I fatti che quotidianamente assurgono agli “onori” della cronaca ci mostrano quanto profonda sia la crisi culturale – e, di conseguenza, politica – della società in cui viviamo, non solo per il moltiplicarsi di malversazioni che generano indignazione, ma soprattutto per il crescente “individualismo pratico” che evidenza la carenza di una “cultura della nazione” e porta, quindi, a rendere sempre più labile il senso di appartenenza alla comunità sociale e civile. Come ha rilevato Bauman, «il declino della comunità è […] un fenomeno che si autoalimenta; una volta decollato ci sono sempre meno stimoli a fermare la disintegrazione dei legami umani e a cercare modi di tornare a unire quanto era stato spezzato» (Z. Bauman, Voglia di comunità [2001], tr. It. Laterza, Roma-Bari 2003, p. 48). Ci sono però molte ragioni per non accontentarsi delle analisi – per quanto acute e pertinenti – e prendere le mosse da esse per far leva sui punti di forza e tramutare i punti di difficoltà in obiettivi educativi. Ed è significativo che su questo obiettivo si incontrino lo “sguardo di fede” e quello “disciplinare” di chi si occupa di educazione, perché – come ci ha ricordato Benedetto XVI – anima dell’educazione è una speranza affidabile (cfr. Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008). Quanto più appare profonda la crisi culturale e politica, tanto più la pedagogia è chiamata ad interrogarsi su come rilanciare il rapporto tra educazione e politica (Cfr. A. Porcarelli, Educazione e politica. Paradigmi pedagogici a confronto, Franco Angeli, Milano 2012), facendo tesoro delle lezioni del passato e guardando con fiducia verso il futuro, ma per far questo è anche chiamata a recuperare le proprie radici, individuando i paradigmi teorici più solidi per affrontare le sfide proprie di una società “liquida”.
Nel campo delle scienze umane in genere e delle scienze dell’educazione in particolare, la tentazione teoretica più insidiosa, proprio a fronte della labilità dei punti di riferimento sul piano culturale, è quella di adeguarsi ad un paradigma “liquido”, o meglio di assumere la stessa “liquidità” come paradigma. Si legge, per esempio, in un recente testo di Pedagogia sociale che ripropone la logica della Scuola di Francoforte, che si tratta di «un modello di pedagogia critica, che valorizzi l’individuo e la sua capacità di pensare e di resistere, costruendo al contempo significati nuovi e nuovi legami di valore con gli altri individui e con la realtà che abita. Dobbiamo dare fiducia al nostro uomo postmoderno, poiché ha le potenzialità per gestire il proprio tempo e la propria storia sociale» (F. Cambi, R. Certini, R. Nesti, Dimensioni della pedagogia sociale. Struttura, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2012, p. 31. Per una proposta di pedagogia sociale culturalmente orientata in senso differente, cfr. A. Porcarelli, Lineamenti di pedagogia sociale, Armando, Roma 2009). Volendo evidenziare, a grandissime linee, l’elemento comune a tutti i cantori della liquidità, assunta come paradigma di riferimento, si può dire che esso si articola in una pars destruens, che coincide con l’assunzione della cultura dominante (con affermazioni che potrebbero suonare in questi termini: “in un tempo fluido e mutevole, in cui tutti sono chiamati alla flessibilità, anche le idee devono essere flessibili e non possono essere dogmatiche”), e in una pars construens che per lo più si orienta su obiettivi funzionali e contingenti. Imparare ad apprendere per tutta la vita, per poter “abitare” gli spazi della complessità ed eventualmente convivere in modo urbano con gli altri individui, rappresentano una sorta di vulgata universale – accreditata anche da autorevoli documenti internazionali sull’educazione (citiamo per tutti il Rapporto all’UNESCO a cura di J. Delors, Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il Ventunesimo Secolo [1996], tr. it. Armando, Roma 1997) – che sembra raccogliere gli obiettivi formativi (per alcuni sono anche gli unici obiettivi educativi) su cui far convergere le energie.
Per superare l’impasse culturale che abbiamo sopra indicato è essenziale andare alle radici di qualche forma di “speranza fondata”, su cui possa a sua volta fondarsi una concezione “alta” dell’educazione. Le “pedagogie del soggetto e della socialità umana” (Cfr. A. Porcarelli, Educazione e politica …, cit., pp. 31-84), ad esempio, si caratterizzano per uno sguardo sull’umano che, pur assumendo come punto di riferimento esplicito tutta la problematicità della cultura e dell’esistenza, in un approccio dichiaratamente antidogmatico, individuano alcuni elementi su cui fondare una fiducia nell’umano che si collega ad una profonda fiducia nell’educazione. Su un altro fronte si collocano le “pedagogie della persona e della socialità comunitaria” (Cfr. A. Porcarelli, Educazione e politica …, cit., pp. 87-192), che si caratterizzano per un’assunzione preliminare della nozione di persona (secondo le modalità con cui essa è stata elaborata anche grazie alla tradizione culturale cristiana) quale idea guida, per un nuovo rinascimento ed una ricostruzione di un tessuto comunitario (vita politica) adeguato alla grandezza e dignità della persona umana. In tale ricostruzione (che era particolarmente urgente, specialmente negli anni drammatici dei grandi totalitarismi e del secondo conflitto mondiale, ma non lo è di meno ai nostri giorni) gioca un ruolo fondamentale l’educazione. Per ricostruire sulle macerie materiali di un mondo distrutto dalla guerra serviva un “piano Marshall”, per ricostruire sulle macerie spirituali di un mondo devastato da tensioni e conflitti serviva un “nuovo rinascimento” (Cfr. E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo (1936), tr. It. Ecumenica, Bari 1975), una cultura di tipo “personalista”. Fondamento di tale cultura è il riconoscimento della dignità della persona in quanto tale, come afferma con chiarezza J. Maritain: «Un centro, in certo modo inesauribile, di esistenza, di bontà e di azione, capace di dare e di darsi, – e capace di ricevere non solo questo o quel dono fatto da un altro, ma un altro se stesso come dono, un altro se stesso come donantesi. Eccoci introdotti dalla considerazione della legge propria dell’amore nel problema metafisico della persona. L’amore non va a qualità, né a nature e ad essenze, ma a persone. (…) Per potere darsi, bisogna prima esistere, e non solo come un suono che passa nell’aria o un’ide che mi passa nella mente, ma come una realtà che sussiste e che esercita da se stessa l’esistenza; e non bisogna solamente esistere come le altre cose, bisogna esistere in modo eminente, possedendoci noi stessi, tenendoci noi stessi in mano e disponendo di noi stessi, vale a dire che bisogna esistere di un’esistenza spirituale, capace di afferrarsi essa stessa per mezzo dell’intelligenza e della libertà di sovraesistere in conoscenza e in amore» (J. Maritain, La persona e il bene comune [1948], tr. It. Morcelliana, Brescia 1995 [X ed.], p. 24).
Su tale riconoscimento si fonda in primo luogo la visione personalista e comunitaria della società, come ben illustra ancora lo stesso Maritain, che revisionando in modo radicale la visione deficitaria di una società fondata su un mettere insieme, in termini contrattualisti, le reciproche “miserie” per fare fronte comune contro le necessità della vita, rilancia la visione aristotelica di una naturale socievolezza umana, fondata non solo sulla naturale indigenza dell’uomo per i suoi bisogni materiali, ma soprattutto su una “naturale sovrabbondanza” che caratterizza la persona nel suo essere spirituale. Riportiamo un testo abbastanza articolato, che argomenta con vigore questa idea. «E perché la persona richiede per se stessa di vivere in società? Essa lo domanda, in primo luogo, proprio in quanto persona, in altri termini in virtù delle perfezioni stesse che le sono proprie, e di quella apertura alle comunicazioni della conoscenza e dell’amore di cui abbiamo parlato, e che esigono l’entrata in relazione con altre persone. Presa sotto l’aspetto della sua generosità radicale, la persona umana tende a sovrabbondare nelle comunicazioni sociali, secondo la legge di sovrabbondanza che è iscritta nel più profondo dell’essere, della vita, dell’intelligenza e dell’amore. E in secondo luogo è in ragione dei suoi bisogni, in altri termini secondo le indigenze che derivano dall’individualità materiale, che la persona umana richiede questa stessa vita in società. Presa sotto l’aspetto delle sue indigenze, essa deve integrarsi a un corpo di comunicazioni sociali senza il quale le è impossibile pervenire alla sua vita piena e al suo compimento. La società appare allora come tale da procurare alla persona le condizioni d’esistenza e di sviluppo di cui essa ha precisamente bisogno. Non da sola può pervenire alla sua pienezza, ma in quanto riceve beni essenziali dalla società. Qui non si tratta soltanto dei beni materiali, bisogno di pane, di vesti, di ricovero, per i quali l’uomo deve ricevere il soccorso del suo simile, ma, anche e anzitutto, dell’aiuto di cui egli ha bisogno per fare opera di ragione e di virtù, cosa che risponde al carattere specifico dell’essere umano; per pervenire a un certo grado di elevazione nella conoscenza come di perfezione nella vita morale, l’uomo ha bisogno d’una educazione, e del soccorso dei suoi simili: in questo senso si deve dare il massimo rigore al detto di Aristotele, che l’uomo è naturalmente un animale politico; animale politico, perché è un animale ragionevole, perché la ragione chiede di svilupparsi, grazie all’educazione, all’insegnamento e al concorso di altri uomini, e perché la società è così richiesta al compimento della dignità umana» (J. Maritain, La persona e il bene comune (1948), tr. It. Morcelliana, Brescia 1995 (X ed.), pp. 29-30).
Si tratta di un testo che offre gli spunti teoretici per la ricostruzione non solo di una filosofia politica e di una teoria del diritto di impianto personalista, ma anche di tutte le scienze sociali e le scienze umane. Porre l’accento sulla “naturale sovrabbondanza” della persona in quanto essere spirituale significa smentire in radice tutte le visioni riduzioniste e funzionaliste, che invece risultano oggi imperanti, proprio perché si è perso contatto con il fondamento metafisico della socievolezza umana.
Sulla stessa linea ci si può collocare in vista di un recupero dei fondamenti di una pedagogia della persona che da un lato sappia ripensare se stessa alla luce della specificità del concetto di educazione che emerge da una base di tipo metafisico.
«Anche solo considerando i confini della sua presenza esistenziale, l’educazione stessa ci indica la sua esclusiva relazione con il fatto umano, e si pone quindi, tra le cose umane, come la più umana. L’uomo condivide con altri esseri, a lui superiori, la capacità di una vita soprannaturale, e con le creature inferiori ha comune la spontaneità vitale e gli elementi corporei: ma l’educazione è cosa sua propria, perché da una parte suppone lo spirito e dall’altra vuole uno spirito soggetto alla capacità di sviluppo e non dato tutto immediatamente come possesso compiuto. La capacità dello sviluppo spirituale, impossibile in altri esseri, o per difetto di poteri, o per eccesso di questi, si avvera solo nell’uomo in virtù appunto di quella unità, che in lui si realizza, tra i poteri spirituali e i limiti di essi. L’educazione diventa così per lui un fatto possibile, e anzi necessario» (G. Corallo, Pedagogia. L’educazione. Problemi di pedagogia generale, SEI, Torino 1961 (vol. I), p. 131).
Educazione di persone umane, da parte di educatori che non solo “sono” persone umane, ma si mettono consapevolmente in gioco come tali, al fine di aiutare ciascuno a divenire pienamente quello che è, cioè una persona umana libera e responsabile. Questa, in estrema sintesi, la prospettiva personalista sull’educazione, che diviene anche la condizione e la base per una rigenerazione della società civile, attraverso la coltivazione della libertà responsabile di ciascuno e di quella che lo stesso Aristotele individua come “amicizia politica” tra i cittadini. La società umana, ed in tal senso anche l’educazione sociale e civica, non va concepita come una realtà “artificiale”, fondata su un contratto che si dovrà onorare per tener fede alla parola data, ma come una realtà “naturale”, in cui ciascuno sviluppa quelle virtù sociali e civiche a cui è proteso in forza della sua autentica natura umana (cfr., L. Corradini, A. Porcarelli, Nella nostra società. Cittadinanza e costituzione, SEI, Torino 2012).