A motivo del presunto appello che ne farebbero le scienze naturali, specie in merito al tema dell’evoluzione biologica e della lotta per la sopravvivenza, la riflessione sul male e sulla sofferenza sembra stia riacquistando oggi una maggiore attualità. Può essere pertanto opportuno offrire qualche riflessione in proposito, dalla prospettiva della filosofia.
Il concetto di male non è univoco, ma polisemico, relativo a una serie di considerazioni, che debbono predefinire il contesto in cui i concetti di bene e di male sono compresi e collocati. Ne risulta necessaria una predeterminazione metafisica, in particolare la discussione del concetto di libertà, riferito all’uomo, pur senza dimenticare, che questi, considerato in sé, resta un mistero. Hegel ricorda che “l’idea della libertà è venuta nel mondo ad opera del Cristianesimo, per il quale l’individuo come tale ha valore infinito ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito e far si che questo spirito dimori in lui, cioè l’uomo è in sè destinato alla somma libertà”.
Quale relazione c’è tra il concetto di libertà e di male? Il male non è legato solo alla trasgressione, alla disobbedienza, ad una legge o norma, ma sembra strutturale rispetto alla natura umana. L’uomo è una realtà complessa, intreccio di finitudine e di colpa, desiderio di bellezza e verità infinita ed insieme passione e violenza in un amore ripiegato su se stesso, per cui non è facile individuare il male nella sua realtà oggettiva.
Paul Ricoeur nel suo lavoro: Le mal. Un defi à la philosophie et à la theologie, (Ginevra 1986), scrive che il male è una sfida senza paragone per la filosofia e la teologia. Theodor Adorno nella Dialettica Negativa (Torino 1966), scrive: “Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura […]. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza”.
Dal male fisico al male morale, alla violenza esercitata dall’uomo sull’uomo emerge uno scandalo, che turba le coscienze più avvertite, ma che lascia indifferenti i fruitori dei mass-media abituati dalla cronaca a ogni genere di aberrazione. Ricordiamo Nietzsche, che nel Frammento 154 dell’Autunno 1887 (a cura di Colli – Montinari, Milano 1975, p. 289) afferma: “Tutta l’interpretazione morale-religiosa, non è altro che una forma di sottomissione al male”.
Alle radici della nostra cultura si trova senza dubbio il mondo greco: che tipo di male questo contesto storico-filosofico conobbe? Euripide nelle Supplici si chiede: “Chi sa, se la vita non è morte e la morte vita per quelli di sotterra”. E il poeta Pindaro incalza: “L’uomo è il sogno di un’ombra”. Teognide di Megara: “Di tutti i beni il più augurabile per gli abitanti della terra è quello di non essere nati, di non aver mai visto i raggi splendenti del sole; oppure, quando si sia nati, di varcare al più presto le porte dell’Ade, di riposare profondamente sepolti sotto la terra”.
Il male si configurava per il poeta greco nella fatalità della moira, del Fato. Gli dei erano indifferenti, crudeli e il rapporto con la divinità era vissuto dagli uomini con profonda ambivalenza. Il peccato non è presente nel mondo greco, se non come elemento mitologico, legato al destino, contro il quale, neppure gli Dei possono qualcosa, dove non esiste una coscienza che vive nella contraddizione. L’uomo greco sperimenta la hybris, come uscita dal mondo umano, in realtà drammatiche, come l’incesto, il sacrificio umano, la disperazione contro forze invincibili e necessitanti, dove la sofferenza non redime.
Tutto ciò, di fatto, non accade nel mondo cristiano.
Nel suo lavoro Saggezza greca e paradosso cristiano (Brescia 2003), Charles Moeller esamina la reazione al male propria della mentalità greca e la confronta con la sensibilità cristiana, indagandone la diversa connotazione. Egli osserva che solo la coscienza cristiana ha una vera e propria attenzione per il tema del male, che esige la fede e la giustificazione della sofferenza. Fra gli autori non credenti, Charles Moeller ricorda William Shakespeare, che nel Macbeth coglie la disperazione chiusa e cupa dell’omicida, non consapevole di un potere superiore e trascendente. Le sue parole sono: a life is a tale, told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing; ovvero: la vita è un racconto, narrato da un idiota, pieno di rumore e di furore, che non significa nulla.
Questo non accade nel cristiano Dostoevskij, che descrive un eroe in cui è presente la necessità, ma anche il senso della responsabilità e del peccato, consapevole come è della propria colpa. Egli ha tradito se stesso e soprattutto l’altro, il suo prossimo, per cui il peso del male grava sull’uomo e sull’innocente. Questa presenza del male non trova giustificazioni o spiegazioni di tipo sociologico o psicologico – in questo senso la psicoanalisi potrebbe aiutare lo studio della sensibilità greca o di quella shakespeariana, ma non di quella cristiana.
La teologia più che parlare di male morale, parla di peccato capitale, come forma di violenza dell’uomo su di sè e sugli altri, riconoscendone l’aspetto ossessivo, chiuso e istintuale. Nel film Arancia meccanica del regista Stanley Kubrick, una statuetta rappresenta nella metà superiore il Cristo Crocefisso, in quella inferiore Zarathustra che danza, a significare la contraddizione presente nell’uomo, la capacità di sublime altezza e di follia libidica.
Filosofia e teologia ci insegnano che l’uomo è capace di oltrepassare i limiti della creatura non solo nella affermazione dello spirituale, ma anche nella degenerazione. L’uomo è un essere che sta tra l’animale e Dio, è prometeico nel suo tentativo perenne di gareggiare con la divinità. Il male nasce da qui, fin dall’origine, dal giardino dell’Eden in cui si consuma il primo dramma della Storia della Redenzione.
Nella Modernità liquida Zigmunt Baumann sottolinea come le categorie del bene e del male oggi non siano individuate, ma prendano forma dal “recipiente”, che le contiene, entro un assoluto relativismo. La modernità ha cancellato la differenza tra spontaneità e la libertà con conseguenze gravi anche a livello psicologico, non solo morale, perché certi disturbi sono generati da una assenza di identità. L’identità dell’uomo non si costruisce senza forme, cioè senza modelli e disciplina, dove il problema del male è il mistero di una mancata compattezza della persona, di un sicuro riferimento all’origine: non è l’uomo padrone della sua origine né del bene e del male. Dostoevskij esprime bene l’assenza di una forma, la confusione dei suoi eroi che non sanno il perché del loro tragico agire in una dispersione cieca che li spinge di errore in errore.
Da Tommaso d’Aquino giunge un’interpretazione equilibrata della struttura del male. Buono in senso assoluto è solo l’Essere pienamente in atto, totalità di essenza e di esistenza. L’atto di essere, per cui gli esseri limitati sono, è il venire all’esistenza di ogni forma o natura, di ogni ente. Questa attualità che pone l’essere di ogni forma o natura sta all’essenza come l’atto sta alla potenza, per cui la limitatezza di ogni essere determinato non rende ragione dell’Essere che lo costituisce. L’Essere considerato assolutamente è al di là degli enti, ma può essere partecipato da tutti gli enti creati in tutti i possibili modi, perché l’esistenza dell’ente finito è attuata da Dio. Ogni essere finito è dunque creato; la causa essendi, il creatore di ogni realtà, è Dio. D’altra parte gli esseri finiti ricevono l’atto di essere partecipando in misura parziale e imperfetta, secondo i limiti della propria natura, della Sorgente dell’Essere. La finitezza degli enti creati non è male in sé, ma è la condizione, la possibilità dell’imperfezione. L’esistenza della creatura implica potenzialità, che opera sì con libertà, ma libertà finita, secondo le leggi del mondo creato.
A questo punto emerge un nodo teoretico: il Creatore non è una causa immanente rispetto agli effetti. Non vale la posizione spinoziana: Deus sive natura. Rispetto alla natura Dio è infinito, la natura è finita. Dio non appartiene alla stessa specie degli effetti che non gli potranno mai somigliare cioè godere della stessa essenza, ma solo somigliare secondo una certa analogia. Dio è buono per essenza, la creatura per partecipazione. Qui sta il fraintendimento di Nietzsche e di Heidegger nei confronti del dettato tomistico, dove il finito viene inteso, come se per Tommaso fosse la degradazione dell’Infinito. Per Tommaso invece la partecipazione creaturale implica una somiglianza al Sommo Bene, ma anche una distanza, essendo il bene creato finito. La creatura umana, non costituendo in nessun caso la totalità del bene, mancherà della totalità di tutte le dimensioni che appartengono al Bene in assoluto. Nel finito, quindi, il bene finito non è tutto il bene. Di qui il male.
Anche nella natura, dunque, possiamo accedere alla nozione di male dalla prospettiva del bene, quel bene che è il dono dell’essere creato, riconoscendolo come manifestazione della finitezza creaturale. Il “male in sé”, come tanto a lungo rifletté e insegnò sant’Agostino non esiste: la comprensione del male può avvenire solo da una prospettiva che non sia il male stesso. E questo vale anche per quello che nella natura non umana, a torto o a ragione, vogliamo chiamare male e sofferenza.