Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt, 5,8). Essendo un medico desidero esaminare questa affermazione di Gesù dal punto di vista biologico, cioè da un punto di vista di solito non considerato parlando del Vangelo. La beatitudine contiene due affermazioni da verificare dal punto di vista biologico: 1) si può davvero “vedere Dio”? 2) se sì, per vederlo è davvero necessario essere “puri di cuore”?
Si può davvero “vedere Dio”? Negli ultimi decenni la scienza sta facendo dei reali e rapidi progressi verso la comprensione della “verità” sull’uomo e sta scoprendo in modo indubitabile che il dualismo corpo/psiche è estremamente riduttivo e che un organismo che funziona perfettamente non garantisce la felicità. Numerosi studi scientifici dimostrano che il cervello umano è stato strutturato non solo per soddisfare bisogni primari (appetiti, sonno, sesso, piacere, difesa), ma anche per appagare un’intrinseca sete di trascendenza, di ricerca delle cause dei fenomeni e di significato esistenziale. Poiché la scienza ritiene che in natura non vi sia nulla che non sia necessario o evolutivamente favorevole alla sopravvivenza della specie, ci si comincia a chiedere cosa abbia a che fare con la sopravvivenza della specie la trascendenza. Le risposte sono molteplici e interessanti: la trascendenza “compatta” l’individuo intorno a un “nucleo di senso” che orienta in modo costruttivo l’intera esistenza, dando risorse per superare i momenti di sconforto e di crisi; inoltre aiuta a riunire gli individui intorno a un nucleo di valori condivisi e far sentire tutti gli individui solidali e uniti fra loro, riducendo l’aggressività e alimentando la solidarietà.
Lo studio attento dei racconti dei mistici che in ogni epoca e in ogni luogo sostengono di “vedere Dio” e “parlare con Lui” ha convinto seriamente un gruppo di neurologi che in questi racconti vengono descritte esperienze “reali”, percepite realmente da chi le vive, simili in tutti coloro che le hanno vissute indipendentemente dalle epoche, dalla cultura di appartenenza e persino dalla religione. Si può affermare che il cervello umano è capace di provare beatitudine, estasi, rapimento e senso di comunione con l’Assoluto e con gli altri esseri creati, e che la persona umana può arrivare a sperimentare uno stato emotivo e di consapevolezza che descrive come “sentirsi amata da Dio”. Tutti coloro che raggiungono un elevato stato di rapimento (e questo sembra non poter derivare solo da rituali ben applicati o da sforzo personale) riferiscono inoltre di aver sperimentato un elevato stato di lucidità e consapevolezza interiore, tali da rendere “certi” della realtà ultima delle cose, del senso del cosmo, del senso particolare di ciascuna cosa e della propria esistenza e che questo senso è di ordine, finalità, armonia, bontà e comunione supreme. Chi ha vissuto uno di questi momenti ne serba per sempre un ricordo vividissimo e senza dubbi sulla realtà dell’esperienza vissuta, anche se risulta in tutti i casi difficile o impossibile descriverlo verbalmente con precisione e farne partecipi gli altri perché tale esperienza sembra non appartenere al codice spazio-temporale in cui viviamo, né far contemplare realtà paragonabili con la realtà che ci circonda (basti pensare a santa Teresa d’Avila). Inoltre generalmente l’esperienza fatta diventa fonte di serenità e forza per tutta la vita.
Queste esperienze sono rese possibili dalla predisposizione biologica del cervello umano a sperimentarle, sono la risposta a un bisogno biologico e non sono solo frutto di un contesto culturale. Questo ben si accorda alla teoria cognitiva propria dell’antropologia di san Tommaso d’Aquino che vede una profonda interazione tra anima (mente) e corpo (cervello).
Sono stati eseguiti numerosi studi rigorosi che hanno analizzato cosa accade nell’organismo e nel cervello quando si prega profondamente o si medita e cosa accade in un soggetto che sta vivendo uno stato d’estasi e possono essere descritti ormai in dettaglio i circuiti cerebrali che vengono attivati e quelli invece che vengono bloccati durante l’esperienza di trascendenza, così come le variazioni del respiro, della frequenza cardiaca e del metabolismo.
Perciò la risposta alla prima domanda, dal punto di vista biologico, è affermativa: l’organismo umano è adatto a vivere questa esperienza che fa “vedere Dio”.
Una grande studiosa anglicana di misticismo, Evelyn Underhill (1875-1941), definì il misticismo come “l’arte attraverso la quale l’uomo instaura una relazione conscia con l’Assoluto”. Questo processo di “vedere Dio”, o di stabilire una relazione conscia con l’Assoluto, non è un processo intellettivo o cognitivo, non vi si accede studiando, immaginando o applicando rigorosi ragionamenti di analisi della realtà. Come gli studi dei neurologi hanno ormai bene spiegato, vi partecipano tutte le aree cerebrali, a partire da quelle che definiamo più primitive (quelle che abbiamo in comune con gli animali), sede delle reazioni emotive e istintive, e solo in un secondo momento vengono coinvolti i centri della razionalità e della giustificazione logica di ciò che si sperimenta.
È davvero necessaria la purezza del cuore per vedere Dio? Se il cervello sembra essere adatto a percepire Dio, tuttavia questa esperienza non è abituale, anzi, può essere con ragione considerata eccezionale, per cui occorre chiedersi cosa ostacola normalmente questa possibilità.
Tutti i trattati di mistica sono concordi sulla necessità dell’ascesi per arrivare ai massimi gradi della trascendenza. Molto si è detto e scritto sull’ascesi dal punto di vista morale, pedagogico, teologico… Qui cercherò di comprenderne la necessità dal punto di vista biologico.
Normalmente il mondo entra in noi attraverso la vista e l’udito e la percezione di ciò che è “fuori di noi” attiva complessi circuiti cerebrali deputati a decifrare gli stimoli e strutturarli in esperienza. Fondamentali sembrano essere alcune aree cerebrali corticali localizzate nel lobo temporale, occipitale e nei lobi frontali, e dalle strutture sottocorticali che le collegano (talamo, gangli della base, ipotalamo, ippocampo, amigdala). Gli stimoli percepiti vengono memorizzati associati alla reazione emotiva che li ha contraddistinti, archiviati ed elaborati variamente. La reazione emotiva si esprime soprattutto attraverso l’attività del sistema neurovegetativo (ortosimpatico e parasimpatico).
In particolare nello stato di vigilanza sembrano essere importanti le aree visive (particolarmente connesse con la coscienza di sé) e delle aree localizzate nei lobi frontali, parietali e temporali che determinano il grado della nostra attenzione oltre alla percezione della posizione del corpo e l’orientamento nello spazio ambientale. Durante l’esperienza di trascendenza (studiata in monaci buddisti durante la meditazione profonda e in monache cattoliche carmelitane o francescane in profonda preghiera) sono proprio queste aree dell’orientamento che sembrano disattivarsi, mentre si attivano quelle dell’attenzione, come se si chiudessero gli occhi e si perdessero le connotazioni spaziali del corpo e dell’ambiente esterno per raccogliersi in un mondo interiore in cui si può fare l’incontro con Dio.
Perciò un primo elemento che emerge è questo: normalmente è difficile percepire Dio perché si è distratti.
Le distrazioni sono di due tipi: quelle esterne a noi che catturano la nostra attenzione mantenendo attive le aree associative dell’attenzione e della connessione attiva con l’ambiente (che nella preghiera o nella meditazione dovrebbero disattivarsi); e quelle interne a noi che sono mosse dal desiderio di qualcosa di preciso, per cui si mantengono attive le aree dell’attenzione e quelle della programmazione degli eventi necessari per soddisfarlo.
I cammini ascetici, procurando il graduale distacco dai desideri e dalla curiosità, predispongono il soggetto ad entrare stabilmente in uno stato cerebrale di interiorità che sembra premessa indispensabile per “vedere Dio”.
Una prima accezione di “purezza di cuore” è quindi quella di “distacco” intellettivo dall’ambiente e da se stessi: dalle passioni (intese come attaccamento emotivo persistente a qualcuno, a qualcosa o a qualche idea), dai desideri e anche dalle distrazioni (curiosità). Oltre al concetto di attenzione al mondo e di percezione di sé che ostacolano il “vedere Dio” c’è anche quello di persistenza dell’attivazione del sistema neurovegetativo (asse emotivo).
L’emotività ha fondamentale importanza nell’espressione della vita mistica e sembra che senza integrità del “cervello emotivo” non possa aversi espressione della vita interiore né esperienza di trascendenza. Tuttavia l’emotività deve essere in certo modo “pulita” per non risultare di ostacolo al raggiungimento dello stadio profondo di trascendenza necessario per “sperimentare Dio”. Infatti se è vero che il sistema neurovegetativo entra in gioco in modo importante all’inizio dell’attività di trascendenza, è altrettanto vero che il dilagare dell’attività neurovegetativa che innesca varie sequenze inibitorie a livello cerebrale sembra non poter essere una attività ‘qualsiasi’: se siamo agitati per un pensiero preciso, o per un desiderio o per una pulsione, questa persistenza dell’attività neurovegetativa rende più difficile entrare in uno stato di coscienza di trascendenza.
Come secondo elemento di difficoltà ordinaria a percepire Dio si può dunque collocare l’emotività incontrollata. Perciò in definitiva tutti gli esseri umani hanno la possibilità di “vedere Dio”, ma pochi ci riescono perché la persistenza di desideri o ideazione, e dell’emotività incontrollata impediscono di raggiungere la quiete interiore e il rimodellamento dell’attività cerebrale necessari.
Un aspetto particolare dell’accezione di “purezza” è la castità volontaria nei soggetti che decidono di fare del “vedere Dio” una scelta di orientamento esistenziale.
Vediamo anche questo aspetto dal punto di vista biologico. Osservando il grande equilibrio di personalità e la sensazione di profonda serenità e forza che emanano personaggi casti come il Dalai Lama, il Papa, Madre Teresa di Calcutta (tanto per fare alcuni esempi ben noti) occorre riconoscere che il privarsi dell’attività sessuale in modo permanente non sembra amputare le personalità e tra questi personaggi e le figure di frustrati sessuali o “forzati della castità” esiste un abisso che chiunque immediatamente avverte. La differenza tra coloro che per vari motivi subiscono l’astinenza sessuale (e vivono dunque una mancanza) e coloro che scelgono la castità come fonte di realizzazione spirituale (e vivono quindi una pienezza) sta proprio nella trascendenza che viene vissuta e sviluppata dai secondi e non dai primi.
La descrizione del grado di appagamento sperimentato in uno stato alterato di coscienza di tipo trascendente (meditazione profonda o preghiera contemplativa) può essere simile a quello sperimentato nell’innamoramento. Tuttavia anche se le vie neurali attraverso cui si manifestano la trascendenza e il piacere sessuale sono le stesse, e quindi la manifestazione di appagamento è in qualche modo simile, dal punto di vista neurologico sono esperienze profondamente diverse: l’appagamento sessuale viene raggiunto attraverso circuiti istintuali sottocorticali, mentre la trascendenza richiede l’attivazione dei circuiti corticali superiori del lobo limbico (evoluzione di quelli sottocorticali): l’uomo, essendo molto più evoluto degli altri animali filogeneticamente inferiori (come i primati), possiede perciò il supporto biologico necessario perché l’anima spirituale possa sperimentare la trascendenza, a differenza degli altri animali. Se ci si abitua a raggiungere questo stato di appagamento attraverso i circuiti istintuali, sarà meno probabile riuscire a raggiungerlo “trascendendoli”. Se si vuole percepire qualcosa di cognitivo occorre fare tacere ciò che è più grossolano e si impone maggiormente all’attenzione e ai sensi.
In definitiva anche alla seconda domanda dal punto di vista biologico si dà risposta affermativa: per “vedere Dio” occorre essere “puri di cuore”, cioè distaccati e non confusi dalle sensazioni che arrivano dal corpo e dall’emotività: in una parola la purezza del cuore significa “essere liberi” dagli impedimenti legati alla propria condizione umana, cioè essere davvero padroni di sé per poter essere totalmente ricettivi della presenza di un Altro.