Disuguaglianze e globalizzazione

Giulia Maria Cattaneo Piacentini
già docente all'Università di Roma Tor Vergata

Nel mondo di oggi si può parlare di tanti tipi di disuguaglianze. Partendo da considerazioni di ordine prettamente economico si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo due tipi di tali disuguaglianze: quella mondiale (tra paesi) e quella all’interno dei paesi. Innanzitutto è chiaro che quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale , meno relativa, quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.

Qual è l’evoluzione della disuguaglianza tra i tenori di vita? Ebbene, sta avvenendo una doppia inversione di tendenza: da un lato, parlando della disuguaglianza tra stati, dopo un secolo di continuo aumento, la disuguaglianza tra stati da vent’anni a questa parte ha iniziato a diminuire: se nel 1989 il tenore di vita in Francia e in Germania era di venti volte superiore a quello della Cina o dell’India, ora tale divario si è dimezzato. D’altra parte la disuguaglianza all’interno di molti paesi è invece andata aumentando, dopo un lungo periodo stazionario. Quindi dobbiamo sempre metterci d’accordo su quale tipo di disuguaglianza stiamo parlando.

Una spiegazione della diminuzione della disuguaglianza tra stati negli ultimi 20 anni è dovuta alla innovazione tecnologica, al miglioramento dell’istruzione, alla formazione della manodopera, alle conoscenze tecniche e scientifiche. Anche se i paesi meno sviluppati non possiedono tutte le tecnologie dei paesi sviluppati, è come però se questi ultimi si trovassero sulla frontiera tecnologica e crescano assieme a questa, mentre i paesi in via di sviluppo si trovassero al di qua della frontiera e la loro crescita è dovuta alla capacità di adattare la propria situazione alle tecnologie e all’organizzazione economica osservati nei paesi sviluppati. Naturalmente non tutti i paesi in via di sviluppo stanno conoscendo questo processo di crescita.

Per quanto riguarda l’altro tipo di disuguaglianza, quella all’interno dei singoli stati, questa è leggermente aumentata nel corso del 19° secolo, per poi ridursi notevolmente tra la prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra. La realizzazione di grandi sistemi di redistribuzione e anche l’egualitarismo imposto dalle rivoluzioni russa e cinese sui propri territori ha ridotto infatti tale disuguaglianza nella maggior parte dei paesi sviluppati. Poi c’è stato uno stallo fino alla fine degli anni ottanta, e da questo momento la disuguaglianza interna agli stati è andata aumentando: siamo sempre sotto il livello medio precedente alla prima guerra mondiale, ma comunque aumenta. Quindi lo sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, di quelli in via di sviluppo contribuisce a ridurre la disparità tra i tenori di vita degli abitanti dell’intero pianeta, ma l’aumento delle disuguaglianze interne tende, al contrario, ad aumentarla. Oggi come oggi la prima tendenza prevale sulla seconda, e quindi la disuguaglianza globale è in diminuzione, ma non è detto che sarà sempre così.

Dato che il problema delle disuguaglianze è abbastanza uniforme, è difficile non collegarlo a cause comuni, e in particolare alla globalizzazione.

Innanzitutto vediamo di definire il termine di globalizzazione. Sembra una domanda ingenua, dato che questo termine ha ormai invaso al nostra vita e tutti più o meno sappiamo di cosa stiamo parlando. Ma in realtà la risposta a questa domanda è assai complessa, tanto che è molto difficile darne sia una definizione sia una descrizione. Alcuni elementi caratteristici della globalizzazione sono ad esempio:

1) La formazione di un mercato finanziario globale: le tecnologie della comunicazione consentono il trasferimento in pochi secondi di enormi capitali da un continente all’altro. L’informazione non ha limiti, quindi la crisi della borsa di un paese si riflette, nel giro di pochi minuti sulle borse degli altri paesi. Il termine “villaggio globale”, che ormai è di uso comune, esprime bene la velocità e la diffusione della comunicazione nel mondo, per cui le notizie e le conoscenze non sono più ristrette a un numero limitato di individui ma diffuse e condivise in tutto il globo.

2) Il potere della conoscenza delle tecnologie: le innovazioni tecnologiche non sono più necessariamente nei beni e nei servizi scambiati, ma sono incorporate nelle menti degli individui. In altre parole, per trarre vantaggio, in termini tecnico-scientifici, dalla conoscenza, occorre aver superato una determinata soglia di sapere, in modo da poter dialogare con tale conoscenza.

3) Iperconcorrenza: la legge della competitività portata alle estreme conseguenze.

4) Perdita di rilevanza dello stato o del sistema nazionale.

5) Formazione di una cultura globale.

La globalizzazione si rivela come un fenomeno ambivalente: c’è chi la mitizza e ne mette in luce gli aspetti positivi, e chi la demonizza, pensandola causa di tanti mali. Di sicuro la globalizzazione ha ridotto il livello di disuguaglianza tra paesi, facendo uscire centinaia di milioni di persone dalla soglia di povertà. All’interno dei paesi ha invece contribuito direttamente o indirettamente ad un suo aumento: infatti attraverso la globalizzazione viene diminuita la remunerazione relativa del lavoro scarsamente qualificato, che subisce la concorrenza diretta della manodopera a buon mercato delle economie emergenti, e vengono aumentati i profitti del capitale e del lavoro altamente qualificato. I contrari alla globalizzazione quindi ritengono che la globalizzazione sia un fenomeno che impoverisce ancora di più i già poveri e arricchisce ancora di più i ricchi.

Dal punto di vista strettamente economico ci sono varie domande, che io lascio come quesiti, (nel libro La globalizzazione della disuguaglianza l’economista François Bourguignon cerca di fornire alcune risposte). In questo “scontro” tra diminuzione delle disuguaglianze tra paesi e aumento di quelle all’interno dei paesi, si deve “lasciar fare” al tempo e stare a guardare come si svilupperà questo scontro? E poi la disuguaglianza interna in aumento sarà il prezzo da pagare perché le economie nazionali si sviluppino efficacemente in un mondo globalizzato?

Infine c’è la questione relativa alla relazione tra disuguaglianze (o uguaglianza) ed efficienza economica. Cosa deve intendersi per efficienza in economia? Secondo alcuni economisti, si dice efficiente una situazione in cui non è possibile aumentare il benessere di un soggetto senza diminuire quello di un altro. Di sicuro, troppa disuguaglianza ostacola il funzionamento dell’economia. Ad esempio, quando in una nazione ci sono alunni dotati che però non hanno accesso all’istruzione superiore perché le loro famiglie non possono permetterselo, e viceversa vanno all’università ragazzi anche non particolarmente dotati, nati in ambienti privilegiati: questo è un caso di economia non efficiente. Così, ad esempio, uno stato in cui c’è una violenza endemica non potrà avere un’economia efficiente perché la popolazione e lo stato saranno costretti a destinare gran parte del loro bilancio alla sicurezza.

François Bourguignon conclude il saggio già citato dicendo che in questo contesto un dato positivo è la comparsa di una coscienza mondiale del legame che collega globalizzazione e disuguaglianze. E’ verosimile che la disuguaglianza continuerà a diminuire ancora per un lungo periodo, soprattutto se si ha la volontà di accelerare la crescita dei paesi più poveri. Allo stato attuale sarebbe sufficiente che i paesi sviluppati ed emergenti fossero in grado di controllare l’incremento delle disuguaglianze interne alle proprie economie per fermare la globalizzazione della disuguaglianza conservando al contempo i lati positivi della globalizzazione. Ne hanno la capacità, ma ne hanno la volontà? In realtà la lotta alle disuguaglianze deve diventare impresa comune, invece che l’iniziativa di paesi isolati. Evitare la globalizzazione della disuguaglianza passa attraverso una globalizzazione della redistribuzione che non può rimanere compito dei singoli paesi.

Proprio perché ci troviamo in un mondo globalizzato, in un villaggio globale, veniamo a conoscenza continuamente di ciò che avviene nella altre parti del pianeta e quindi non possiamo ignorarlo, dobbiamo sentircene responsabili. Tuttavia quello che noi veniamo a conoscere è selezionato non secondo nostre scelte, ma secondo ciò che taluni decidono di farci conoscere. E magari quando non fa più notizia, queste informazioni si spengono, anche se i problemi restano. Ciò significa che siamo, sì, globali, ma non siamo un “villaggio”: in un villaggio ci si guarda negli occhi, ci si conosce, si condividono le gioie e le pene di tutti. In definitiva, la globalizzazione deve essere per l’uomo.

A questo punto si impone un’etica per disciplinare la globalizzazione. A questo proposito la voce della Chiesa Cattolica si è fatta sentire più volte nel corso degli anni. Nell’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI ad esempio si dice, in riferimento alla visione cristiana dello sviluppo, che “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. E poi: “se il perseguimento dello sviluppo richiede uno sviluppo sempre più grande di tecnici, esige ancor di più degli uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca di un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori d’amore, d’amicizia, di preghiera e di contemplazione. In tal modo potrà compiersi in pienezza il vero sviluppo, che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane”.

Bellissima è l’elencazione di tutte le situazioni meno umane e di quelle più umane:

Meno umane: le carenze materiali di coloro che sono privati del minimo vitale e le carenze morali di coloro che sono mutilati dall’egoismo. Meno umane: le strutture oppressive, sia che provengano dagli abusi del possesso che da quelli del potere, dallo sfruttamento dei lavoratori che dall’ingiustizia delle transazioni. Più umane: l’ascesa dalla miseria verso il possesso del necessario, la vittoria sui flagelli sociali, l’ampliamento delle conoscenze, l’acquisizione della cultura. Più umane altresì: l’accresciuta considerazione della dignità degli altri, l’orientarsi verso lo spirito di povertà, la cooperazione al bene comune, la volontà di pace. Più umane, ancora: il riconoscimento da parte dell’uomo dei valori supremi, e di Dio che ne è la sorgente e il termine. Più umane infine e soprattutto: la fede, dono di Dio accolto dalla buona volontà dell’uomo, e l’unità nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini.”

Nel parlare della proprietà, Paolo VI cita S. Ambrogio, che afferma: “non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché quel che è dato in comune per l’uso di tutti è ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi.”

E l’ultimo appello della Populorum Progressio è: “Voi tutti che avete inteso l’appello dei popoli sofferenti, voi tutti che lavorate per rispondervi, voi siete gli apostoli del buono e vero sviluppo, che non è la ricchezza egoista e amata per se stessa, ma l’economia al servizio dell’uomo, il pane quotidiano distribuito a tutti, come sorgente di fraternità e segno della Provvidenza.”

Infine arriviamo ai giorni nostri con Papa Francesco che nella Evangelii Gaudium dice parole molto forti: chiaramente l’iniquità è la radice dei mali sociali. Parla dell’economia che uccide: no a un’economia dell’esclusione e della iniquità, no alla nuova idolatria del denaro, no a un denaro che governa invece di servire, no all’iniquità che genera violenza. Prego il Signore, dice, che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri. E’ indispensabile, che i governanti e il potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini. E perché non ricorrere a Dio affinché ispiri i loro piani? Sono convinto, continua, che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale.

Vorrei concludere con una riflessione su Teilhard de Chardin, che forse possiamo considerare un profeta di una nuova globalizzazione. Profeta, perché le considerazioni di Teilhard de Chardin risalgono agli anni ’50, quando non si parlava ancora dei problemi della globalizzazione né tanto meno di nuova globalizzazione.

Per Teilhard de Chardin una vera globalizzazione deve seguire il progetto dell’Universo, nel quale Dio e l’Uomo sono contemporaneamente attori e protagonisti, per condurre tutta la storia del mondo ad un preciso sbocco. Per fare ciò occorre un processo educativo degli uomini che abbia il suo fondamento sulla scienza evolutiva e sulla Fede. Questa è l’unica strada per salvare l’umanità e condurla al Fine Ultra Umano a cui è stata destinata. Teilhard de Chardin non prevedeva che un Papa, Giovanni Paolo II, nel 2004 avrebbe detto che la fede e la scienza sono come due ali del sapere.

La globalizzazione inaugura una nuova era umana, che Teilhard de Chardin paragona ad una via Crucis perché richiede rapidi adattamenti e questo produce incertezze e paure. Ricordiamoci che stava parlando nell’immediato dopoguerra, e pure in questo contesto afferma che, malgrado tanti odi scatenati durante i sei anni di guerra mondiale, il blocco umano non si è disgregato. Più ci respingiamo, più ci compenetriamo. Teilhard è ottimista e non ha dubbio che la terra è in via di unificazione. E ricordiamo che per questo pensatore la vera Unione differenzia, non fonde le persone.

Teilhard de Chardin pensa ad un neo-ecumenismo globale, che faccia prendere coscienza a tutti gli uomini di essere ospiti e pellegrini di questa terra, di abitare in una casa comune. E se vogliamo vivere in pace, dobbiamo sapere stare insieme, in una casa (dalla natura vegetale, animale, tecnologica) che appartiene a tutti e nessuno può appropriarsene cacciando fuori gli altri. Teilhard aspira ad un gruppo di governo globale, che rappresenti la diversità di tutti i popoli, applicando il principio di sussidiarietà, per la tutela di tutti i popoli, il cui compito sia soprattutto quello di educare le coscienze a costruire la pace e il vero progresso. Oggi, in un contesto di delegittimazione e svuotamento di significato degli organismi sovranazionali, la visione di Teilhard può essere ancora di stimolo per l’edificazione di una casa comune mondiale, basata non sulle alleanze mutevoli tra poteri ma sull’ideale della progressiva affermazione dei diritti umani.

NOTA

Il presente contributo ha come fonte il libro La globalizzazione della disuguaglianza di François Bourguignon per la parte più propriamente economica. Per come le disuguaglianze interpellano la nostra fede, ci si è basati sull’enciclica Populorum progressio di Paolo VI, su una raccolta di interventi del Cardinale Tettamanzi, sulla Evangelii Gaudium. Per la visione di Teilhard de Chardin come profeta di una nuova globalizzazione è stato d’ispirazione il libro di Vincenzo D’Ascenzi: Teilhard de Chardin a fronte della globalizzazione.