Non sono trascorsi molti anni da quando J. Ratzinger, durante le lezioni estive a Regensburg, certificò l’oscurarsi della teologia della creazione nella storia della teologia contemporanea, individuandone alcuni precisi aspetti: l’escatologia secolarizzata assunta dalla teologia della liberazione, i rischi di uno gnosticismo tendente al rifiuto del mondo, i postumi dell’esistenzialismo ateo, il primato della categoria di elezione su quella di creazione che spinse la soteriologia di Von Rad a coprire gli ultimi stalli della metafisica.[1] Nonostante C. Westermann avesse contribuito a recuperarne il senso biblico, mancava ancora l’aggancio storico-sincronico in grado di cominciare una dialettica reale con la storia e le scienze. La ripresa di questo confronto ristabilì il valore relazionale e dinamico della teologia trinitaria contemporanea: dal sinergismo di A. Ganoczy a J. Polkinghorne fino alla teologia sistematica di W. Pannenberg, il tentativo fu quello di riscoprire la libertà del Dio creatore continuamente sintonizzata con la mediazione salvifica del mondo e delle forze materiali, fisiche e spirituali poste al suo interno. «La materia è l’elemento che fa spazio a Dio nel suo farsi uomo»,[2] scrive Romano Guardini, sul risveglio dell’antropologia teologica del XX secolo. Così pure Brambilla:
Dal mondo non soltanto l’uomo viene a sapere del carattere buono della vita, per sé e per gli altri, ma soprattutto mediante il mondo può decidersi per la figura della vita promessa a Dio. Da ciò deriva il carattere di “medio” simbolico del mondo (che è già dato/donato e ci precede, non solo come natura, ma come natura in una cultura) il quale, in quanto simbolico, manifesta un senso che deve essere scelto praticamente dall’uomo, per sé e per gli altri, perché in esso e con esso si approdi alla vita promessa da Dio.[3]
Una teologia trinitaria che sappia rispondere alle istanze del mondo moderno pare invocare quindi la cura di un linguaggio extra-trinitario in cui la vita del mondo, direbbe Pannenberg, chiede di essere pensata nella sua legittima contingenza, poiché scaturita dalla libertà dell’unico Dio nell’unità del Figlio, la cui ragione ontologica (il Verbo) non semplicemente fa spazio al volto unico del Figlio ma ne diversifica la generazione spirituale nelle sue creature:
Se infatti il Figlio eterno esce, nell’umiltà della sua auto distinzione dal Padre, dall’unità della divinità, lasciando che il Padre soltanto sia Dio, vuol dire che la creatura viene alla luce come controparte del Padre, o più precisamente ancora che ha avuto origine una creatura per la quale il rapporto con Dio ora si tematizza come rapporto con il Padre e Creatore: ha avuto origine l’uomo.[4]
La libertà della creazione biblica (cf. Cost. dogm. Dei Verbum 2; 2Mac 7, 28; Rm 4,17; Eb 11,3) andrebbe pertanto intesa nell’ottica di una contingenza che riduca il rischio dell’omologazione dei suoi effetti, secondo antichi echi di tradizione scotista, e allo stesso tempo superi il “no” perentorio del mondo di scuola barthiana, nonostante quest’ultima abbia contribuito a disporre una quadratura più cristocentrica del creato. Per ristabilire l’assetto trinitario tra creazione-salvezza e non rischiare una deriva nella discontinuità fine a se stessa o nell’inflazione infinita degli universi pieghevoli, sarebbe necessario munirsi di categorie che siano in grado di far parlare la permissività originaria di Dio riservata all’unico atto della creazione e alla conservazione del suo differenziarsi entro dinamiche figurali d’attesa e compimento, in breve in grado di concepire il carattere escatologico della stessa creazione, al di là di ogni viziosità storicista. Un passaggio cruciale di cui si occuparono teologi come R. de la Peña, J. Moltmann e lo stesso J. Ratzinger. Questo “trillo di sentinella” risulterebbe ancor più valido tenendo ferme alcune costanti biblico-antropologiche che ne tutelino la contingenza, il dinamismo ragionevole e armonioso tra l’unicità di un evento libero e l’articolazione del suo coinvolgimento pienamente storico. Tali forme irrinunciabili per la teologia coincidono con alcuni nuclei di senso fondativi come il principio libero di elezione, l’essere pensati da sempre per la salvezza (cf. Mal 1,1-5; Rm 9, 1-26), la fedeltà alla promessa e la “serietà” salvifica della mediazione storica in Cristo (cf. Is 2,2; Mi 4,19; Mal 1,11). Un simile prontuario di mediazione, proprio del Logos di rivelazione, avrebbe il merito di custodire il divenire creaturale da ogni moltiplicazione autoprodotta e distopica dei suoi piani: la creazione ci precede come dono (cf. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 35; Caritas in veritate, n. 52; Francesco, Laudato si’, n. 67).
Come ricordò magistralmente H. V. Balthasar:
Si riesce a penetrare in profondità soltanto con l’evento trinitario, nel quale Dio Padre “concede” al Figlio (einräumt) ed entrambi “concedono” allo Spirito Santo (einräumen) la possibilità di essere lo stesso Dio, e questo “concedere spazio per l’altro” (Raum) è insieme un eterno “maturare”, far diventare un dato di fatto, farsi evento, il cui verificarsi è eterno “presente”. Che parola stupenda! Infatti ci dice che qualcosa è rivolto a se stesso (wart, wärtig contiene sia il tedesco “diventare”, werden, sia il latino vertere, “girare”). […] È solo in seguito a queste riflessioni che si può attribuire un senso vero e proprio al termine biblico di zoé aiónios, vita eterna. Questa vita è esattamente il contrario del Nunc stans al quale è stata a torto equiparata. Il Nunc stans sarebbe una forma perversa ed effettivamente infernale di eternità, in cui non c’è più aria e libertà né uno spazio aperto per vivere ed agire: […] la vera immagine della dannazione.[5]
Questo “lasciar essere” tipico della persona trinitaria garantisce non soltanto la creazione dal nulla di Dio ma anche il fatto che il mondo diventi luogo mediatore della sua partecipazione e che per questo venga incluso nella salvezza attraverso il travaglio della sua organizzazione culturale: «siamo creature culturali al di là della natura perché siamo anche creature in grazia al di là della natura»[6] - scriverà J. Milbank sul commento all’anti-dualismo di H. De Lubac – e solo reggendo tale forma di contenimento che lo spazio andrà orientato insieme al tempo secondo una concezione propriamente storica della creazione. Un invito riproposto anche dal teologo siciliano F. Brancato nel recente studio sul rapporto tra cosmologia ed escatologia:
La creazione è il cosmo non soltanto nella totalità degli elementi che lo compongono, ma anche nella totalità della sua storia; è tale non solo nell’istante in cui viene creato “in principi”, con tutto ciò che lo costituiva in quel preciso momento, ma è ciò che è con tutta intera la sua storia e con tutti gli elementi e gli esseri viventi che lo costituiranno sino alla sua pienezza finale.[7]
Il rinnovato rapporto tra storia e compimento implica la capacità di sviluppare una certa confidenza con la continuità dell’atto creativo d’elezione: «essere creati non significa che Dio mi ha costituito e mi ha collocato di fronte a sé, lontano da sé. Essere creati non è qualcosa che si verifica una volta per tutte e poi finisce, cedendo il passo alla condizione che ha provocato».[8] Inoltre, affinché il linguaggio della rivelazione e quello della cultura possano dirsi reali interlocutori, è necessario stabilire i termini della loro non arbitraria assimilazione ma allo stesso tempo individuare alcuni condotti che ne garantiscano l’interdipendenza, la connessione mediata dalle “cose” presenti nel mondo, predisposte all’utilizzo intra-mondano. Qui Heidegger avrebbe lanciato una prima impalcatura filosofica:
Ciò non significa soltanto l’ente che si incontra rispettivamente per primo rispetto agli altri, ma anche l’ente che è “nelle vicinanze”. L’utilizzabile del commercio quotidiano ha il carattere della vicinanza. A ben guardare, questa vicinanza del mezzo è racchiusa nel termine stesso che indica il suo essere, l’utilizzabilità. […] Il mezzo ha il suo posto, oppure “è lì dattorno”, il che, però, è fondamentalmente diverso dal puro trovarsi in un luogo qualsiasi nello spazio.[9]
Sebbene una simile veduta legittimi, in termini filosofici, la cornice ontologica dello spazio, liberato dalle «concezioni dell’essere causali e per lo più rozze»,[10] essa resta prigioniera di una concatenazione mondana, giustificata ancora secondo lo schema della rappresentazione prospettica e dispotica di ogni casuale continuità creativa. Un rischio enunciato anche dalla riflessione filosofica del teologo russo Pavel A. Florenskij che in quegli stessi anni abbozzava alcuni appunti raccolti in seguito nel trattato sulla spazialità:
Si può spiegare lo spazio attraverso il campo di forze delle cose allo stesso modo in cui le cose si possono spiegare attraverso la struttura dello spazio. La struttura dello spazio è la sua curvatura, e il campo di forze delle cose è l’insieme delle forze che, in una data regione, determinano la peculiarità della nostra esperienza in corso.[11]
Esistono nel mondo forze fisiche e forze culturali, concepite queste da Florenskij come un intensificarsi delle prime, sulla base della loro capienza specifica, del grado di curvatura particolare o deviazione che ne determina il carattere, sempre assegnato al di là della nostra domanda di comprensione soggetto-centrica. «Tutta la cultura può essere interpretata come l’attività dell’organizzazione dello spazio»[12], si tratta di concepire la condizione per cui le cose si organizzino in un certo modo. Questo è fare spazio.
Nell’Antico Testamento il termine ḥeleq, parte o porzione, viene impiegato per indicare la terra assegnata al popolo di Israele (cf. Gs 15,13; 19,9) ma anche la parte che spetta all’uomo nella vita terrena, a seguito delle sue fatiche. Un termine ampiamente usato nel libro del Qohelet per indicare la sorte dell’uomo, non necessariamente legata al profitto (eb. yitrôn) ma alla gratitudine, alla partecipazione, la gioia della risposta per ciò che si è ricevuto (cf. Qo 3,2; 5,17; 9,6).[13] Questa modalità di ricognizione non indicherebbe il senso di un luogo preciso, il posto ineffabile dell’aurora (in ebraico maqòm), piuttosto scrosta la capacità di organizzare una risposta, diversificandone i termini iniziali sulla base di un compimento teleologico che ne tuteli l’ordine e la bellezza secondo un nuovo utilizzo delle sue parti. In termini biblici, potremmo dire che non esiste alcuna concezione formalizzante dello spazio, se non rinunciando ad assimilare indebitamente costruzione e composizione dell’uso, interno ed esterno, due atteggiamenti artistici che, secondo Florenskij, se tenuti nella loro distinzione, inaugurerebbero uno sguardo prima di tutto “tattile” sugli spazi della tecnica e della filosofia, trasformandoli così in un ambiente potenzialmente vitale predisposto alla lavorazione:
In certi casi si tratta dello spazio delle nostre relazioni vitali, e allora l’attività corrispondente si chiama tecnica. In altri casi si tratta dello spazio mentale, di un modello mentale della realtà e la realtà della sua organizzazione si chiama allora scienza o filosofia. Infine, la terza classe di casi si trova fra i primi due. In essi lo spazio, o meglio gli spazi, sono visibili come gli spazi della tecnica, ma allo stesso tempo non ammettono l’ingerenza della vita, come gli spazi della scienza e della filosofia. L’organizzazione di questi ultimi spazi si chiama arte.[14]
Le cose vengono toccate dal lavoro che le modella secondo un fine e tenendo conto di un preciso campo di forze in movimento che supera il tradizionale dualismo soggetto-oggetto, realtà e significato. In termini biblici, questa “pressione” dello sguardo, questa genealogia degli effetti intorno al cambiamento, descrive sempre una traiettoria di tipo storico poiché misticamente orientata dal profondo ma rivestita con drappi linguistici specifici. Quale la sensibilità peculiare dunque che tocca le immagini bibliche, i loro modi di determinarsi per i nostri sensi? Nient’altro che l’orbita circoscritta intorno al “posto dell’aurora”: il cammino che innesca la ricerca, la lotta e i passi a ritroso della memoria profetica. Dalla lotta di Giacobbe (cf. Gen 32, 25) alla conquista di Gerico (cf. Gs 6,15) lo spazio biblico è il tempo localizzato intorno alla promessa, alla porzione assegnata, finalizzata ad una rimarginazione continua dell’attesa che troverà in Cristo la compiuta aurora ma che già porta con sé ogni elemento ricorsivo e inedito della nuova creazione. In tal senso è comprensibile il significato non propriamente gnoseologico di cultura adoperato da Florenskij, meno secolarizzante di Paul Tillich e più cultuale di Heidegger, non fagocitato dal riduzionismo, eppure tutelato nella dignità della propria angolazione umana, la cui specifica capienza rimane il volto.[15] Risulta dunque proporzionato al linguaggio teologico operare affinché dal futuro anteriore possa emergere ogni spazio culturale ben organizzato che non rimuova il tempo ma ne armonizzi la ritenzione vissuta ridisegnando il luogo della dimora: dal giardino al tempio fino alla casa del pane, lo spazio biblico è attraversato da simboli di moltiplicazione.
Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce.[16]
E affinché nulla si disperda entro un’erranza romantica, tipica della modernità storicista, sarà importante non identificare il volto umano con lo spazio di una rappresentazione d’autore: «in questo contesto – continua Florenskij – non si può più dire che il volto è uguale allo spazio di tutta la rappresentazione. […] Poiché il significativo di un volto si rivela soltanto in presenza del corrispondente significato dell’ambiente che deve sottomettere».[17] Potremmo a questo punto sostare, con due versi di Marina Cvetaeva, entro il grado di Luce che l’aurora saprà riservarci:
Ma il mio fiume con il tuo fiume,
ma la mia mano con la tua mano
non s’incontreranno, mia allegria, finché
l’aurora non avrà raggiunto l’aurora.[18]
[1] S. S. Sànchez, La dottrina della creazione nelle lezioni del professor Joseph Ratzinger: gli appunti di Regensburg (1976) in Annales Theologici, 30, 2016, 251-284.
[2] R. Guardini, Antropologia cristiana, Brescia 2013, p. 33.
[3] F. G. Brambilla, Antropologia teologica, Brescia 2005, p. 290.
[4] W. Pannenberg, Teologia sistematica II, Brescia 1994, p. 33
[5] H. V. Balthasar, Il tempo finito nel tempo eterno in Homo creatus est, sez. V, Saggi teologici, vol. XXIV, 36-37.
[6] J. Milbank, Il fulcro sospeso. Henri de Lubac e il dibattito intorno al soprannaturale, Bologna 2013, p. 88.
[7] F. Brancato, Il futuro dell’universo. Cosmologia ed escatologia, Milano 2017, 151.
[8] R. Guardini, Antropologia cristiana, cit., p. 92.
[9] M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Milano 2006, p. 130.
[10] Ivi, p. 143.
[11] P. A. Florenskij, L’interpretazione gnoseologica della spazialità in Lo spazio e il tempo nell’arte figurativa, Milano 1995, p. 30.
[12] Ivi, p. 51. Una concezione ripresa anche in parte da F. Rosenzweig: «prima che vi sia lo spazio come condizione di tutta la determinatezza data nel “qui”, occorre che vi sia la condizione dello stesso “qui”: il qui è preceduto dal questo; solo dal questo e dal qui sorge la determinazione»: F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Milano 2005, p. 137.
[13] L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Bologna 2001, p. 401- 408.
[14] P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., 51.
[15] Ivi, 106 – 107.
[16] Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium (24 Novembre 2013), Milano 2013, n. 223, p. 171.
[17] P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., p. 115.
[18] M. I. Cvetaeva, Versi per Blok in Poesie, Milano 2011, 66.