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Educare al sapere, ovvero il recupero del soggetto

Marzo 2007
Clementina Ferrandi
Docente di Filosofia contemporanea- Università San Tommaso d’Aquino, Roma

Di fronte alla tendenza contemporanea alla frammentazione e alla incomunicabilità fra i saperi ritengo sia necessario ripresentare la concezione classica del sapere. Sapere non è soltanto conoscere e neppure comunicare le cose conosciute; potremmo dire che sapere non significa neppure informare o divulgare. Forse il primo momento della conoscenza può essere costituito da informazione, divulgazione, comunicazione, dove i contenuti sono senza dubbio interessanti. Eppure informazione e comunicazione non sono sapere finché non divengono contenuti interiorizzati; processo di interiorizzazione delle informazioni e dei contenuti significa sapere, perché il sapere è personale, stabilendo un ordine e una relazione della conoscenza con l’Io che conosce.

Quando si dice che, strettamente parlando, la filosofia non è insegnabile, è perché non si può insegnare a interiorizzare; lo diceva già Socrate attraverso il dialogo altissimo che la sensibilità platonica testimoniava per il vero. La passione per la Verità non si insegna, perché l’uomo l’ha in sé. L’inquietudine nella ricerca della Verità, considerata un delirio da alcuni autori, è vissuta come uno splendido delirio da altri, e la vita spesa alla ricerca della Bellezza trova altri uomini interamente disponibili.

Il concetto classico del verbo latino sapio dà la dimensione del sapere legata alla individualità personale. Sapere significa avere sapore, etimologicamente, e il sapore non lo si può fornire dall’esterno; l’evento-uomo è tale che si propone come colui che possiede un proprio sapore in relazione al vissuto e a ciò che ha saputo trarre dalla dimensione, non solo esperienziale, ma intellettuale della sua propria vita. L’aver sapore rappresenta la dimensione dell’unità dell’esperienza con quella intellettuale e con la superiore esigenza spirituale, in una unità intrascendibile di vissuto che è il pieno, la totalità di esperire, comprendere, significare.

La conversione coinvolge infatti i tre livelli e li trasfigura, quello dell’esperienza, quello dell’intelletto, quello dello Spirito. L’evento-uomo è una totalità di queste, che non sono tre Tappe ma tre Presenze. Tali tappe evidentemente sono esistenziali, rigorosamente centrate non su un modello esterno ma sul soggetto. Nell’evento-uomo rispondono ad un’esigenza spirituale, così personale da risultare unica dove le differenze caratterizzano il sé dell’evento-uomo, dove l’orientamento di ogni soggetto umano non è annullabile artificiosamente. Si tratta del riconoscimento della libertà come responsabilità personale. Queste idee sono state definite aristocratiche, elitarie; non si tratta invero di aristocrazia politica, ma il rimando è all’etimo greco, si tratta di costruzione dello spirito, come aristos, migliore.

Per ritornare all’indicazione dei classici, l’uomo che ha sapore è in grado di dare sapore, cioè di comunicare il proprio sapere. E il sapere è possibilità di ordine e al tempo stesso di formazione al gusto, come costruzione armonica della personalità. 

Una biblioteca ben ordinata è divisa in settori disciplinari; ogni settore risponde ad un ordine che può essere il più vario: per autore, per acquisti, per ordine alfabetico, ecc. Il raccordo tra i diversi settori disciplinari avviene per mezzo di indicazioni che ne sottolineano l’appartenenza, quindi la diversità ma anche l’interconnessione. Una biblioteca ben ordinata rappresenta le scelte del proprietario, i suoi gusti, la storia della sua formazione, perché i suoi diversi proprietari l’hanno arricchita attraverso le opere da loro lette e amate. Per rimanere in questo esempio, “sapere” significa possedere un ordine del tipo che noi usiamo con la metafora della biblioteca. Ciò che noi conosciamo, le informazioni che abbiamo, devono poter essere collocate in una relazione, dominate, pensate, amate e stabilite anche in un rapporto interdisciplinare.

Una persona che pensa, ogni uomo degno di questo nome, prima di tutto si rende conto della propria ignoranza e dei propri limiti. Pensare all’interno di questa metafora significa rendersi conto di quanti libri mancano per completare la biblioteca, come essa sia inesauribile, e di come sia complicato collocare le informazioni. Si comprende quanto sia arduo il lavoro che investe l’intelletto ma anche il gusto, la capacità di scelta, le inclinazioni personali. Come la biblioteca sia frutto di una personalità intera, nel senso di integrata, dove tutte le facoltà partecipano alla costruzione del sapere.

L’eccesso di informazione o di erudizione crea l’illusione della conoscenza, crea la convinzione di saper sapere, quando invece genera confusione e ignoranza. In questa situazione l’attività critica si blocca in modo tanto più pericoloso in quanto l’individuo informato è indotto ad ignorare i propri limiti, crede in buona fede di pensare, di sapere, perché possiede molti libri, perché sa tutto!

Eppure non sa nulla, non è in grado di organizzare il suo sapere come in una biblioteca ben fornita e ben formata si fa; non ha sicuri criteri di giudizio, né stabilisce priorità. In un contesto di questo tipo viene accusata l’assimilazione ideologica dell’uomo con la macchina, eppure non si può dire che la tecnologia in sé sia colpevole o che la tecnica sia da accusare. Il progresso ci ha condotti ad una raffinatissima e quanto mai utile qualità e quantità di informazioni, che ha di conseguenza trascinato con sé notevoli possibilità analitiche. La cultura umanistica ne ha risentito sul piano metodologico, come mancanza di sintesi.

Sta a noi ricostituire sintesi pensate, dove sintesi è classicamente giudizio, relazione tra soggetto e oggetto, tra parola e vita.