Già Platone (V-IV sec. a.C.), ben prima del Cristianesimo, era arrivato alla conclusione che ad alcune “questioni fondamentali”, sulla vita e sulla realtà, non si riescono a dare risposte dimostrative, scientifiche, con la sola ragione umana, pur sapendone dare di valide in vari altri ambiti, e che sarebbe stata auspicabile una “rivelazione” da parte di Dio per poter decidere intorno alla loro verità o meno.
Oggi diremmo che alcune affermazioni che pur sono vere, non sono “dedicibili” (cioè dimostrabili come vere) con i soli strumenti della ragione e della scienza.
«Mi sembra, Socrate – dice Platone – e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d’altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell’uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c’è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l’opinione degli uomini, la migliore s’intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina» [Fedone, XXXV].
Ma dal punto di vista scientifico è possibile una rivelazione?
È razionale anche solo ammetterne la possibilità logica, o è un’assurdità che uno scienziato non deve accettare? Perché una rivelazione sia al contempo “ammissibile”, “comprensibile” ed effettivamente apportatrice di “nuova informazione”, occorre – da un punto di vista logico – che il nostro pensiero, il linguaggio umano, possa formulare al suo interno anche delle proposizioni vere, della cui verità non può decidere con i suoi soli metodi di dimostrazione, delle proposizioni “vere indecidibili”. Per cui la loro verità può essere decisa solo sulla base dell’esperienza extramentale o se viene rivelata dall’esterno del “sistema linguaggio umano”. Dimostrare l’incompletezza del linguaggio umano significa dimostrare che esso è in grado di esprimere proposizioni vere la cui verità può essere solo svelata dall’esterno, e che addirittura potrebbero non essere mai state concepite e formulate da nessun uomo prima di essere state rivelate.
Circa ventiquattro secoli dopo Platone, Kurt Gödel (1906-1978) ci ha dato una indicazione interessante in tal senso, raggiunta in un contesto apparentemente molto lontano da tutto ciò, come’è la matematica:
«La proposizione che risulta indecidibile nel sistema PM [Principia Mathematica] viene tuttavia decisa grazie a considerazioni di altra natura metamatematica» [K. Gödel, Opere, vol. 1, p. 116].
Per cui, dice ancora Gödel: «Serviranno sempre alcuni metodi di dimostrazione che trascendono il sistema» [K. Gödel, Opere, vol. 3, p. 29].
Dunque un linguaggio incompleto, come quello umano, consente di formulare più enunciati veri di quelli che si possono dimostrare tali al suo interno e questa sua capacità espressiva può essere dimostrata. E quindi la verità di tali enunciati non può essere stabilita all’interno del sistema ma può essere solo aggiunta dall’esterno e accettata come un nuovo assioma che non è frutto di convenzione umana. Questo risultato è di importanza capitale per le conseguenze che comporta anche sul piano teologico, in quanto rappresenta la condizione logica perché possa darsi una “rivelazione” che comunica degli enunciati non dimostrabili, ma esprimibili e dotati di senso all’interno del linguaggio umano (revelatum per se, secondo la dizione di Tommaso d’Aquino), oltre eventualmente ad altri enunciati che in esso potrebbero, invece, essere dimostrati (revelatum per accidens). La nostra logica scientifica si dimostra così in grado di riconoscere che lo stesso parlare in parabole di Gesù, può legittimamente risultare determinante per la decidibilità di alcune questioni fondamentali dell’esistenza.
Tra queste verità di cui il nostro linguaggio può essere in grado di parlare – se pur per analogia – per esempio, vi è quella che esprime la natura dell’unico Dio in tre persone, la Trinità. Così Dio ha potuto rivelare agli uomini, impiegando il linguaggio umano la sua triplice personalità: di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.
La ragionevolezza della fede è, dunque, “scientifica”. Dopo di che non è irrazionale riconoscere nell’esperienza cristiana il vero compimento della ragione, anzi è la piena razionalità. Per cui difficilmente chi sa servirsi correttamente e fino in fondo della ragione, riesce a resistere all’attrattiva della fede.
«La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede» [Giovanni Paolo II, lettera enciclica Fides et ratio, n. 20]
Compiuto il passo della fede, la ragione può elaborare anche una scienza che descrive e trae dimostrazioni a partire dal dato rivelato e dalle sue proprie conoscenze: è la teologia.
«La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell’economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e universalmente comunicabile» [Fides et ratio, n. 66]
Ma oltre a rivelare dei contenuti, che cosa suggerisce all’uomo la fede in Dio, che si rivela in Gesù Cristo, Verbo fatto uomo, raggiungendolo nella Chiesa; che cosa gli fa comprendere come assolutamente ragionevole?
Gli suggerisce la preghiera e l’adorazione del Dio che si rivela. Il filosofo, lo scienziato, trasformato in credente, è divenuto uomo religioso, impara ad adorare e a pregare e vuole la Presenza reale del Signore per sé. L’Eucaristia e la dimensione sacramentale della Chiesa, sono il luogo della Sua Presenza reale:
«La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» [Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 1].
Ciò che è offerto alla conoscenza, mediante la fede, può essere visto anche dal punto di vista della volontà, dell’affettività: allora lo si coglie come “il Bene”: è la Salvezza. E la Verità e il Bene, l’Intelletto e l’Amore, coincidono; verità e amore sono inseparabili e non possono essere mai contrapposti. In Cristo è come se Dio dicesse ad ogni essere creato, e in particolare ad ogni uomo: «Come è bene che tu ci sia!» e quanti aderiscono alla fede Gli rispondesse e dicesse ai suoi simili: «Come è bene che tu ci sia!» (è la communio, la caritas cristiana).
In tal senso un lavoro interdisciplinare di ispirazione cristiananon è solo un “impegno culturale” (cosa per altro in sé degna di apprezzamento), né una “curiosità filosofica” (pur bella oltre che legittima), quanto piuttosto un “compito”, quasi una “vocazione” che fa parte integrante della missione della Chiesa e, insieme, della maturazione personale di chi vi prende parte fattivamente. Il compito quasi “mariano” di concepire e far nascere la Verità, che è Cristo stesso, nella ragione, nella scienza e nella cultura dei nostri giorni.