Viviamo in una società i cui tratti fondamentali risultano difficili da definire, tanto che – guardandola da diversi punti di vista – vi è chi ne sottolinea la liquidità o l’incertezza, chi la globalizzazione dei rapporti economici (e di riflesso culturali), chi la complessità, a cui si collega un’altra formula – molto utilizzata per descrivere il tempo in cui viviamo – ovvero quella di società della conoscenza. Il recente magistero pontificio – che già aveva parlato di eclissi dell’uomo, crisi della verità e dittatura del relativismo – sottolinea l’emergenza educativa, e i vescovi italiani hanno voluto dedicare alla questione educativa gli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 (Educare alla vita buona del Vangelo). Prendiamo, allora, come filo da seguire quello dell’educazione e come contesto privilegiato di riferimento quello della formazione dei giovani, soprattutto in ambito universitario.
Affermare la centralità dell’educazione (il rapporto all’UNESCO del 1996 si intitola “Nell’educazione un tesoro”) o la necessità di acquisire le “competenze chiave” per la cittadinanza (si pensi alla Raccomandazione del Parlamento europeo del 2006) significa certamente sottolineare l’importanza della dimensione formativa, ma in quale prospettiva? In fondo si tratta della stessa domanda che si poneva Aristotele all’inizio della Metafisica, quando si chiedeva se potesse esistere un sapere “disinteressato”, ricercato per se stesso e non in vista di qualche obiettivo di tipo pragmatico. Il vero sapiente, diceva Aristotele, è proprio colui che cerca il sapere per se stesso.
Lo stesso interrogativo risuona nelle accorate parole che Benedetto XVI ha rivolto ai giovani docenti universitari, durante la giornata mondiale della gioventù, a Madrid, il 19 agosto 2011: «talvolta si ritiene che la missione di un professore universitario sia oggi esclusivamente quella di formare dei professionisti competenti ed efficaci che possano soddisfare la domanda del mercato in ogni momento preciso. Si afferma che pure l’unica cosa che si deve privilegiare nella congiuntura presente sia la pura capacità tecnica. Certamente, oggi si estende questa visione utilitaristica dell’educazione, anche di quella universitaria, diffusa apertamente a partire da ambienti extrauniversitari».
Tale processo di tecnicizzazione del sapere e della cultura porta – per dirla con Aristotele – a tralasciare le forme di sapere “libero” che comportano una dimensione di tipo contemplativo, fondativo, sapienziale.
Se poi interroghiamo l’esperienza didattica di molti insegnanti sarà facile osservare come, a questa complessiva domanda sociale di formazione orientata in senso pragmatico, corrisponda nella maggior parte degli studenti un’esplicita aspettativa in tal senso, che si esprime talora in manifestazioni di insofferenza di fronte allo sforzo di una concettualizzazione di tipo teorico, o nella richiesta esplicita di rendere più “pratico” qualsiasi insegnamento. Le istanze della cultura dominante corrono il rischio di forgiare anche le aspettative culturali dei giovani, asservendoli precocemente alle esigenze di modelli culturali che in qualche misura contrastano con i tratti più genuini dell’identità giovanile. Tra l’altro, dal punto di vista della qualità della formazione, l’approccio pragmatico si ritorce contro la stessa istituzione universitaria, perché il pragmatismo coltivato nella mente degli studenti si può applicare alla stessa attività dello studio, resa “funzionale” al superamento degli esami e al conseguimento del titolo, senza che sia altrettanto forte la preoccupazione di acquisire una cultura profonda. Il rischio è quello di una doppia deriva in cui l’istituzione accademica organizzi l’offerta formativa in vista della certificazione di alcune competenze puramente tecniche, rendendo le prove a loro volta funzionali a tale scopo e che – parallelamente – gli studenti si attrezzino “in funzione” del superamento delle prove, con un aumento apparente della “qualità dichiarata” ed un crollo effettivo della qualità reale della formazione. Come uscire da tale impasse?
La prima mossa tocca evidentemente ai docenti, che sono chiamati a rendersi conto dei rischi della deriva funzionalista e a sentire – per richiamare le parole di Benedetto XVI – “il desiderio di qualcosa di più elevato che corrisponda a tutte le dimensioni che costituiscono l’uomo. Sappiamo che quando la sola utilità e il pragmatismo immediato si ergono a criterio principale, le perdite possono essere drammatiche: dagli abusi di una scienza senza limiti, ben oltre se stessa, fino al totalitarismo politico che si ravviva facilmente quando si elimina qualsiasi riferimento superiore al semplice calcolo di potere”. In un saggio, ormai classico, Hans Jonas metteva in guardia dalle derive epistemiche di quella da lui denominata filosofia della tecnologia, che dipende dal carattere ormai pervasivo dei frutti della cultura tecnologica nella nostra vita quotidiana. Mettendo tra parentesi le piste da lui elaborate, ci limitiamo a sottolineare un elemento delle modalità con cui la cultura tecnologica entra a permeare la filosofia di vita delle persone, dunque assume un rilievo di tipo pedagogico in ordine alla formazione dell’identità: lo scenario tecnologico in cui siamo immersi, collegato ad uno sfondo concettuale implicitamente meccanicistico, genera quel fenomeno che è stato definito di induzione esistenziale, intesa come una specie di transfert dal modo d’essere iscritto nello scenario tecnologico al modo d’essere dell’uomo. Tale transfert influenza tutti gli aspetti dell’esistenza umana, generando - per esempio - un desiderio di “dominio” sulla realtà stessa, un senso di insofferenza nei confronti dei limiti (interni ed esterni) che si sperimentano, la pretesa di “piegare” la natura in genere e la propria corporeità in particolare agli obiettivi concreti del nostro agire, così come si ha l’impressione di poter piegare ad essi gli strumenti tecnologici più duttili e performanti di cui siamo abituati a servirci.
A tale deriva ci si può opporre – sul piano formativo – riscoprendo il valore umanizzante della cultura e non ci riferiamo alla sola cultura umanistica, ma alla cultura in genere in quanto essa costituisce un autentico bene umano, un bene per l’intelletto, che soddisfa la nostra naturale sete di conoscenza, per dirla ancora con Aristotele. Ancora più esplicito è il discorso già citato di Benedetto XVI, per cui «i giovani hanno bisogno di autentici maestri; persone aperte alla verità totale nei differenti rami del sapere, sapendo ascoltare e vivendo al proprio interno tale dialogo interdisciplinare; persone convinte, soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino verso la verità».
Il vero maestro, in altri termini, non è un semplice “erogatore” di pacchetti formativi più o meno ben strutturati, che rispondano ai bisogni di chi ha bisogno di navigare nel mare liquido della complessità contemporanea, ma è un sincero amante della verità, che si mette alla sua scuola ed intraprende il cammino della conoscenza, nella convinzione che ad essa si possa giungere o che – perlomeno – sia possibile coglierne dei significativi frammenti. Sempre nella metafisica di Aristotele si legge che il sapiente è colui che ha una conoscenza globale, non semplicemente settoriale, e che si spinge fino alla conoscenza delle cause prime, delle ragioni più profonde, e – per questo – è in grado di insegnare. Solo il sapiente può davvero insegnare ed essere, autenticamente, “maestro”. Oltre al carattere aperto alla totalità e generativo della sapienza vogliamo ancora sottolinearne il carattere orientativo: chi arriva a conoscere, anche solo in un campo che gli è proprio, le ragioni più profonde degli elementi stessi che lo caratterizzano, entra in contatto con altre prospettive disciplinari nei punti di maggiore profondità e non solo su questioni marginali e superficiali, per cui apprende ad orientarsi (ed orientare) nella conoscenza in senso ampio e non solo in ordine agli strumenti epistemici della propria disciplina in senso stretto.
La vera sapienza induce anche una profonda saggezza, perché l’ambiente interiore in cui si genera è quello di un’autentica umiltà. Il puro sapere tecnico, consapevole della sua efficacia, è esposto al rischio dell’orgoglioso compiacimento che accompagna il successo operativo a cui punta e che fisiologicamente raggiunge. Sia ben chiaro che, con questo tratto di personalità culturale, non vogliamo riferirci solo a coloro che operano nell’ambito della ricerca tecnologica in senso stretto, ma a quanti – in tutti gli ambiti disciplinari – si sono lasciati attrarre da quella deriva tecnicista e funzionalista che si è fatta ormai pervasiva. Chi ricerca la verità non pretende di “possederla”, ma è innanzitutto disposto a farsi suo discepolo e, per questo, coltiva una profonda umiltà interiore. L’umiltà, il fatto di non andare in cerca di cose troppo grandi, è certamente principio di saggezza, anche se da sola non basta ad esaurire l’ampio spettro delle virtù che sarebbero desiderabili per la persona saggia.
Se ci mettiamo dal punto di vista di uno studente possiamo dire che ciascuno è disponibile a considerare “docente” chiunque abbia competenze adeguate in un determinato settore, mentre potrà considerare “maestro” solo un uomo saggio, che si è fatto discepolo della verità ed è disponibile a guidare altri sulla stessa strada.
Il percorso che si può immaginare per i giovani, per gli studenti chiamati ad essere “discepoli”, potrebbe essere descritto in termini speculari a quanto abbiamo indicato per i docenti/maestri. Il vero problema è quello di aiutare gli studenti ad assumere un atteggiamento “attivo” e non passivo nei confronti della splendida avventura dell’acquisizione di una cultura che in qualche modo informerà l’attività di tutta la vita. Non ci riferiamo qui solo all’attivismo pedagogico per quanto concerne l’approccio cognitivo, per cui chi studia in modo critico, con il desiderio autentico di rielaborare e “far proprio” ciò che apprende alla fine consegue anche risultati migliori. Ci riferiamo soprattutto a quello che potremmo chiamare “attivismo esistenziale”, cioè la disposizione stabile e costante (quindi una virtù) a collegare ciò che si apprende (man mano che lo si “fa proprio”) alla propria dimensione esistenziale ed al proprio progetto di vita. Mentre si effettua questo collegamento con le profondità del proprio “saper essere” (che si forma grazie al sapere e al saper fare, è importante anche scoprire la dimensione contemplativa e sapienziale della conoscenza, attribuire ai tesori che si scoprono un “valore in sé” e non solo o soprattutto un “valore d’uso”, di tipo funzionale, in vista del superamento degli esami o della pura professionalizzazione.
Possiamo tentare di leggere in tale prospettiva l’esortazione che papa Benedetto XVI ha rivolto ai giovani, in occasione di quella GMG di Madrid, in cui si è rivolto anche ai “giovani docenti universitari” con il discorso che abbiamo ricordato sopra: «Precisamente oggi, in cui la cultura relativista dominante rinuncia alla ricerca della verità e disprezza la ricerca della verità, che è l’aspirazione più alta dello spirito umano, dobbiamo proporre con coraggio e umiltà il valore universale di Cristo, come salvatore di tutti gli uomini e fonte di speranza per la nostra vita. (…) Cari amici, che nessuna avversità vi paralizzi! Non abbiate paura del mondo, né del futuro, né della vostra debolezza. Il Signore vi ha concesso di vivere in questo momento della storia, perché grazie alla vostra fede continui a risuonare il suo Nome in tutta la terra. In questa veglia di preghiera, vi invito a chiedere a Dio che vi aiuti a riscoprire la vostra vocazione nella società e nella Chiesa e a perseverare in essa con allegria e fedeltà. Vale la pena accogliere nel nostro intimo la chiamata di Cristo e seguire con coraggio e generosità il cammino che ci propone!” [Benedetto XVI, Veglia di Preghiera con i giovani - Omelia del Santo Padre, Madrid 20 agosto 2011].
Viene in tal modo delineato un “circolo virtuoso”: da un lato è importante che chi educa e, specificamente, chi insegna abbia la consapevolezza che il suo è un “servizio alla vita”, o meglio alla “vita buona”, e quindi percepisca se stesso prima come “maestro” e poi come insegnante. Dall’altro lato è altrettanto importante che i giovani raccolgano l’invito dei loro maestri e percepiscano se stessi prioritariamente come “discepoli”, sia per accogliere l’insegnamento di quanti – tra i loro docenti – già hanno la disposizione a porsi come maestri (e siano davvero “buoni maestri”), sia per pungolare quanti non lo fanno, in modo da risvegliare la loro coscienza ed aiutarli a riscoprire la propria vocazione magistrale.