Il dibattito culturale sul tema della laicità, nelle sue diverse forme e con i nodi tematici che lo caratterizzano, accompagna la storia occidentale degli ultimi tre secoli, alternando momenti di maggiore intensità a significativi cali di tono, salvo riaccendersi magari intorno a questioni in parte simili e in parte diverse da quelle dibattute in passato. Oggi tale dibattito tocca alcuni nodi significativi, che vanno dalla vexata quaestio delle radici cristiane dell’Europa al ruolo delle gerarchie ecclesiastiche quando intervengono su temi socialmente significativi e controversi, come ad esempio quelli che attengono a questioni bioetiche. In un intreccio così magmatico di questioni è facile che si generino equivoci e incomprensioni.
Lo stesso termine “laicità” può generare confusione, perché esso deriva dal sostantivo “laico” che – paradossalmente – ha un suo uso specifico addirittura nel linguaggio teologico, con cui la Chiesa cattolica intende se stessa e descrive la propria struttura. Infatti – per dirla con le parole del Concilio Vaticano II – “col nome di laici si intende qui l'insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano” (Lumen gentium, n. 31). Indubbiamente il contesto del dibattito in cui ci inseriamo rende difficile la confusione tra il concetto di laicità inteso da coloro che si autodefiniscono “laici” in opposizione all’identità dei credenti ed il concetto a cui alludono i documenti del Vaticano II, ma – seppure in termini provocatori – ci preme sottolineare come nello stesso uso del termine si ritrovi una polisemia molto ampia, che non consente a nessuno di “appropriarsene” in termini esclusivi. A maggior ragione è bene intendersi sul concetto di laicità, soprattutto quando lo si applica alle questioni bioetiche.
Il rischio di un pluralismo “a senso unico”
Il campo semantico del termine “laicità”, nell’uso corrente dell’italiano odierno, appare equivalente al termine francese laicité e al tedesco laizismus, con un’accezione che propende nettamente per una lettura di tipo ateo-agnostico del fenomeno religioso ed un atteggiamento sostanzialmente anticlericale nei confronti della Chiesa e dei credenti. Questo aggettivo è presente in uno dei testi più espliciti e diffusi in ambito bioetico, quello che va sotto il nome di Manifesto di bioetica laica, pubblicato sulle pagine domenicali de Il sole 24 ore del 9 giugno 1996, mentre, il 21 giugno di quello stesso anno, il Comitato Nazionale di Bioetica si accingeva ad approvare un parere dal titolo “Identità e statuto dell’embrione umano”.
Il testo, la cui costruzione ricorre con frequenza al genere retorico, si apre con l’auspicio che la “seconda rivoluzione scientifica” (quella delle biotecnologie), “non debba essere accompagnata dallo stesso atteggiamento ideologico che ostacolò la formazione della visione scientifica nel mondo dell'età moderna”, facendovi immediatamente seguire un riferimento esplicito a chi professa una visione religiosa della vita. In realtà, seppure nello stile sintetico che il genere letterario scelto impone, il documento esplicita una ben precisa opzione teorica in ordine ai fondamenti della bioetica, come si legge chiaramente nella riflessione conclusiva, per cui “la società nella quale viviamo è una società complessa. È una società nella quale convivono visioni diverse dell'uomo, visioni diverse della società, visioni diverse della morale. Per questo è impossibile pensare che in un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell'uomo, possa esistere un canone morale a vocazione universale”. Nel passaggio da noi reso in corsivo, sembra doversi escludere a priori, in modo netto, la “possibilità” che in un campo come quello della bioetica possa esistere un canone morale universale, quindi – si potrebbe dire – chi dovesse trovarsi a pensare proprio questo sarebbe programmaticamente escluso dal dialogo e dal dibattito, o quanto meno vi sarebbe benevolmente ammesso a patto di “spogliarsi” delle proprie convinzioni, secondo una nota immagine di Engelhardt (per cui la bioetica sarebbe simile ad un’isola per stranieri morali). Tuttavia, un approccio che precisa fin dall’inizio di essere disposto a “tollerare” solo alcune visioni del mondo, della vita e della morale, negando di fatto diritto di cittadinanza alle altre, ci sembra possa considerarsi una “tolleranza a senso unico”. Nella prefazione alla traduzione italiana della seconda edizione del suo Manuale, lo stesso Engelhardt sembra voler individuare le radici remote della bioetica cattolica occidentale nell’incoronazione imperiale di Carlo Magno, asserendo che “questo ménage à trois di fede, ragione e potere papale ha posto le fondamenta della bioetica contemporanea [...], ha definito l’intrinseca natura del dibattito sulla politica sanitaria in Italia” (Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 18). “In questo contesto, un nuovo gruppo di moralisti – formato da eticisti e bioeticisti – ha chiesto la parola e ha incominciato a competere con i teologi morali nell’elaborare consigli per legislatori e governanti, promettendo che la sua morale non sarebbe stata segnata dalle differenze che contraddistinguono le concezioni religiose dell’Occidente cristiano, ma dall’unità della ragione” (ibidem, p. 15). In tale scenario la bioetica laica avrebbe preso piede “parallelamente al collasso delle certezze morali proprie della tradizione religiosa dominante nell’Occidente cristiano, allo sviluppo di strutture sociali post-tradizionali e all’affermarsi di una cultura globale postcristiana e postmoderna”, ipotizzando per essa una sorta di “missione storica”, cioè quella di rappresentare l’interprete autentica dell’ethos implicito della cultura del nostro tempo.
Diviene così opinione comune ritenere “empiricamente dimostrato dall’evoluzione dell’etica medica e della bioetica, che gli approcci laici (nel senso di non confessionali) hanno dimostrato una funzionalità e ragionevolezza di gran lunga superiore nel dirimere controversie e orientare le legislazioni” (Corbellini et al. Biblioetica. Dizionario per l’uso, Einaudi, Torino 2006, p. XVIII). Si manifesta al contempo un certo fastidio per il fatto che rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, all’interno del loro legittimo ruolo di orientare le coscienze in materia morale, esprimano pubblicamente il proprio pensiero, cosa che può certamente sorprendere in un paese in cui la libertà di opinione è costituzionalmente garantita a tutti. Sembrerebbe quasi che in quella prospettiva bioetica che si auto-definisce “dialogica, pacifica, pluralista e tollerante” il diritto al pensiero plurale venga garantito a sé stessi, ma non a chi la pensi diversamente. Nel già citato Manifesto si afferma ancora che “non si può fondare la bioetica su una verità assoluta, non la si può far diventare una metafisica fondata su certezze indubitabili”, soprattutto quando tale visione del mondo e della vita tenta di entrare nel gioco delle scelte legislative di una società democratica. Si opera così, in modo alquanto frettoloso e spesso erroneo, una identificazione fra prospettiva confessionale e ricerca di linguaggi ed argomenti fondati su una ragione naturale, accessibile in linea di principio a tutti, e capace di giungere a conclusioni vere, come accade peraltro in molti altri campi del sapere scientifico e filosofico.
Ha senso riaprire il discorso sulla “legge morale naturale”?
Che il tema del ruolo della legge morale naturale rappresenti un nodo cruciale del dibattito sui diversi modi di concepire la bioetica contemporaneo lo si può cogliere anche in modo indiretto, dal programma, presentato nel citato Manifesto di sul piano culturale (piuttosto che filosofico): “Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola un qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell'idea di natura. Nel momento in cui le tecnologie biomediche allargano l'orizzonte di quel che è fattualmente possibile, i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che naturale non sarebbe”.
In merito alla legittimità degli orientamenti con cui il magistero della Chiesa desidera intervenire nel dibattito, osserviamo che quando esso si pronuncia non lo fa solo su argomenti che appartengono al dominio di una Parola rivelata, ma anche affrontando argomenti filosofici e di ragione, negando i quali la stessa Rivelazione non risulterebbe più intelligibile. I pronunciamenti in difesa della vita, appartengono sostanzialmente a quell’ambito indicato come “revelatum per accidens”, nel senso che si ricollegano alla legge morale naturale, una morale accessibile all’umana ragione e che il magistero della Chiesa può interpretare autorevolmente, come ricordato ad es. da Paolo VI, all’inizio dell’Humanae vitae (1968): “Tali questioni esigevano dal Magistero della Chiesa una nuova approfondita riflessione sui principi della dottrina morale del matrimonio; dottrina fondata sulla legge naturale, illuminata ed arricchita dalla rivelazione divina. Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. È infatti incontestabile, come hanno più volte dichiarato i nostri predecessori, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli apostoli la sua divina autorità ed inviandoli ad insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi ed interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale, essa pure espressione della volontà di Dio, l'adempimento fedele della quale è parimenti necessario alla salvezza” (n. 4).
Se è vero che il Vangelo della vita annunziato da Gesù Cristo riguarda propriamente e innanzitutto la vita “divina” ed “eterna” nella quale consiste la salvezza dell’uomo, tale vita viene tuttavia promessa a qualcuno, alla persona umana, il cui valore incomparabile si fonda sulla sua natura spirituale, ma di cui la vita fisica costituisce la condizione basilare, il momento iniziale e “parte integrante”, non realtà “ultima”, ma “penultima” e comunque “realtà sacra”. Di tutto questo può rendersi conto ogni uomo, credente o non credente. Affermava in proposito Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae (1995): “Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2,14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la stessa comunità politica” (n. 2).
In altri termini, quando si parla di una bioetica di impianto personalista e/o del magistero della Chiesa, si può osservare una curiosa inversione di soggetti nell’attribuzione dei fondamenti epistemologici delle rispettive posizioni. Da un lato, infatti, gli interlocutori laici tendono a presentare come posizioni fideistiche tutte le posizioni che fanno riferimento ad una visione del mondo e della vita che comporta – anche sul piano filosofico – riferimenti “forti”. Dall’altro, i testi del magistero della Chiesa (che certamente muovono da una visione di fede), rimandano – come fondamento delle proprie affermazioni – alla legge morale naturale e quindi ad una prospettiva di tipo filosofico, “illuminata dal Vangelo”.
L’educazione come ambito privilegiato di grande forza euristica
Vorremmo concludere la nostra riflessione con un richiamo ad un tema che ci sta particolarmente a cuore e che potrebbe aiutare come “spunto euristico” per avviare un dibattito sulle molte questioni che abbiamo lasciato in sospeso. Si tratta dell’impatto che il dibattito bioetico ha sulle pratiche educative, con particolare riferimento ai percorsi che vengono realizzati nelle scuole.
In primo luogo va detto che nessun atto educativo può configurarsi come rigorosamente “neutro” in ordine ai valori che sono propri di una determinata cultura: i giovani che ricevono l’eredità di una cultura ne accolgono anche – più o meno consapevolmente – le priorità, le istanze emergenti, le gerarchie di ciò che viene ritenuto preferibile, anche quando gli insegnanti ritengono di avere un atteggiamento assolutamente “asettico”. L’immagine dell’isola per stranieri morali, utilizzata per descrivere un certo approccio alla bioetica, è del tutto improbabile in un contesto di tipo educativo. I bambini e i ragazzi sono “assetati” di orizzonti di senso, perché sono impegnati a costruire la propria identità, a progettare il proprio futuro e vorrebbero avere la speranza di farlo in nome di qualcosa per cui ne “vale la pena”. Anche se abbracciano una visione di tipo agnostico, tendono a rivestirla di una carica ideale che di fatto la toglie dall’immagine solo apparentemente neutra e asettica che abbiamo evocato.
In secondo luogo vi sono tutti gli interventi esplicitamente miranti a raggiungere un risultato di tipo “educativo”, talvolta utilizzando anche la parola per sottolineare tale intento. Ci riferiamo – ad esempio – agli interventi che si realizzano a scuola nel campo dell’educazione ambientale, della solidarietà, dello sviluppo, dei diritti umani, ecc. Nessuno di questi atti educativi suppone un approccio “eticamente neutro”, nel senso che nessuno di questi interventi si trova nella condizione di serena equidistanza dalla promozione di atteggiamenti favorevoli alla conservazione dell’ambiente o di atteggiamenti che siano inclini alla sua distruzione. L’educazione ambientale, per proseguire con l’esempio che abbiamo preso, suppone una “scelta di campo” e l’individuazione di alcuni “beni” da promuovere. Ci si potrebbe ancora chiedere quali siano i fondamenti delle ragioni che stanno alla base dell’individuazione di tali beni, ovvero se tali ragioni abbiano un carattere pattizio e convenzionale, oppure non vengano presentate ai giovani come modelli dotati di maggiore autorevolezza e, per questo, capaci di orientare (se l’azione educativa giunge a buon fine) comportamenti e atteggiamenti in una direzione socialmente desiderabile. Vi è un implicito etico in tutte le “educazioni”, che probabilmente richiede di essere esplicitato, proprio per evitare che gli interventi di natura più direttamente educativa si limitino a favorire una sorta di esteriore “etichetta” di ciò che risulta “politicamente corretto” in una determinata epoca (la nostra). Un fondamento così debole pregiudicherebbe in radice la forza educativa delle azioni messe in campo e la possibilità stessa di presentare gli atteggiamenti da promuovere come “degni” di essere fatti propri e interiorizzati, non solo perché teoricamente plausibili e socialmente bene accetti, ma perché “vale la pena” di costruire una identità (quella di se stessi in quanto persone in età educativa) di cui faccia parte un determinato modo di intendere la vita, la salute, l’ambiente. Vi sono dunque delle “ragioni” bioeticamente forti implicite negli interventi educativi capaci di generare orizzonti di senso.
Se queste considerazioni possono indicare una pista di riflessione o un metodo di lavoro, potremmo sintetizzarlo in questi termini. In un dialogo veramente “laico” e privo di pregiudizi, dopo avere lasciato che le diverse posizioni (nessuna esclusa) davvero si confrontino tra di loro alla luce delle radici che ciascuna ritiene fondanti il proprio pensiero, ci si potranno porre diverse domande. Alcuni autori si chiedono – e ne abbiamo citato alcuni passaggi – quali posizioni bioetiche siano più “funzionali” al dibattito aperto e sereno all’interno di un comitato etico, per esempio di una struttura sanitaria. Ma non è questo l’unico ambito in cui le ragioni del dibattito bioetico possono confrontarsi, per cui proviamo a chiederci quale potrebbe essere l’impatto educativo delle diverse impostazioni bioetiche, se assunte da persone che stanno ancora costruendo la propria identità. Proviamo, per esempio, a pensare come potrebbero leggere dei giovani adolescenti le “ragioni” di certi dibattiti sull’eutanasia, specialmente di fronte alla posizione di chi ritiene che una vita meriti di essere vissuta solo se e finché essa conserva una certa “qualità”. Ci siamo mai chiesti come vengono lette tali affermazioni in ottica educativa? Ce la sentiremmo davvero di dare a degli adolescenti un messaggio che potrebbe suonare in questi termini: “se tu ritieni, a tuo insindacabile giudizio, che la tua vita non sia più degna di essere vissuta, una buona soluzione è quella di abbandonare la vita stessa e – se non puoi o non te la senti di procedere in prima persona – la società ha il dovere di aiutarti”? La formulazione che abbiamo scelto – ne siamo consapevoli – è piuttosto “forte”, ma spesso è questo il modo in cui i giovani che sono alla ricerca di se stessi possono cogliere alcuni elementi di riflessione che nel dibattito tra gli addetti ai lavori suonano molto più “tecnici” e “asettici”. In realtà le diverse prospettive bioetiche hanno un “implicito antropologico” (che lo si esibisca o meno) che si traduce in diversi “impliciti educativi”, alcuni più desiderabili di altri.