Ci si rende conto ormai da più parti che per impostare correttamente il rapporto tra fede e ragione scientifica sia necessario rivisitare il rapporto tra scienza e filosofia. Se pensiamo infatti alla “questione galileiana”, questa è un esempio paradigmatico, anche se non certo l’unico, di rottura del rapporto tra scienza e filosofia, e non solo tra fede e scienza. In tempi più recenti, il problema si sta riproponendo nel dibattito sulla teoria del “Disegno Intelligente” come teoria scientifica alternativa al Neodarwinismo: una delle radici fondamentali della sterilità di questo dibattito è la povertà di concetti filosofici che spesso si trova in entrambi gli “schieramenti”: sia nei sostenitori del Disegno Intelligente, che mescolano scienze naturali e teologia, arrivando a concepire un Dio che agisce direttamente nella natura, sostituendosi alle cause fisiche, sia in coloro che, a partire da una interpretazione dogmatica e riduttiva del Neodarwinismo, arrivano a negare l’esistenza di un Creatore.
Vorrei tornare a suggerire che la crisi galileiana possa essere intesa non tanto, o non principalmente come rottura del rapporto tra fede e scienza (Galileo è uno scienziato credente), bensì come momento di distacco della scienza dalla filosofia come unico strumento razionale di approccio alla natura. È opportuno ricordare che uno dei fattori che ha contribuito alla genesi della crisi galileiana è la stretta relazione che esisteva all’epoca di Galileo tra teologia e cosmologia aristotelica. Questo fatto non appare strano se si considera che la filosofia aristotelica era considerata allora l’unica via di accesso razionale alla natura. Galileo si scaglia contro la fisica aristotelica, sia nello studio della meccanica terrestre (pensiamo alla sostituzione da parte di Galileo del concetto aristotelico di peso assoluto con quello di peso specifico) che in quello della meccanica celeste, rivendicando l’autonomia del metodo scientifico da quello filosofico, che Galileo esprime in modo particolarmente evidente nel concetto di prova o esperimento.
A distanza di quattro secoli siamo oggi in grado di valutare la questione del rapporto tra scienza, filosofia e teologia da una prospettiva diversa. Ad esempio, l’idea che ci viene da Galileo che tutta la Natura possa essere considerata scientificamente in termini di materia in moto, e quindi descritta in base alle equazioni della meccanica, appare oggi non più valida. In particolare, molti uomini di scienza hanno preso coscienza delle caratteristiche peculiari e quindi dei limiti posti alla conoscenza per mezzo del metodo scientifico: ad esempio la funzione d’onda dell’equazione di Schrödinger è meravigliosamente precisa, e permette di prevedere con grande accuratezza la struttura di piccoli atomi, le lunghezze di legami chimici, ma non prevede la possibilità che essa possa essere annullata dalla misurazione sperimentale.
Se diamo uno sguardo alla biologia, gli ultimi due secoli ci hanno portato a riconoscere l’impossibilità di descrivere i sistemi biologici per mezzo della chimica e della fisica deterministica, ed anche a riconoscere una più precisa definizione di caso, non come assenza di cause, bensì come effetto di cause contingenti, e quindi al riconoscimento del ruolo della contingenza nella Natura. Affermava il biologo Adolf Portmann: “Noi partiamo dall’idea che l’organismo ci si offra come una realtà fenomenica unitaria e che questa sua reale presenza superi fin da principio le nostre capacità di comprensione. Ogni ricerca va quindi condotta sullo sfondo di questa inattingibile presenza. Solo una siffatta idea dell’organismo può preservarci dall’errore, in cui la scienza tanto spesso è incorsa, di identificare il particolare settore indagato con la realtà nella sua interezza. Solo una concezione complessiva della realtà a noi ignota ci permette di intendere in tutta la loro ampiezza i rapporti degli esseri viventi tra loro e con il mondo inanimato”.
Non vi è dubbio che lungo tutto il Novecento abbiamo assistito ad un notevole allargamento del concetto di razionalità scientifica rispetto al paradigma classico di Galileo, Newton e Laplace. È possibile trovare, in alcuni tra i maggiori uomini di scienza contemporanei, un’aspirazione verso il tutto, il Ganzes auspicato da Karl Jaspers, quando scrive: “L’orientamento verso il tutto è denominato filosofico, motivo per il quale tutta la scienza è filosofica.”
Mi pare che sia dunque pienamente giustificata l’affermazione di Benedetto XVI, il cui contenuto è stato poi riproposto in numerose altre occasioni: “Ponendo la domanda intorno alla verità allarghiamo infatti l’orizzonte della nostra razionalità, iniziamo a liberare la ragione da quei limiti troppo angusti entro i quali essa viene confinata quando si considera razionale soltanto ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E proprio qui avviene l’incontro della ragione con la fede…” (Benedetto XVI, Discorso, 5 giugno 2006).
La realtà ci appare comprensibile e, allo stesso tempo, sempre al di là della nostra comprensione, ci sfugge sempre nella sua interezza. Quanto più avanziamo nella comprensione di un determinato fenomeno, tanto più emerge la complessità che è alla base del fenomeno. Ogni volta che qualche scienziato ha proclamato che ormai non c’era più nulla da scoprire in un determinato settore, puntualmente è arrivata una scoperta inattesa che l’ha contraddetto. Come non vedere in questo una traccia dell’essenza di Dio, che è colui che è totalmente trascendente? Quella che emerge non è l’immagine di un Dio che tappa i buchi della nostra conoscenza, che diventa sempre più piccolo man mano che la ragione conquista nuovi spazi. Anzi, l’immagine di Dio ne risulta rafforzata. Man mano che la ricerca conquista nuove mete, appaiono sempre nuove chiavi di lettura della natura, e viene spontaneo ricordarsi della definizione di “natura” data da Tommaso d’Aquino, come “ratio artis divinae indita rebus”. I capolavori dei grandi artisti si caratterizzano precisamente per la loro apertura, per le infinite chiavi di lettura che offrono al lettore.
Ora che non esiste più il problema di distinguere il metodo filosofico dal metodo scientifico, penso che ci sia la possibilità, anzi l’urgenza, di un ritorno ad una filosofia della natura, e che questo ritorno possa essere di beneficio per tutti: scienziati, filosofi e teologi. Ad esempio, nell’attuale dibattito sulla difesa della vita e la dignità dell’embrione, si sente sempre di più la mancanza di una riflessione previa, seria, sulla natura della vita, su quali siano le sue caratteristiche essenziali. In mancanza di questa riflessione, è inevitabile che il baricentro del dibattito si sposti verso una logica di schieramenti politici.
Nel recupero di una filosofia della natura, la filosofia – particolarmente una filosofia di ispirazione aristotelica a motivo del suo legame originario con l’osservazione, dalla quale lo Stagirita seppe poi elevarsi fino alla considerazione delle cause meta-empiriche – ci può aiutare come chiave di accesso, almeno per chiarire i termini del problema. Varrebbe la pena cercarne un’applicazione in alcuni problemi di frontiera, oggi acutamente sentiti dalla scienza contemporanea, come ad esempio il rapporto tra mente e materia, il rapporto tra oggettività e soggettività, il rapporto tra la prospettiva della terza persona, tipica delle scienze sperimentali, e quella della prima persona, tipica delle scienze umane. Vorrei anche sottolineare l’imponente e prezioso lavoro già fatto da Cornelio Fabro, che rappresenta una sintesi tra filosofia aristotelica, esistenzialismo cristiano e fenomenologia, lavoro che sarebbe da rivisitare e da valorizzare da parte di scienziati, filosofi e teologi.
Sono convinto che, tenendo presente i risultati delle scienze sperimentali, si possa arrivare ad una moderna “Filosofia della natura”, il cui punto di partenza coincide con il punto di arrivo delle scienze sperimentali, una filosofia capace di approfondire le conoscenze sperimentali secondo principi meta-empirici, fornendo alle scienze la loro giustificazione razionale, arrivando persino a stimolare i ricercatori ad affrontare nuove linee di ricerca fruttuose e rilevanti. Sono infatti pienamente convinto che le ricerche più avanzate ed innovative possano suggerire alla filosofia domande che non erano mai state poste prima, in quanto i tempi non erano ancora maturi, oppure che erano state poste sulla base di conoscenze scientifiche oggi superate. Ad esempio, la constatazione delle peculiari proprietà dei sistemi complessi – nei quali concetti quali il “caso”, la “contingenza” giocano un ruolo altrettanto essenzialequanto le “leggi” e le “condizioni iniziali” – oppure la straordinaria efficienza di macchine costruite dall’uomo sulla base dell’imitazione della natura, potrebbe essere in proposito un punto di partenza per un necessario approfondimento di ordine filosofico. Mi sembra che Karl Jaspers abbia ragione quando scrive: “Solo con la scienza, differenziandosi da essa e attraverso di essa, acquista la filosofia le sue possibilità più piene”.