Il giorno 19 del mese di aprile di quest’anno ricorrerà il primo centenario della scomparsa di uno dei pensatori americani più influenti nel panorama speculativo degli ultimi cent’anni, C. S. Peirce (1839 - 1914). Eppure non è mai diventato professore stabile nell’ambiente universitario statunitense e non ha mai pubblicato un libro unitario, preferendo invece scritti monografici e saggi, molto profondi ma brevi. Pur essendo da tempo riconosciuto universalmente come il “padre del pragmatismo contemporaneo”, lo si ritrova, tuttavia, a dover dire di se stesso, non senza rammarico e una certa delusione: «Sono un uomo di cui i critici non hanno mai trovato qualcosa di buono da dire» (tratto da un suo manoscritto inedito del 1897, “Concerning the Author” in Philosophical Writings of Peirce, ed. Justus Buchler, Dover Publications, NY 1955, p. 3). Spesso incompreso ed ignorato durante la sua breve tormentata vita, oggi è considerato un pioniere di rilevanza capitale in svariati campi del sapere: dalla logica (con la nozione di indexicals, i così detti indicitalia) e la semiotica; la metodologia delle scienze empiriche (con l’idea di fallibilismo di cui ha rimarcato l’importanza); la filosofia della scienza (con la nozione di abduzione); la filosofia del senso comune (con la sua analisi critica del “realismo”); e la matematica (per il suo sistematico utilizzo della logica simbolica).
Peirce ha influenzato il mondo della filosofia anglosassone (e non solo) come pochi pensatori del novecento, mentre durante la sua vita, come dicevamo, è passato pressoché inosservato. Anche se la storia gli ha dato ragione in molti argomenti, le sue battaglie intellettuali venivano considerate, in gran parte, delle vere e proprie battaglie perse. Il suo carattere, piuttosto scorbutico ed irascibile, certamente non lo ha aiutato, e soltanto grazie alla sua amicizia con William James (all’epoca il filosofo più prestigioso del Nord America), poté far fronte ai suoi problemi sia economici che familiari, dovuti in gran parte alla sua proverbiale sregolatezza di vita. È curioso che soltanto dieci anni dopo la sua morte, Bertrand Russell lo definì come «il più grande pensatore del nostro tempo» (B. Russell, Wisdom of the West, ed. Paul Foulkes, Macdonald Publications, Londra 1960, p. 276) e Sir Karl Popper ebbe a confermare tale qualifica anche qualche decennio dopo.
Peirce è stato principalmente un uomo di scienza, avendo preso un titolo di bachelor in chimica e lavorato per più di trent’anni in questo campo; anche per questo le sue riflessioni filosofiche partono quasi sempre dalla sua esperienza, maturata sul campo del suo lavoro scientifico.
Tra le sue intuizioni geniali vi è un punto centrale del suo pensiero che riguarda il rapporto fra la scienza e ciò che egli chiama “metafisica”. Per metafisica, Peirce intendeva soprattutto quella “convinzione filosofica” di fondo che rende intelligibile la natura. E questa intelligibilità è resa possibile grazie ad alcune categorie immutabili che l’intelletto umano utilizza sistematicamente nel suo modo di conoscere. In questo contesto il termine “metafisica” ha, per lui, una connotazione piuttosto negativa (come d’altronde si vede in quasi tutti gli autori della filosofia analitica), riducendosi ad identificare una serie di posizioni dogmatiche che finiscono per ostacolare la ricerca scientifica vera e propria.
Un celebre esempio di come la posizione dogmatica possa frenare una comprensione autentica del mondo reale viene offerto, a suo parere, dalle scoperte di Louis Pasteur. Nell’articolo, The Scientific Attitude and Fallibilism, Peirce narra come Pasteur cominciò ad applicare il microscopio alla chimica. Studiando i cristalli destrogiri e levogiri dell’acido tartarico, scoprì che i due tipi hanno le stesse identiche proprietà tranne quella dell’orientamento della loro rotazione e del comportamento nelle reazioni chimiche. Aggiungendo certi fermenti, Pasteur poté anche identificare i diversi tipi di cristalli, grazie a piccolissimi organismi che agivano su di essi. Un’osservazione che fu alla base dell’ipotesi che i germi fossero organismi vivi e causa delle malattie. All’epoca, però, il mondo della medicina era dominato dall’autorità di Claude Bernard, secondo il quale la malattia non era un’entità ma un insieme di sintomi. Peirce afferma che «Questa convinzione era pura metafisica che ha impedito l’indagine nella giusta direzione» (in Philosophical Writings, p. 51). E così furono proprio i medici che si opposero all’ipotesi di Pasteur, «ma il metodo delle culture e delle inoculazioni provarono la cosa, e qui vediamo nuove idee connesse con nuovi metodi osservazionali ed era un esempio eccellente del processo usuale dell’evoluzione scientifica» (Ibid., p 52). Peirce trae la conclusione che i successi sperimentali di Pasteur non fecero che dimostrare l’efficacia del metodo “induttivo” della scienza sperimentale.
Un altro esempio celebre che Peirce invoca è quello di Keplero, il grande astronomo che studiò per vent’anni il movimento del pianeta Marte. Per Peirce, il lavoro decisivo di Keplero esemplificava quello che è «l’iniziale incominciamento di un’ipotesi e la sua considerazione che è un passaggio inferenziale chiamato abduzione» (dall’articolo, Abduction and Induction del 1901, in Philosophical Writings, p. 151). Keplero, discepolo di Tycho Brahe, noto per la precisione delle osservazioni e misure astronomiche, cercava non solo di descrivere ma anche di spiegare il moto anomalo di questo pianeta: osservò che Marte si spostava più velocemente di 90° nei suoi absidi rispetto al previsto moto uniforme intorno al sole. A quel punto egli si domandò se tale discrepanza fosse dovuta ad un errore nella sua “legge delle aree” o ad uno schiacciamento dell’orbita che poi dimostrò essere ellittica anziché circolare. E Peirce trae questa conclusione: «Keplero ingegnosamente prova che la seconda è la ragione giusta» (Ibid., p. 155). L’ipotesi con cui Keplero spiegò le sue osservazioni era che la traiettoria del pianeta fosse un’ellisse e non una circonferenza, e tale ipotesi rendeva conto della discrepanza di velocità osservata. «Questo è l’esempio più grande di ragionamento abduttivo mai raggiunto nella storia della scienza» (Ibid., p. 156). L’“abduzione” è l’inferenza, basata sull’evidenza empirica, che un’ipotesi, che si presenta solo come probabile, se viene assunta come vera sia effettivamente quella che spiega l’osservazione e quindi possa essere ritenuta corretta. Nel ventesimo secolo, Hilary Putnam, il grande filosofo della scienza nordamericano, chiamerà questo processo “corroborazione delle teorie scientifiche”, nozione che Putnam utilizza per esaminare criticamente l’approccio di Karl Popper: la realtà si presenta in un certo modo, e quando viene sottoposta all’esame dello scienziato, può corroborare o meno le nostre teorie sul mondo.
Tuttavia, anche qui possiamo intravedere l’influenza negativa di quel dogmatismo che Peirce qualifica come “metafisico”. Quando Keplero scrisse a Galileo per illustrargli le sue ricerche e la sua convinzione che i moti dei pianeti seguono orbite ellittiche e non circolari, l’astronomo pisano si rifiutò di accettare questa ipotesi, non riuscendo a svincolarsi dalla convinzione, più che millenaria, proposta per prima dagli antichi greci, che il movimento dei corpi celesti aldilà dell’orbita lunare dovesse essere sempre circolare, perché il cerchio è la forma geometrica perfetta, e i corpi celesti sono perfetti in quanto sono costituiti da una materia incorruttibile.
Una delle frasi di Peirce più citate riguarda la sua concezione della scienza. La troviamo nell’articolo, The Scientific Attitude and Fallibilism, là dove egli asserisce: «Non sarebbe un’esagerazione affermare che dopo la passione d’imparare, non esiste una qualità così indispensabile per la buona prosecuzione della scienza come l’immaginazione» (in Philosophical Writings, p. 43). E Peirce le possedeva entrambe in abbondanza. La scienza per lui è un’impresa tipicamente umana, dove la componente empirica e la componente intellettuale si mescolano e s’aiutano reciprocamente. Egli non era né un realista ingenuo (“il mondo fuori di noi è immediatamente accessibile alla conoscenza”), né un idealista ingenuo (“tutta la conoscenza è racchiusa già nella mente umana, indipendentemente dal mondo esterno”), ma calibrava nella sua visione una sana combinazione delle due possibilità. Come afferma nell’articolo On the Doctrine of Chances: «la verità consiste nell’esistenza di un fatto reale che corrisponde alla proposizione vera» (in Philosophical Writings, p. 160). Da qui deriva il suo apprezzamento per la conoscenza ordinaria, posseduta da tutti gli uomini, che è alla base della conoscenza scientifica; un’eco di tale apprezzamento si trova anche nel pensiero di Michael Polanyi e la sua nozione di everyman. Peirce era convinto che uno scienziato, senza immaginazione, non si sarebbe potuto spingere molto lontano; una convinzione che viene espressa magistralmente, un secolo dopo, anche dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman, che parlava spesso del «piacere di scoprire come sono le cose» (titolo questo di un libro curato da Jeffrey Robbins, 1999, che raccoglie testi scelti di Feynman).
A differenza, però, di Paul Feyerabend (cfr. Contro il metodo, del 1975), Peirce è convinto che esista un metodo scientifico valido che tutti possiamo utilizzare, anche se la storia della scienza ci insegna che il progresso della scienza non è privo di salti strani… strani, sì, ma non completamente “anarchici”, per usare proprio un termine molto caro a Feyerabend. La ragionevolezza del processo scientifico consiste, appunto, nel prodotto finale, che ci fornisce una spiegazione adeguata dei fenomeni naturali – sebbene non di tutti, perlomeno di quelli ai quali il nostro intelletto ha un accesso sufficiente. Ovviamente in Peirce domina il suo interesse per la logica, che per lui è il primo strumento disponibile allo scienziato. La logica è alla base di ogni ricerca. Per questo motivo esiste un metodo nella scienza sperimentale, anche se la strada spesso è tortuosa e non del tutto prevedibile.
Con il suo fallibilismo Peirce mostra la convinzione che la scienza non ci dà una certezza assoluta, nel senso di offrirci una conclusione assolutamente irriformabile. Ma non serve tale certezza apodittica (che è caratteristica esclusivamente della matematica, e alcune forme di teologia), perché possiamo arrivare ad una certezza sufficiente per rendere la scienza utile all’umanità, e questo ci basta. Peirce ci incoraggia a ricordare che dopo ogni conclusione degna di essere “scientifica”, segue la clausola “con un errore probabile di x” (with a probable error of x), dove x ha un dato valore. Questo numero indicativo della percentuale di errore possibile può essere molto vicino allo zero, ma non sarà mai zero nella concezione di Peirce, perché abbiamo a che fare con un mondo contingente che cambia continuamente, anche se la regolarità della natura è un presupposto essenziale dell’impresa scientifica. Non è necessario che la scienza ci dia una certezza apodittica per essere, comunque, scienza a tutti gli effetti.
Molti sono gli spunti trovati negli scritti di Peirce che ancora oggi provocano e stimolano il lavoro degli scienziati, filosofi e anche “l’uomo della strada”. È per questo che celebriamo il centenario della scomparsa di quest’uomo dall’acuta intelligenza, che i suoi contemporanei forse non riuscirono a comprendere fino a fondo. Charles Sanders Peirce era veramente a man ahead of his times, un uomo in anticipo rispetto ai suoi tempi.