In un articolo del 2009 pubblicato dal British Journal of Educational Studies (The Very Idea of a University: Aristotle, Newman, and Us), il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre argomentava contro alcuni critici circa l’attualità dell’idea di università di J. H. Newman. Le tre questioni intorno alle quali ruota il dibattito sono i capisaldi del progetto del cardinale inglese: unità del sapere, ruolo della teologia nell’educazione universitaria, “utilità” o senso dell’università. Proviamo ad affrontare questi aspetti per approfondire la possibilità di esistenza dell’università così come concepita da Newman e ripresa, pur con delle differenze, da MacIntyre, in una società pluralista come quella contemporanea. Proveremo anche a confrontarci con altri autori che, avendo a cuore il tema dell’università, si sono espressi in merito a questioni simili.
Cominciamo con una considerazione molto diretta frutto della realtà o perlomeno dell’esperienza personale di chi scrive. L’università contemporanea vive una drammatica situazione di frammentazione del sapere. Gli eventi economico-sociali degli ultimi anni ci permettono di definirla drammatica; il perché è molto semplice, e a comprenderlo può aiutarci un esempio.
Nel novembre 2008 la regina Elisabetta, durante una visita alla London School of Economics, commentando alcuni grafici sulla crisi finanziaria in corso, chiese ai professori presenti perché nessuno avesse previsto quel crollo. Il direttore della facoltà di Management rispose che in ogni momento di quella fase qualcuno faceva affidamento su qualcun altro e ciascuno pensava di fare la cosa giusta.
Questa breve storia di cronaca, fotografa una situazione che il prof. Piketty, nella prefazione de Il Capitale nel XXI Secolo descrive così:
Diciamolo francamente: la disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazioni puramente teoriche, sovente molto ideologiche, a scapito della ricerca storica e del raccordo con le altre scienze sociali. Troppo spesso gli economisti si preoccupano di problemi matematici che interessano solo loro, problemi che, con poco sforzo, li fanno sentire scienziati e che li esonerano dall’impegno di rispondere alle questioni ben più complesse poste dal mondo circostante. Essere economisti universitari in Francia ha un grande vantaggio: gli economisti sono considerati relativamente poco importanti sia dal mondo intellettuale e accademico, sia dalle élite politiche e finanziarie. Il che obbliga gli economisti a rinunciare alla loro diffidenza per le altre discipline e alla loro assurda presunzione di un rigore scientifico superiore, anche in considerazione del fatto che, chi più chi meno, non sanno un bel niente di niente. (Bompiani, Milano 2014)
In un mondo professionale guidato dalla divisione del lavoro, la specializzazione è stata la risposta del mondo universitario: corsi di laurea sempre più focalizzati in singoli ambiti e sempre meno in grado di fornire chiavi di lettura di fenomeni che abbracciano diverse discipline o, meglio, l’essere umano intero. Una incomunicabilità che è conseguenza diretta della specializzazione e che va superata non combattendo questa ma piuttosto il suo fratellastro: il riduzionismo. È il pensiero riduzionista, così come definito da John Polkinghorne, il vero nemico della mente educata, educated mind, che impedisce all’intelletto di raggiungere la sua perfezione rendendo impossibile il confronto interdisciplinare, dove le varie discipline dialogano tra loro e capiscano di dipendere l’una dall’altra:
un riduzionista ritiene che un sistema complesso non sia nient’altro che la somma delle sue parti, per cui si può dar ragione del sistema “riducendone” la considerazione a quella dei singoli costituenti. Un antiriduzionista, al contrario, ritiene che il tutto sia maggiore della somma delle parti, per cui vi sono proprietà “olistiche” che non possono essere descritte in termini dei puri elementi costituenti. (Riduzionismo, in G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Dizionario Interdisciplinare di scienza e fede, Città Nuova – Urbaniana University Press, Roma 2002).
Il dibattito circa il tipo di relazione caratterizzante l’interdisciplinarietà è aperto. Per Newman prima, e MacIntyre dopo, in questo momento entra in gioco il ruolo della teologia – intesa come la ricerca della verità su Dio – proposto come il principio ordinatore delle varie discipline. Se si riflette sulla distanza tra lo stato reale del mondo universitario e il modello avanzato non è facile per quest’ultimo esimersi da critiche di insostenibilità e inattualità. Riuscire a impostare una istituzione del genere richiede il tornare a riflettere sul senso dell’università, sul suo telos, sul bene interno da perseguire. Una istituzione universitaria che abbia come fine, legittimi criteri utilitaristici – la formazione di professionisti, di tecnici, di funzionari amministrativi e pubblici – non può contemplare un curriculum diverso da quello che potremmo definire riduzionista. Semplicemente sarebbe un’incoerenza interna proporre un programma di studi capace di coinvolgere ambiti diversi e, per di più, lo studio della teologia.
Questo tipo di università risponde invece a un fine specifico che è quello di luogo preposto alla ricerca della verità. Romano Guardini amava ripetere che l’università si ammala, appena la verità cessa di essere la norma nella coscienza dell’università, e forse proprio dalla ricerca circa la verità si dovrebbe ripartire. Un primo punto di partenza che si può riscontrare in questo senso è la volontà di esattezza di cui parla lo stesso Guardini e che ancora oggi caratterizza lo studio di molte discipline. L’esattezza fornisce un metodo, una via del conoscere affidabile e sicuramente è un qualcosa da valorizzare enormemente. Ma la volontà di esattezza se non ha alle sue spalle la volontà di verità rischia di inaridirsi, di perdersi in modelli sterili, validi ma non veri, rinchiusi nel loro specifico ambito e non aperti ad una chiarezza ultima.
Parlare oggi di verità è qualcosa che indubbiamente spaventa, a maggior ragione se a prevalere è l’idea che, data la varietà di culture esistenti, sia impossibile trovarla e sia quindi preferibile lasciare massima libertà in tutto ciò che non leda le condizioni minime di convivenza sociale. Una proposta, questa, tipica del pensiero liberale che vorrebbe fare della sua forza la capacità di presentarsi come posizione neutra quando invece sottende il farsi essa stessa verità, come giustamente evidenzia MacIntyre in Whose justice? Which rationality? (Duckworth, London 2001)
La strada per la ricerca della verità può passare allora attorno al concetto di cultura. Ortega y Gasset la definisce come il sistema di idee vive delle quali il tempo vive.
la Cultura è il sistema di idee vive che ogni epoca possiede (…). Queste che io chiamo ‘idee vive o di cui si vive’, sono né più né meno, che il repertorio delle nostre effettive convinzioni sul mondo, sul prossimo, sulla gerarchia dei valori che hanno le cose e le azioni: alcune sono più stimabili, altre di meno (…) Esiste sempre un sistema di idee vive che rappresenta il livello superiore del tempo, un sistema che sia pienamente attuale. Questo sistema è la cultura (…). Nella nostra epoca il contenuto della cultura proviene per la maggior parte dalla scienza. Ma quanto abbiamo detto basta per far notare che la cultura non si identifica con la scienza. (La Missione dell’Università, Guida Editori, Napoli 1991, pp 68-70)
Riconoscere che ogni sistema sociale possiede delle idee madre proprie è il primo aspetto da sottolineare. Joseph Ratzinger in Fede, Verità, Tolleranza (Cantagalli, Siena 2003), spiega molto chiaramente questo processo di incontro tra culture diverse.
“L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte le differenze della sua storia e delle sue creazioni comunitarie, è un identico unico essere. Questo essere unico che è l’uomo, nella profondità della sua esistenza, viene intercettato dalla verità stessa (…). L’incontro tra le culture non può che essere la comune verità sull’uomo, nella quale è sempre in gioco la verità su Dio e sulla realtà nel suo complesso.”
L’università potrebbe essere allora intesa come il luogo per antonomasia dove tale confronto di idee avviene. Per MacIntyre, l’università diviene il luogo delle crisi epistemologiche delle culture, delle ricerche morali: ogni sistema di idee, ogni cultura, la cui dignità si mostra nella sua apertura, nella sua capacità di dare e di ricevere, di svilupparsi, di diventare più conforme alla verità, all’uomo, si confronterebbe qui con le altre sue rivali in una crescente ricerca del vero.
La proposta, contenuta in Enciclopedia, Genealogia e Tradizione (Massimo, Milano 1993), di istituzionalizzare il conflitto esistente tra le varie idee madre o sistemi di cultura o di ricerca morale, consentirebbe una competizione tra università rivali tanto quanto lo sono le versioni di ricerca morale, ciascuna portatrice di una specifica proposta. La società pluralista si configura quindi come lo schema non definitivo ma necessario per questa ricerca.
Una istituzione simile dovrebbe essere pronta a rispondere della sua utilità. MacIntyre suggerisce che le università siano i luoghi nei quali concepire i criteri di giustificazione razionale, dove quei criteri trovano applicazione nelle pratiche particolari della ricerca e dove vengono valutati razionalmente; insomma, l’università come il luogo della formazione della capacità di giudizio. Una proposta che Newman sicuramente anticipa quando parla del gentlemen, come colui che si sente a suo agio in qualsiasi ambiente intellettuale.
Una tale università può essere avanzata solo da persone con una vocazione specifica, che a partire dagli scritti di s. Giovanni Paolo II potremmo ricostruire come “vocazione universitaria”, intesa come amore alla verità, desiderio di accostarsi al mistero del mondo e dell’uomo con gli strumenti delle scienze, del sapere filosofico e religioso, come la dedizione nell’adoperarsi al progresso materiale e morale di ogni essere umano (cfr. G. Tanzella-Nitti, Passione per la verità e responsabilità del sapere: un’idea di università nel magistero di Giovanni Paolo II, Piemme, Casale Monferrato 1998). In un breve articolo comparso sul New York Times (Robert Frodeman and Adam Briggle, ‘When Philosophy Lost Its Way - The New York Times’), due docenti di filosofia dell’ Università del Texas, riprendendo le considerazioni di MacIntyre circa il ruolo marginale della filosofia nella società e nell’università contemporanea, adducono come cause principali: l’essersi resa disciplina scientifica tale e quale alle altre e l’aver scisso la conoscenza dalla virtù nella persona del filosofo. Volendo soffermarsi ora su questo secondo aspetto ed estendendo questa problematica al professore universitario (Ricordiamo che per Newman c’è differenza tra ricercatore e professore universitario che si caratterizza più come un maestro), è interessante notare come il venire meno di questo legame tra il conoscere e l’essere buono sia per il filosofo scozzese una delle ragioni della crisi universitaria.
Una delle idee fondamentali della prospettiva etica di MacIntyre, che ritroviamo innanzitutto in After Virtue (University of Notre Dame Press, Notre Dame 2007), ruota intorno all’unità di vita. L’uomo non può raggiungere una piena contemplazione della verità se non vive secondo la verità; non si può quindi sottovalutare la portata pratica dell’indagine filosofica. È lo stesso discorso che avanza San Tommaso nella Summa Theologiae circa l’unità tra le virtù: tra la vita pratica e la vita della sapienza.
Il ruolo del docente universitario e il rapporto tra professore e studente sarà quindi centrale. Ancora San Giovanni Paolo II ci ricorda che solo un rapporto personale – cioè colto nel suo aspetto virtuoso prima che numerico – può permettere che l’università ospiti una cultura di massa che sia allo stesso tempo cultura di persone: una promozione di massa della persona umana. Questo aspetto differenzia certamente e positivamente, aggiungiamo noi, l’idea di università per pochi che poteva avere Newman rispetto a quella qui avanzata.
Una tale università – luogo privilegiato per l’educazione delle virtù – si va configurando come quella comunità di virtù, di cui MacIntyre sente giustamente molto forte la necessità: “una comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi”.