base di ogni riflessione scientifica. Paradossalmente proprio su questo punto si può costatare una grande sintonia tra scienze e teologia: per le prime, i dati dai quali muove il processo critico di conoscenza sono quelli offerti dagli esperimenti e dall'osservazione delle regolarità esistenti in natura; per la seconda, i dati di partenza sono gli eventi salvifici offerti dalla Rivelazione. Sia le scienze che la teologia partono da fuori, da un ad extra, che si erge a criterio di verità ultimo per il risultato di ogni successiva elaborazione. Io posso costruire tutte le teorie scientifiche che voglio, ma se poi i risultati da esse previsti non si accordano con gli esperimenti, le teorie stesse devono essere scartate. Lo stesso si può dire della teologia, la cui riflessione deve confrontarsi costantemente con la realtà rivelata e tramandata. Per entrambe la verità viene colta senza poter mai essere esaurita, per entrambe rimane sempre al di là, per entrambe la realtà è il criterio ultimo di verità.
Sia in scienza che in teologia si può dire che una teoria è vera solo perché si continua a cercare, solo perché c'è accordo con la realtà nella misura in cui si riesce ad attingerla. Per questo, in entrambi i casi si dichiarano le fonti e si discute con i precedenti. Per questo nelle biblioteche scientifiche si conservano le riviste degli anni precedenti con i record degli esperimenti: ogni formula contiene molta storia, sintetizza molte misure e proprio questo riferimento alla realtà è ciò che ne assicura la validità. Per quanto riguarda la teologia, basti pensare alla dimensione narrativa della Somma Teologica di Tommaso, analizzata da A. MacIntyre in Three rival versions of moral enquiry: encyclopaedia, genealogy, and tradition (University of Notre Dame Press, Notre Dame 1990): l'esposizione teologica dell'Aquinate può apparire farraginosa al lettore contemporaneo, desideroso di conoscere immediatamente la risposta esatta, mentre Tommaso sta insegnando a ragionare, partendo dai dati della Rivelazione e della Tradizione. Proprio da questo dialogo ne viene la forza. Il sistema rimane aperto ed il criterio di verità viene sempre fuori da esso, ovvero dalla realtà stessa.
Tornando all'esperienza di Varenna, è evidente che il problema di rapporto tra scienze e teologia da una parte e la filosofia dall'altra non è un caso generale. Tutte e tre le discipline hanno proceduto, ed in parte continuano a procedere, di pari passo. Le difficoltà sorgono solo quando una certa corrente filosofica inizia a sostenere che la realtà, le regolarità, le leggi, insomma, il di fuori non esiste. Allora si pone una domanda che manda in tilt il sistema: quando si è davanti ad un computer molte volte si capisce che si è fatto qualcosa di sbagliato proprio perché la macchina si blocca. Così ci sono domande che sono sbagliate perché distruggono la possibilità stessa di sussistenza. Non ogni domanda ha diritto di cittadinanza e ciò non contraddice la libertà di ricerca, così come non c'entra con la libertà di stampa l'inqualificabile comportamento di un giornalista che chiede alla madre, che ha appena perso un figlio in un incidente, come si sente.
Come in ambito scientifico è ben noto che non si può ricorrere a qualsiasi strumento di misura per studiare un certo fenomeno, così in filosofia una gnoseologia non vale l'altra: quando si nega la possibilità stessa di attingere una realtà, quando si nega la possibilità di cogliere almeno in parte la verità, si sta sottoscrivendo l'affermazione in assoluto più totalitarista che si possa concepire. Sia le scienze che la teologia, a volte, si sono lasciate trascinare dall'impeto e dall'entusiasmo conoscitivo, affermando di essere giunte alla verità in senso assoluto, ma sempre l'irrinunciabile presupposto dell'esistenza di una realtà esterna ha permesso di cogliere che si era effettivamente giunti ad una verità, ma che ancora rimaneva da indagare, da capire. In un certo senso proprio qui sta il bello del gioco. E proprio qui dovrebbe stare il bello anche della filosofia, il cui ruolo è necessario ed insostituibile, in quanto la sua riflessione dovrebbe preservare le altre discipline precisamente da ogni tentazione totalitarista. Ma negare la stessa evidenza del gioco non può che isolare la filosofia stessa ed allontanarla da un autentico dialogo con le altre discipline. In fondo, se veramente non si può parlare di una realtà esterna e previa al conoscente, crolla la possibilità stessa di ogni dialogo, di ogni educazione e di ogni società. L'idea stessa di università non ha più senso.
Per questo, dopo Varenna, si è notevolmente rafforzata in me la sicurezza nella validità di quel principio che mi sostenne all'inizio dei miei studi: esiste una realtà alla quale bisogna abituarsi, si tratti di fenomeni fisici, leggi del pensiero o eventi salvifici. Sia come scienziato che come teologo non posso non diffidare di una scelta gnoseologica che nega la possibilità stessa di giocare a scacchi con gli dei, di una scelta gnoseologica che nega la stessa evidenza di quel gioco che svolgo e che continua a riempirmi di stupore. Basterebbe, allora, lavorare a posteriori, con il buon senso della casalinga: se una gnoseologia minaccia la scienza, se non spiega il fenomeno dell'uomo che fa scienza, non va bene. Sperimentalmente.
E questo, dal punto di vista teologico, ci permette di costatare che il magnifico gioco dell'indagine scientifica del reale ci obbliga a riflettere sull'origine di questa realtà, di queste regolarità, di queste leggi che scopriamo. Si tratta di qualcosa che in parte capiamo, cogliamo, facciamo nostro, ma che non possiamo mai dire di possedere, qualcosa che sempre ci supera. Le scienze stesse chiedono, allora, alla filosofia di non invertire il rapporto tra realtà e linguaggio, e di fondare ogni gnoseologia sull'ontologia, cioè su quel “qualcosa di estremamente semplice e decisivo ad un tempo: la conoscenza del logos dell' essente, del senso, della verità di ciò che è ” ( P. Coda , Ontologia trinitaria e sapere delle scienze , in P. Coda (a cura di), La questione ontologica tra scienza e fede, Lateran University Press, Roma 2004, p. 229 ) L'esistenza stessa della possibilità di giocare a scacchi, ci spinge a pensare agli dei. Se veramente le scienze non sono pura apparenza ed un'illusione, allora possiamo entrare in contatto, per lo meno giocando, con l'origine delle regolarità scoperte, quell'origine che i filosofi dell'antichità ed i Padri della Chiesa hanno chiamato logos e che il prologo del vangelo di Giovanni identifica con il Figlio eterno del Padre. Così la rivelazione suggerisce che la possibilità stessa della scienza si fondi sulla Filiazione, cioè su quel Figlio che ha lasciato nella creazione l'impronta trinitaria e che rende noi, creati a sua immagine, capaci di giocare con le idee del Creatore.