Forse mai come ai nostri giorni i richiami del Magistero della Chiesa devono essere considerati non come rivolti ai soli credenti, ma come una seria interpellanza a tutti gli uomini e, in particolare agli uomini di scienza, agli intellettuali e quanti hanno maggiori responsabilità nella guida della comunità umana. La focalizzazione intorno alla “ragione” posta da Giovanni Paolo II prima (in particolar modo con l’enciclica Fides et ratio) e ora da Benedetto XVI (in numerose occasioni a partire dalla lezione di Ratisbona), come unica possibilità di confronto e dialogo tra persone, popoli, religioni e culture, riguarda insieme la fede e la scienza, e ciò non solo a un livello teorico, speculativo, ma ormai anche a quello pratico e addirittura della vita quotidiana. Dalla risposta alle due domande “che cos’è la verità?” e “su quali principi si fondano i diritti dell’uomo e la legislazione?” dipendono l’organizzazione della vita civile interna alle nazioni e i loro mutui rapporti. Le due grandi questioni fondamentali comuni a tutti – anche se ancora non molti sono pronti a riconoscerle e a decidere di affrontarle, ma verosimilmente sarà solo questione di tempo – sono quella della “verità” e quella della “legge naturale”: l’adoperarsi a che «la verità possa tornare ad essere “scientifica”» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, p. 201) e «il riconoscimento e il rispetto della legge naturale […] costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti» (Benedetto XVI, “Messaggio per la giornata mondiale della pace”, 1 gennaio 2007, n. 3).
Oggi ci troviamo decisamente di fronte ad una sorta di convergenza di due vie, l’una di tipo eminentemente pratico, culturale, etico-sociale e l’altra di tipo teorico, speculativo, che ormai sempre più insistentemente si aprono verso mete di carattere oggettivo, lasciandosi alle spalle i “ruderi” dell’opportunismo individuale o collettivo (sul piano pratico) e del soggettivismo e relativismo (sul piano teoretico) la cui “coda”, a ritardo, è ancora dominante negli eventi non positivi della storia.
La via pratica, empirica o esperienziale è legata alla sempre maggiore evidenza constatabile della difficoltà, per non dire impossibilità, sia per le persone che per le comunità umane, per le città e le nazioni di vivere e comunicare “senza regole di comportamento oggettive” e senza “verità oggettive”, riconoscibili da tutti gli uomini e da tutti i popoli. La lucidità con cui il Magistero della Chiesa si trova a proporre la questione della “legge naturale” e della “verità” come ineludibili “sulla terra” e “per tutti” – e non come domande opzionali che riguarderebbero solo chi crede – fatica a farsi strada più per un attaccamento al passato e a forme mentali e ideologiche acquisite che a motivi esperienzialmente e razionalmente fondati. E la problematica pratica si collega a quella conoscitiva con una sorta di legame che permette di risalire come da un effetto alla possibile causa. Il risanamento della ragione (teorica e pratica) si presenta allora come una condizione necessaria (anche se evidentemente non sufficiente) ad orientare la libertà umana al bene.
Può apparire sorprendente e inatteso il fatto che tale urgenza – che oggi avvertiamo come pratica – di recupero di fondamenti oggettivi, abbia riscontro anche ai livelli più astratti e speculativi dei fondamenti delle scienze, come addirittura quello dei fondamenti della matematica, che si incontrano con domande che non sono solo di ordine logico, ma anche metafisico. In una interessante conferenza del 1951 (i grandi anticipano sempre i tempi!) Kurt Gödel si esprimeva così: «L’indagine sui fondamenti della matematica negli ultimi decenni ha fornito alcuni risultati che sono a mio giudizio interessanti non solo di per sé, ma anche in considerazione delle conseguenze che hanno sui tradizionali problemi filosofici che concernono la natura della matematica» (K. Gödel, Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 268) e – io aggiungerei – non solo di essa, ma della logica in quanto tale e dell’ontologia. Si tratta di problemi che, in diversi casi, proprio «grazie all’opera di vari matematici […] hanno assunto una forma molto più soddisfacente di quella che avevano avuto in origine» (ibidem). E questa messa a punto più precisa è frutto di un sistematico lavoro di formalizzazione dell’ontologia che oggi ci attende. «Per quel che concerne le conseguenze filosofiche dei risultati […] io non credo che siano mai state discusse adeguatamente, o semplicemente notate» (ibidem). In particolare egli si riferisce non a teorie nell’ambito delle quali si può affermare «soltanto la verità condizionale» delle affermazioni, ma «a quel nucleo di proposizioni matematiche che sono valide in senso assoluto, senza alcuna ipotesi ulteriore. Proposizioni cosiffatte devono esistere [sic!], perché altrimenti non esisterebbero neppure i teoremi ipotetici» (ibidem, pp. 268-269), perché non sarebbe neppure possibile formularli in maniera comprensibile e comunicabile. Si tratta di proposizioni la cui «verità» è «indipendente dalla posizione assunta» (ibidem, p. 275). Si tratta di mettere a fuoco «qualche tipo di teoria ancora da scoprire, [che] andrà certamente molto più lontano» (ibidem, 271) della matematica e della logiche finora elaborate.
Gödel, come del resto in tempi più recenti, ad esempio René Thom, Roger Penrose e altri scienziati ancora, sono alla ricerca di un realismo oggettivo, di tipo conoscitivo e metafisico. Per questo gli scienziati che si occupano del problema dei fondamenti si orientano alla filosofia e alla metafisica antica (Platone, Aristotele e i medioevali) alla ricerca di un punto di incontro. Personalmente ritengo (e l’ho sostenuto in più occasioni) estremamente proficuo riprendere in mano seriamente un autore come Tommaso d’Aquino nella logica, nella metafisica (come allora veniva chiamata la teoria dei fondamenti) e nella teoria cognitiva del quale si trovano elementi di grande rilievo per le scienze odierne. Si tratta di fare incontrare i linguaggi di allora con quelli di oggi, di mettere a punto una formalizzazione che ampli i formalismi odierni giungendo a dimostrazioni per noi oggi scientifiche e a principi fondanti che possiamo riconoscere come oggettivi in quanto irrinunciabili. La scienza di oggi, come del resto anche la scienza della fede, la teologia, hanno ormai necessità di una simile opera di elaborazione e non possono più limitarsi a “vivere di rendita”. Anche il DISF, con il suo lavoro, intende favorire questa sensibilità e questa opera culturale.