Pavel A. Florenskij è stato un uomo profondamente assetato della Verità: egli l’ha cercata con inesausta passione in ogni piega della vita, fino all’annientamento di sé nel gulag delle Solovki.
Quasi fosse un moderno Agostino, Florenskij intreccia saldamente nelle proprie opere vita e pensiero: l’infanzia e la giovinezza trascorse in Georgia, a stretto contatto con la natura del Caucaso, rappresentano la fonte primigenia di quella percezione del mistero che rimarrà sempre latente nell’opera floreskijana. Seguiranno poi gli studi liceali, la crisi esistenziale nell’estate del 1899, la decisione di iscriversi alla Facoltà di Fisica e Matematica dell’Università di Mosca, l’approdo alla Facoltà Teologica. Prima di ricevere l’ordinazione presbiterale si sposerà con Anna M. Giacintova, da cui avrà cinque figli, la cui educazione sarà primaria preoccupazione anche durante l’impegno professionale all’Accademia. Infine la ricca trama biografica si concluderà con la ferma e silenziosa resistenza al regime comunista, i due arresti e la solitudine del lager: tutto concorrerà alla strutturazione di quel pensiero vitale e dinamico, tipico dell’ermeneutica florenskijana.
La ricerca della Verità (Istina) può essere considerata come il perno di tutta l’avventura conoscitiva di Florenskij, il quale ha interpellato pressoché ogni ambito del sapere, indagando nuove forme di ragione, desideroso di scoprire i nessi nascosti dell’essere, attento a far emergere la trama che soggiace alla realtà visibile.
Tale disvelamento è ammissibile solo se all’uomo sia dato realmente di conoscere, cioè se vi sia una via d’uscita alla kantiana separazione fra fenomeno e noumeno, attingendo al senso dei fenomeni, al di là di ogni apparenza. La principale opera florenskijana, La colonna e fondamento della verità, può dunque essere concepita come il tentativo di dare risposta a questa domanda attraverso una rigorosa analisi, condotta con perfetta acribia. Si procede dal constatare che i principi costitutivi del pensiero, principio d’identità e di ragion sufficiente, sono fra loro contraddittori: il primo rischia di decadere in un’astratta tautologia, esprimibile mediante la formula matematica A=A; il secondo invece non ha fine, in quanto ogni fenomeno può essere riportato ad una causa precedente, e così all’infinito. Nessuno dei due principi, presi in se stessi, sono in grado di produrre una conoscenza stabile in grado di scendere fino alle radici dell’essere. Unica soluzione possibile sembra trovarsi nella scepsi, cioè in quella posizione filosofica secondo la quale ogni tesi indimostrata e non evidente per se stessa deve essere considerata inattendibile. Il dubbio metodico assunto a regola di vita non costituisce però un paradisiaco punto di arrivo, bensì una vera e propria condanna, un tormento pieno di struggimento, lasciando l’individuo annegare in un mare d’instabilità. Proprio a questo punto del cammino, quando il pensiero sembra impazzire, l’innato desiderio di vivere fa echeggiare una nota di speranza: forse può esistere l’integra Verità, la Verità che supera la semplice certezza logica, la Verità che esprime simultaneamente in se stessa tesi e antitesi, senza risolverle in una hegeliana sintesi, mantenendo viva la tensione fra gli opposti.
Un tal oggetto può esistere, ma la sua possibilità non rappresenta ancora la sua esistenza, la quale non è producibile da mani d’uomo, ma ha la forma di un dono indeducibile, fatto dallo Spirito Santo ad un cuore puro. La filosofia si apre alla fede ricevendo in dono la Verità che permette alla ragione di esistere: essa consiste nello svelamento della Trinità, mistero d’unità e diversità, coincidenza di opposti, dalla quale dipende la struttura triadica della conoscenza, per cui A=A in quanto è anche non-A. Il principio d’identità non è più l’egoistica affermazione di se stessi, ma si lascia definire attraverso e nella relazione con un altro; così come il principio di continuità diviene il tutto contenuto nel frammento, totalità immanente al particolare, approfondimento del mistero insito nell’essere senza la pretesa di esaurirlo. Per un tale processo conoscitivo non è sufficiente l’abilità del singolo a carpire concetti, ma è necessaria l’azione della Grazia, che opera in un cuore puro. La conoscenza non è più solo frutto dalla retta applicazione di principi e norme, ma presuppone l’unione sostanziale fra soggetto ed oggetto, senza divisione e senza confusione, per cui Florenskij non teme di esagerare quando afferma che per conoscere è necessaria la divinizzazione dell’uomo.
La conoscenza è dunque relazione: sapienza di un cuore reso integro dallo Spirito Santo e non più frammentato dal peccato, principio di divisione che annienta la possibilità di fondare il pensiero. Solo una ragione relazionale può scorgere il noumeno attraverso il fenomeno, il senso delle cose fra le fratture della vita, in momenti di estrema sofferenza o d’inaudita bellezza.
Una conoscenza relazionale si trasforma in amore, condividendo con questo lo stesso movimento: uscita da sé per andare verso il diverso da sé e ritorno in sé attraverso l’altro da sé. La conoscenza non è mai sforzo del singolo, ma ha una dimensione ecclesiale, necessita dell’amico/fratello, cioè di un Tu attraverso il quale conoscersi e conoscere. L’amicizia, e non la biblioteca, è il campo di possibilità all’interno del quale avviene il sapere vitale.
Dedicare un breve editoriale a «Conoscenza e Sapienza in P. A. Florenskij» non vuole di certo avere la pretesa di esaurire l’argomento, l'obiettivo è soprattutto quello d’incontrare e introdurre ad un pensiero diverso dal modo occidentale di ragionare, ma non per questo meno rigoroso e profondo, e attraverso questo pensiero incontrare anche la storia di un presbitero e martire.