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Chi ha paura del postumano? Breve vademecum all'umanità 2.0

Marzo 2014
Luca Grion
Docente di filosofia morale presso l’Università di Udine

Gli anni Duemila si sono aperti all’insegna di una suggestiva ipotesi: quella che vuole la nostra società sulle soglie di un nuovo rinascimento scientifico e tecnologico stimolato dalla GNR revolution (l’incontro tra Genetica, Nanotecnologia e Robotica). L’idea guida è quella che vede nel convergere delle tecnologie emergenti – dalle nanotecnologie alle tecnologie dell’informazione, dalla biomedicina alla biotecnologia, dall’intelligenza artificiale alle neuroscienze – il volano per una accelerazione senza precedenti; un’accelerazione così tumultuosa e rapida da rendere quasi impossibile prevederne gli esiti ultimi.

Molti sono spaventati dall’incertezza che accompagna i processi dell’innovazione tecnologica, altri denunciano i possibili esiti disumanizzanti della cosiddetta tecnoscienza, altri ancora scommettono sul potere di emancipazione di un sapere che potrebbe consentire all’umanità di prendere congedo dalle fragilità e dai limiti della propria corporeità. Proprio quest’ultima prospettiva vorrei qui prendere in esame. Vi è infatti chi ritiene che la sinergia sempre più stretta tra saperi fino a poco tempo fa “periferici” nel contesto della ricerca scientifica rivoluzionerà il futuro della natura umana.

Proprio nel contesto di quest’ultimo, ottimistico, modo di guardare al progresso tecnologico, ha preso corpo il movimento postumanista; un arcipelago di autori e di sigle accomunate dalla persuasione che l’evoluzione biologica rappresenti il passato e che l’evoluzione tecnica rappresenti invece il presente e il futuro dell’umanità. Non più dunque evoluzione eterodiretta e casuale, ma una progettazione autonoma e consapevole dell’uomo 2.0, ovvero di un individuo che ha finalmente preso in mano le redini del proprio destino.

Offrire una descrizione ad un tempo esaustiva e sintetica di un movimento composito e multiforme come quello postumanista è impresa non certo facile. Per raccogliere tale sfida, offrendo una prima mappatura di quella che, a tutti gli effetti, rappresenta una questione emergente dell’attuale dibattito culturale, credo possa essere utile ricorrere alla logica delle cinque “w” su cui si regge la buona pratica giornalistica.

 

La prima “w” che qui vorrei mettere a fuoco è “what?”. Nel nostro caso possiamo chiederci: che cosa indica, esattamente, il termine “postumanesimo”? In estrema sintesi esso rimanda al possibile esito di un processo di progressivo miglioramento della condizione umana. Gli autori riconducibili alla categoria del postumano sono, infatti, persuasi che, nel breve volgere di alcuni decenni, l’umanità saprà liberarsi da tutte le cause naturali di morte, avrà vinto la guerra contro l’invecchiamento, avrà implementato le sue capacità fisiche e intellettive (anche grazie all’ibridazione con le macchine) e avrà preso il pieno controllo del suo mondo emotivo. Il postumano è, per l’appunto, il beneficiario di tali migliorie; un individuo così radicalmente diverso dall’uomo attuale da richiedere una definizione a se stante, che ne sottolinei l’originalità del suo “esser-oltre”. Spesso tali tematiche vengono anche ricondotte alla categoria del “transumaesimo”, generando una certa equivocità terminologica. In realtà, seguendo in questo l’indicazione di Nick Bostrom – sulla cui figura avrò a breve modo di tornare – postumanesimo e transumanesimo possono essere assunti come etichette per indicare, rispettivamente, il risultato auspicato e il percorso di transizione necessario al suo conseguimento. Il transumano è dunque l’uomo in transito verso la condizione post-umana.

Le possibili vie d’accesso a questo paradiso della tecnica potrebbero essere molteplici. Alcuni puntano sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della robotica e immaginano forme di interazione sempre più strette tra l’uomo e la macchina. Altri puntano invece sulla completa emancipazione dell’uomo rispetto al suo corpo biologico, prefigurando la possibilità di un mind uploading, ovvero il trasferimento della propria identità personale su un supporto digitale. Vi sono poi coloro che indagano i meccanismi di invecchiamento cellulare, cercando non solo di bloccare un processo da sempre considerato ineluttabile, ma addirittura ipotizzando di poter far scorrere all’indietro le lancette del nostro orologio biologico, operando una rigenerazione del corpo che ne consenta una “eterna giovinezza”. Vi è, ancora, chi scommette su una medicina sempre più tecnologica, capace, per un verso, di progettare attraverso l’ingegneria genetica corpi sempre più conformi ai nostri desideri e, per altro verso, di utilizzare nanomacchinari per potenziarne le capacità fisiologiche (sistemi immunitari potenziati, globuli rossi artificiali capaci di prestazioni oggi inimmaginabili, autentiche farmacie personalizzate sempre a disposizione lungo il flusso sanguigno). E ancora vi è chi prefigura la possibilità di governare i centri del piacere mettendo sotto controllo il nostro mondo emotivo, facendo di quest’ultimo non più una dimensione vissuta passivamente, ma una realtà dominata dall’io e dal suo desiderio di autosoddisfazione.

 

La seconda domanda da porci in questa esplorazione dell’arcipelago postumanista è “who?”; chi sono i fautori dell’uomo 2.0? In questa sede, più che impegnarmi in una panoramica esaustiva di quanti, attualmente, occupano da protagonisti il centro del dibattitto sull’uomo nuovo, vorrei suggerire pochi nomi che simboleggiano altrettante strategie messe in atto dal movimento postumanista.

Innanzi tutto merita un cenno Max More – al secolo Max T. O’Connor – filosofo e futurologo inglese, attualmente operante negli Stati Uniti, esponente di punta dell’estropianesimo, ovvero della frangia più libertaria del movimento transumanista. La figura di More è interessante almeno per due ragioni: in primo luogo per il suo essersi fatto promotore de I principi estropici 3.0, uno dei principali manifesti del pensiero transumanista, dai quali traspare l’alleanza tra libertarismo, materialismo e tecnoscienza. In secondo luogo per la sua messa in discussione della nozione di “natura umana”, alla quale si accompagna un rifiuto radicale di ogni limite posto all’autonomia dell’individuo.

Il secondo autore che merita una speciale menzione è quello di Nick Bostrom, filosofo svedese che a Oxford dirige il Future of Umanity Institute. Bostrom è stato il principale animatore di un altro importante manifesto postumanista (La dichiarazione transumanista) ed è stato il fondatore della World Transumanistic Association (poi ribattezzata Humanity +) assieme a David Pearce (autore de L’imperativo edonistico, opera nella quale si auspica la possibilità di accedere artificialmente ad un’esistenza definitivamente liberata dal dolore). Bostrom è un convinto sostenitore della liceità etica dello human enhancement, ovvero degli interventi di auto-potenziamento del corpo umano operatati attraverso il sapere tecnico-scientifico. Sempre a Oxford opera Anders Sandberg, il quale ribadisce il diritto ad una piena libertà morfologica (cfr. il suo celebre Morpholofical Freedom. Why We not just  Want it, but Need it).

Sulla medesima linea troviamo anche autori quali John Harris (bioeticista dell’Università di Manchester) e Julian Savulescu (bioeticista australiano operante a Oxford), i quali sostengono non solo la liceità, ma la doverosità etica del potenziamento, soprattutto in relazione alla generazioni a venire, le quali, grazie all’ingegneria genetica, dovrebbero essere messe nelle condizioni di poter contare sulle migliori possibilità di vita che la tecnica può offrire loro. A partire da tali premesse essi incoraggiano le pratiche di fecondazione artificiale – in quanto consentono un maggior controllo tecnico sui nascituri – e propugnano una nuova eugenetica (che, per distinguerla da quella praticata ad inizio Novecento, essi definiscono “eugenetica liberale”).

In questo elenco, per quanto sommario, non può certo mancare Raymond Kurzweil, inventore poliedrico e geniale noto, tra l’altro, per la sua teoria dei ritorni accelerati. L’impegno di Kurzweil è volto a far comprendere come la diffidenza e lo scetticismo con cui spesso vengono accolte le previsioni dei tranusmanisti sono dovuti all’incapacità di guardare allo sviluppo dei processi tecnologici cogliendone la logica esponenziale che ne sta alla base. Per lo più, osserva Kurzweil, noi siamo abituati a ragionare in termini lineari, anche rispetto al progresso tecnologico. Riteniamo cioè che la progressione delle scoperte scientifiche e l’implementazione delle nostre capacità tecniche seguano una progressione costante e graduale. Le cose, tuttavia, non stanno così: le conoscenze tecnologiche raddoppiano ogni anno, seguendo l’andamento tipico della Legge di Moore e disegnando, idealmente, una curva che ad un certo punto tende ad impennarsi, assumendo uno sviluppo pressoché verticale. E noi, chiosa l’autore americano, siamo ormai prossimi al gomito della curva; alle soglie dell’era nuova che Kurzweil definisce singolarità e che vedrà l’Intelligenza – ormai sintesi di umano e artificiale – espandersi e colonizzare l’universo.

Infine, gli ultimi due nomi che qui desidero richiamare sono quelli di Kim Eric Drexler, padre della nanotecnologia, e Aubrey de Grey, biochimico e biogerontologo noto per le sue ricerche nell’ambito della cosiddetta War Against Aging (guerra contro l’invecchiamento). Eric Drexler è un ingegnere americano a cui si deve una delle principali prefigurazioni del prossimo futuro: Motori di Creazione. In quest’opera il presidente del Foresight Institute illustra il potenziale rivoluzionario delle nanotecnologie, ovvero delle tecniche di manipolazione della materia a livello atomico. Rivoluzione che renderà non solo illimitate le risorse di cui l’umanità potrà godere – quando l’uomo saprà lavorare con la necessaria disinvoltura a livello atomico, anche le discariche diverranno miniere preziose – ma che consentirà di miniaturizzare a tal punto gli artefatti tecnologici da rendere banale la loro incorporazione. Se Drexler punta a potenziare la natura umana attraverso l’uso massiccio della nanotecnologia, De Grey scommette invece sulla possibilità di individuare e rimuovere le cause di invecchiamento cellulare. Egli ha infatti elaborato il cosiddetto codice SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence) in base al quale prospetta sette possibili rimendi per neutralizzare i sette fattori che causano vecchiaia e morte.

 

La terza domanda di ogni buon giornalista è “where?” e, nel nostro caso, chiede conto della direzione verso la quale ci spingerà l’innovazione tecnica. Dai brevi cenni alle strategie ipotizzate per dar corpo all’utopia postumanista emerge una geografia piuttosto articolata che dall’infinitamente piccolo (l’affascinante mondo della nanoscala) arriva fino agli spazi infiniti del cosmo, passando per luoghi immateriali come la rete o estremamente fisici come… il frigorifero. Se dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo ho già avuto modo di accennare, gli ultimi due “luoghi” qui richiamati meritano qualche cenno aggiuntivo.

Innanzi tutto la rete, simbolo oltre che strumento concreto. Essa, infatti, non rappresenta solo uno dei principali veicoli della crescita esponenziale cui è soggetta l’evoluzione tecnica. La rete indica anche un ideale a cui ispirarsi: quello di una dimensione condivisa del sapere, che consente l’espansione illimitata del nostro desiderio di conoscenza. Non è un caso che l’innovazione tecnologica punti in modo deciso verso una progressiva incorporazione di quegli strumenti tecnici che ci consentono un collegamento costante con la rete. Più ambizioso ancora, però, è il progetto che non si limita a portare la rete nel corpo biologico, ma che prefigura la possibilità di trasferire l’individualità personale nella rete. Il mind uploading mira infatti al conseguimento dell’immortalità digitale e all’espansione illimitata della conoscenza attraverso la “messa in rete” della diverse coscienze individuali, dalla cui interazione potrà addirittura emergere una “super -mente”.

Accanto alla rete citavo però, certo in modo scherzoso, anche il frigorifero, alludendo con questo al rimedio, temporaneo, cui possono ricorrere quanti avranno la sventura di mancare l’appuntamento con la singolarità. Benché Kurzwail abbia indicato tre ponti che, a suo avviso, ci consentiranno di raggiungere l’immortalità terrena, qualcosa può sempre andare storto e la morte potrebbe giungere anzitempo. In questo caso la crionica consente di conservare il corpo biologico (nella sua interezza o il solo cervello) nella fiduciosa attesa che il prossimo futuro porti in dono una tecnica capace di riportare in vita l’individuo crioconservato, curando le patologie che lo avevano condannato alla morte. Non è un caso che Max More sia a capo di una delle principali aziende del settore.

 

Giunti a questo punto della nostra riflessione, sorge spontaneo chiederci “when?”, quando avverrà questa rivoluzione della condizione umana? Secondo Fereidoun M. Esfandiary il 2030 potrebbe rappresentare la data entro la quale nascerà l’uomo post-biologico, capace di conquistare l’immortalità. Il futurologo di origine iraniana ne era così persuaso da indicare quella data nello pseudonimo con cui è solitamente conosciuto: FM 2030. Qualche anno in più dovremo attendere stando invece alle previsioni di Kurzweil, il quale ha calcolato che, con buona approssimazione, sarà il 2045 l’anno in cui la singolarità tecnologica, e con essa la vittoria sulla morte, diverrà realtà. Si tratta solo di “vivere abbastanza per vivere per sempre”; auspicio che si è guadagnato una celebre copertina di Time Magazine (va detto, però, che recentemente Kurzweil ha dichiarato che, stante l’attuale progressione tecnologica, la singolarità potrà realizzarsi in tempi ancora più stretti). E in casa nostra? Anche in Italia non mancano quanti confidano nell’imminenza del trascendimento da cui scaturirà l’uomo nuovo. Tra essi ricordiamo Gabriele Rossi e la moglie Antonella Canonico, fondatori di iLabs e autori del volume Semi-Immortalità. nel quale viene indicato il 2060 quale data di svolta di un’umanità ormai liberata dal giogo della malattia e della morte.

Indicazioni temporali diverse, quelle qui richiamate, ma tutte accomunate dall’idea che il realizzarsi dell’utopia postumanista sia ormai prossimo (e inevitabile). L’attuale generazione potrebbe quindi essere protagonista del trascendimento evolutivo che renderà obsoleta l’umanità così come oggi la conosciamo.

 

Infine dobbiamo chiederci “why?”. La domanda che si interroga sul perché accogliere con favore la prospettica postumanista è, probabilmente, la più interessante sotto il profilo etico-antropologico. I fautori dell’uomo 2.0 preferiscono formulare la questione in termini leggermente diversi, suggerendo di chiedersi, piuttosto, perché non dovremmo considerare desiderabile una simile prospettica migliorista. Perché non dovremmo ritenere auspicabile quel programma di potenziamento della condizione umana, dato che l’uomo ha da sempre guardato alla tecnica come allo strumento attraverso il quale superare i limiti della propria attrezzatura biologica? Qui non vi è certo lo spazio per una risposta puntuale, ma vorrei offrire comunque qualche spunto di riflessione.

a) L’utopia postumanista si radica su una presa di congedo da ogni concezione essenzialistica della natura umana. In questo modo essa pensa di farsi promotrice di un processo di emancipazione e di liberazione dell’individuo, finalmente capace di scegliere autonomamente il proprio destino. Ma può l’uomo conseguire la propria felicità prendendo congedo da ciò che lo rende autenticamente uomo? Può impegnarsi per una piena fioritura del suo potenziale una volta rifiutato ogni finalismo intrinseco al sua  natura essenziale? Com’è possibile stabilire ciò che è preferibile – di contro a ciò che conduce nella direzione opposta e da cui si vuole prendere le distanze – se si esclude ogni normatività a cui conformarsi e che dia il senso della direzione di marcia?

b) L’ideologia postumanista tende a considerare il presente come il regno del limite; per contro, essa proietta nel futuro il regno dell’illimite, ovvero il realizzarsi della piena autonomia individuale, sciolta da ogni vincolo. Tutto questo può essere visto come un grande investimento fiduciario nel futuro ma, a ben guardare, tradisce una profonda incapacità di vivere il presente. Se limite, fragilità e vulnerabilità sono in sé qualcosa di negativo, qualcosa in cui non è recensibile alcun profilo positivo, alcun senso, allora, fintanto che viviamo nel limite, nella fragilità e nella vulnerabilità le nostre vite rappresentano esistenze radicalmente insensate. È il significato umano del nostro presente che evapora e tutto viene rimandato ad un utopico domani, autentico non-luogo che tradisce un rapporto malato con il proprio tempo  e con il proprio corpo.

c) I progetto postumanista non rappresenta un’impresa a buon mercato; esso richiede forti investimenti economici e grande determinazione. Le ragioni che giustificano tali sforzi sono legate alla promessa di un’umanità migliore. Ma cosa significa migliore? Sembra infatti difficile sostenere che il dato performativo – la capacità di fare più e meglio – possa rappresentare l’unico parametro per valutare il valore (e la dignità!) di una vita.

d) La società descritta dai fautori del movimento postumanista vorrebbe porsi all’insegna della libertà e dell’equità; la liberazione conseguita dall’uomo 2.0 non sarebbe solo un’emancipazione dai limiti fisici e dal bisogno, ma anche un affrancamento dalle autorità esterne. In molti, tuttavia, sollevano fondati dubbi nei confronti di un processo che rischia di generare nuove e più acute disuguaglianze: non solo tra ricchi e poveri, ma tra quanti avranno accesso alle tecniche potenzianti e quanti ne resteranno esclusi, tra l’élite dei post-umani e le masse antiquate degli uomini 1.0.

Le numerose questioni qui richiamate dividono nettamente il campo tra tecno-entusiasti e i cosiddetti bioconservatori o bioluddisti (etichette poco felici con cui vengono classificati i critici del postumanesimo). La posta in gioco è il futuro della natura umana, ammesso e non concesso che a tale sintagma si voglia attribuire ancora un significato. Il fatto è che il non attribuirglielo non sembra aver giovato davvero alla condizione umana.