Gli anniversari legati all’anno 2009 stanno contribuendo ad allargare il dibattito sul rapporto fra scienze e cristianesimo, più in generale fra scienze e religione, proprio a motivo delle vicende e dei temi che i due personaggi di cui ricorrono anniversari, Galileo e Darwin, evocano facilmente. Eppure, a ben vedere, uno dei gli aspetti assunti dal dibattito non riguarda tanto il presunto contrasto fra la razionalità delle scienze ed alcuni contenuti della fede religiosa quanto, piuttosto, il rimprovero, rivolto con una certa insistenza alla Chiesa in questi ultimi anni, di occuparsi troppo della ragione e poco dello spirito. Formulato da chi considera la fede il luogo dell’irrazionalità, il rimprovero suona paradossale. Formulato da chi crede, il rimprovero si presta a diverse letture, su cui voglio brevemente soffermarmi. Può essere letto “in positivo” come espressione della volontà di salvaguardare la fede dalle commistioni, e dalle compromissioni, col mondo. Può anche essere letto come manifestazione di quell’atteggiamento remissivo, tipico di chi in qualche modo è disposto a sacrificare la razionalità per la spiritualità. È frequente, in vari autori, incontrare quello che definirei il “paradigma della separazione” tra la fede (trascendente) e la realtà mondana (immanente): la distinzione netta tra la sfera della costruzione terrena della vita umana e il piano delle fedi (della fede) come condizione necessaria se non per la rinascita, quantomeno per la conservazione della fede. Per quanto mi riguarda, in maniera volutamente provocatoria, ritengo che il cristianesimo non possa non essere “materialista” e “razionalista”. La fede si mescola in modo inestricabile con le realtà e le vicende del mondo, senza l’illusione di sistematizzazioni definitive (il metodo e la pratica scientifici, oltre che la storia, ci insegnano a non confondere le congetture con i teoremi, i desideri con la realtà), ma anche senza rinunciare allo sforzo di comprensione e, per quanto possibile, di composizione, nel rispetto delle doverose distinzioni.
Ritengo che la società contemporanea sia caratterizzata da un deficit di natura culturale che le impedisce di cogliere la valenza filosofica/sapienziale delle acquisizioni fondamentali delle diverse discipline scientifiche, in particolare della fisica, della matematica, dell’informatica e della biologia. Esse non fanno parte delle conoscenze condivise a livello di società e di Chiesa, ma anche di istituzioni culturali, università inclusa. Questo deficit culturale si manifesta in molteplici modi. In particolare, è all’origine delle semplificazioni, dei cortocircuiti e delle letture ideologiche (in varie direzioni, come testimonia il tema dell’evoluzionismo richiamato anche in altri interventi) che caratterizzano molti discorsi sulla scienza, sui metodi delle diverse discipline scientifiche e sulla natura, sul significato e sulla portata delle conoscenze scientifiche. A questo riguardo rilevo un paradosso assai istruttivo: a fronte di sondaggi demoscopici che rivelano una grandissima fiducia (“fede”) nella scienza, da anni si registra una sensibile diminuzione delle iscrizioni alle facoltà scientifiche. Ne segue che molti di coloro che nutrono estrema fiducia nella scienza, in verità la conoscono soltanto dall’esterno, attraverso mediazioni spesso inadeguate. La mancata assimilazione di risultati fondamentali della scienza priva la cultura contemporanea di una riflessione comune su temi e problematiche di estremo interesse. Faccio solo un paio di esempi, uno riguarda la potenza e i limiti dell’intelligenza algoritmica (la cosiddetta intelligenza artificiale), l’altra i rapporti tra uomo e macchina alla luce dei recenti sviluppi della ricerca nell’ambito della robotica e della bionica.
Come è noto, a Gödel, Turing e Church dobbiamo la scoperta di problemi indecidibili nell’ambito della (logica) matematica e dell’informatica. Si badi bene, non problemi astrusi, privi di interesse pratico, ma problemi fondamentali. Gödel ha dimostrato che all'interno di ogni sistema formale contenente l'aritmetica esistono proposizioni che il sistema non riesce a decidere, non riesce, cioè, a dare una dimostrazione né di esse né della loro negazione. Inoltre, fra le proposizioni che un tale sistema non riesce a dimostrare c'è anche quella che, in termini numerici, esprime la non-contraddittorietà del sistema. Un altro esempio di problema indecidibile è l'Entscheidungsproblem (o problema della decisione), posto dal famoso matematico Hilbert. Questi cercava un algoritmo che, data una formula della logica del primo ordine, fosse in grado di determinare se essa era o meno valida. L'indecidibilità del problema fu dimostrata contemporaneamente da Turing e da Church negli anni ‘30 del secolo scorso. In particolare, Turing dimostrò che il problema di stabilire, dati un qualsiasi programma e un suo possibile input, se l'esecuzione di tale programma sullo specifico input termina o meno, è indecidibile (problema della terminazione). La distinzione tra problemi decidibili e indecidibili non esaurisce il discorso. Da un lato esiste una sofisticata gerarchia di problemi indecidibili basata sul loro “livello di indecidibilità”, dall’altro esistono numerosi problemi teoricamente decidibili che sono troppo complessi per poter essere praticamente risolti (problemi decidibili, ma intrattabili).
Questi risultati, che coinvolgono in modo essenziale i rapporti tra la nozione di verità e la nozione di calcolabilità, non fanno parte della cultura comune. Essi sollevano diverse questioni di natura filosofica estremamente interessanti. Ne cito due soltanto, tra loro collegate. La prima: qual è il rapporto tra l’intelligenza umana e l’intelligenza algoritmica? L’intelligenza umana si riduce all’intelligenza algoritmica? Vi è chi afferma, come il famoso informatico Harel, che “i limiti della computazione sono anche i limiti della conoscenza” in quanto “ciò che sappiamo computare è ciò che sappiamo ricavare con procedure ben definite passo dopo passo da ciò che già sappiamo”. L'argomento, però, risente di una certa circolarità: come abbiamo ricavato ciò che già sappiamo? Tale osservazione ci introduce alla seconda questione: come possiamo giustificare la scelta di un certo insieme di postulati/assiomi/principi rispetto ad un altro? Quali sono i criteri per valutare la ragionevolezza o meno delle diverse possibili scelte? Sono questioni che emergono all’interno della matematica e dell’informatica, ma hanno chiaramente un rilievo filosofico.
Un altro esempio, di estrema attualità, riguarda il rapporto tra l’uomo e la macchina così come viene configurandosi sulla base degli ultimi risultati ottenuti nell’ambito della robotica e della bionica. La robotica si occupa delle teorie e delle tecniche per la costruzione e l’utilizzo dei robot, la bionica va oltre e guarda all’uomo e alla macchina come ad un sistema integrato. Da modalità di interazione non invasive tra uomo e macchina, ad esempio, il caso di sistemi autonomi da impiegare in ambienti popolati da esseri umani, si va verso modalità di interazione invasive, ad esempio, modalità che richiedono l’impianto chirurgico di elettrodi. Tali scenari, non futuribili, ma prossimi (esistono già significativi risultati sperimentali), pongono questioni filosofiche estremamente interessanti, che riprendono problemi classici, quali i rapporti tra il naturale e l’artificiale e tra il reale e il virtuale, declinati, però, in un contesto del tutto originale. Ad esempio, qual è la responsabilità dell’uomo rispetto alle azioni intraprese da un gruppo decisionale e operativo composto da uomini e macchine (robotica)? Oppure, come garantire l’identità e la dignità dell’uomo a fronte di interventi invasivi che vanno in qualche modo ad incidere sulle sue caratteristiche e/o funzionalità (bionica)?
Una riflessione su queste nuove frontiere evidenzia la necessità di un lavoro interdisciplinare, che coinvolga scienziati, filosofi e teologi, per la definizione di quello che a me piace definire un vocabolario filosofico delle diverse discipline scientifiche. Un tale vocabolario oggi non esiste. Personalmente, ritengo che esso consentirebbe di mettere a fuoco in modo corretto molte questioni. La situazione non è particolarmente rosea. La filosofia di molti scienziati è poca cosa (la tentazione di una filosofia fai-da-te è una malattia assai diffusa fra i fisici, che colpisce alle volte anche altre categorie di scienziati) e molti filosofi fanno filosofia “a prescindere” da un secolo di conquiste scientifiche che hanno cambiato la nostra immagine del (e il nostro rapporto col) mondo. Per quanto riguarda specificamente la Chiesa, credo sia importante passare da un atteggiamento “difensivo” (di reazione) ad un atteggiamento propositivo che pone le questioni e delinea dei percorsi possibili. Ad esempio, quello attinente il rapporto tra naturale e artificiale nella robotica e nella bionica è un ambito completamente aperto che sarebbe bene cominciare ad esplorare da subito.
Mi auguro che, prendendo spunto dai presunti conflitti fra scienza e fede, il dibattito che il 2009 può instaurare serva piuttosto a mostrare la necessità di un lavoro sereno, storico, filosofico, interdisciplinare. Esistono temi tropo complessi e argomenti esistenzialmente troppo rilevanti perché una disciplina si proponga come criterio esaustivo di razionalità. Il primo passo è sapersi ascoltare gli uni gli altri, ovvero ascoltare l’uno le ragioni dell’altro, perché queste ragioni esistono tanto nelle scienze come nella fede.
Una versione preliminare di questo testo è stata offerta come contributo all’VIII Forum del Progetto Culturale, La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà (EDB, Bologna 2008)