Dio e le leggi di natura. Perché gli scienziati ne parlano ancora.

Giuseppe Tanzella-Nitti
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - Pontificia Università della Santa Croce

Chi si accosta alla storia della scienza riconosce facilmente che il tema delle leggi di natura ha rappresentato uno degli snodi centrali del dibattito fra scienze naturali e teologia per buona parte del 1600 e per tutto il 1700. Conoscerà invece una battuta d’arresto a partire dall’Ottocento, prima a motivo del quadro materialista o naturalista entro cui veniva letta l’autonomia della natura, con le sue leggi autosufficienti, poi per la critica mossa, soprattutto nel Novecento, allo status epistemologico delle stesse leggi scientifiche. Da un paio di decadi, come si può evincere esaminando la letteratura di divulgazione scientifica, la situazione ha subito un nuovo interessante cambiamento. Lo confermano eventi come quello al quale abbiamo avuto occasione di partecipare recentemente, una settimana di studi conclusasi il 1 giugno scorso a Venezia intitolata, appunto God and the Laws of Nature.

A parlarne, ancora una volta, non sono stati solo dei filosofi, ma soprattutto degli uomini impegnati nell’attività sperimentale delle scienze naturali, affiancati da un gruppetto di storici. Presente anche qualche teologo (fra cui il sottoscritto) in controtendenza rispetto ad un milieu generale che vorrebbe già morta da tempo la teologia naturale ed interrotto ogni possibile itinerario che dal mondo creato possa condurre alle porte dell’esistenza di un Creatore. Eppure, dal mondo dei fatti, come dimostrano le giornate di Venezia, ci si può interrogare anche sul mondo dei significati. La loro domanda emerge con forza, sebbene dal piano della sola analisi empirica non può giungerne una risposta. Paul Davies, dalla sua esperienza di fisico, ma anche di studioso attento alla biologia e ai processi evolutivi del cosmo nel suo insieme, ripete con chiarezza che nel nostro universo non ci sono solo fatti bruti, ma siamo in presenza di meaning, di un significato. Non sappiamo nulla da dove esso provenga, come esso sia eventualmente emerso durante la storia del cosmo, eppure lo riconosciamo: nel fine tuning delle costanti di natura, nella complessa codifica nei processi biologici, nei comportamenti stabili e legali della materia manifestati, appunto, dalle sue leggi.

Tutti i partecipanti alle giornate veneziane concordano sul fatto che per la prima volta, nella storia della scienza, siamo di fronte ad una evidenza, recata dal medesimo metodo scientifico, che la materia, così come abbiamo cominciato a considerarla dall’Ottocento, e che nel Novecento abbiamo progressivamente saputo indicare come massa, energia, spazio-tempo, energia del vuoto quantistico, o altre specificazioni ancora, non è più sufficiente, da sola, a spiegare di cosa sia fatto l’universo. C’è bisogno di qualcos’altro. E gli scienziati cominciano a chiamare questo qualcos’altro “informazione”. L’universo è fatto anche di informazione, da qualcosa che non è materia ma dice alla materia (con tutte le sue specificazioni prima delineate) cosa essa deve o può fare. Il cambiamento di prospettiva non può essere sottostimato e sarà destinato ad assumere nei prossimi decenni un crescente sviluppo. Ne è convinto John Polkinghorne, che durante le sessioni del Convegno ha in più occasioni messo in luce come la riflessione sull’origine dell’informazione è un nuovo importante terreno di dialogo fra scienze naturali, filosofia e teologia. E lo fa dal suo punto di vista esplicito, quello di un bottom-up thinker, come ama definirsi, ovvero un pensatore che senza tradire la sua formazione e la sua vocazione di scienziato, abituato a partire dal basso, dalla natura delle cose, riconosce che è possibile, proprio partendo da lì, porsi domande che trascendono la natura stessa, e dunque si muovono verso l’alto.

Noi aggiungiamo volentieri che il dibattito settecentesco su quale fosse il collegamento fra le leggi di natura e l’eventuale esistenza di un Legislatore, che diede origine alla teologia naturale anglosassone — un movimento originatosi nell’apologetica anglicana ma capace di raccogliere significativi consensi nell’ambiente scientifico dell’epoca — si presenta oggi con una veste nuova. La domanda non è più se esista o meno un Legislatore e se questi sia conoscibile a partire dalla natura, bensì: “da dove viene l’informazione”? E le risposte, riteniamo, sono oggi tre. L’informazione è presente nella materia come una sorta di codice cosmico, totalmente immanente alla materia stessa, ma in grado di “organizzarla” o almeno di mostrarcela organizzabile, per motivi che ci sono ignoti; l’informazione che noi osserviamo è solo un effetto di selezione: il nostro universo è casualmente uno dei tanti che esisterebbero, tutti caotici e senza leggi, mentre l’unico nel quale potevano fiorire osservatori intelligenti era proprio quello che, appunto casualmente, risultava “meglio informato” di tutti gli altri, nel quale noi osserviamo leggi di natura e informazione associata alla materia. O, infine, il cosmo fisico è riflesso di un qualche logos (potremmo mettervi la maiuscola, se lo preferiamo) che è la causa dell’informazione in esso contenuta, un logos che trascende l’universo e il piano della sua analisi empirica.

Se il filosofo e il teologo, come ci auguriamo, riescono ad essere presenti con competenza, senza ingenuità ma anche con grande apertura, in un contesto concettuale come quello appena schizzato, è facile capire quali vantaggi ne deriverebbero per tutti, scienziati compresi. Una nozione di grande respiro filosofico come quella di “forma”, o di causa formale come proposto dalla sistematica aristotelica poi recuperata e perfezionata da Tommaso d’Aquino, troverebbe qui un’applicazione di estremo interesse. E nozioni come quella di “logos” o di “intelligibilità” del reale, non possono non trovare risonanze nella riflessione teologica che da sempre ci ha insegnato, con solido fondamento biblico, come “in principio era il Logos”. Il tema è delicato. Il rischio di sincretismi o di sintesi affrettate prive di un sufficiente rigore epistemologico non è trascurabile, e dunque mantenere canoni di prudenza nel lavoro interdisciplinare è importante. Ma la possibilità di venire incontro alle domande degli scienziati con proposte filosofico-teologiche adeguate è altrettanto importante e, in certo modo, oseremmo dire è un compito necessario. Basteranno i numerosi riferimenti di Benedetto XVI alla possibilità di riconoscere un Logos creatore partendo dal creato, a stimolare una parte della teologia contemporanea a lavorare anche in questa direzione? Ce lo auguriamo.

 

Per approfondire:

A. Einstein, Lettera a Maurice Solovine, 30 marzo 1952

G. Tanzella-Nitti, Leggi naturali (dalle voci del DISF)