Un ricordo di Robert Spaemann

Leonardo Allodi
Università di Bologna

All’età di 91 anni, il 10 dicembre scorso, è scomparso il filosofo tedesco Robert Spaemann. Riconosciuto come uno dei più influenti filosofi del nostro tempo, era nato a Berlino il 5 maggio 1927.

Molte delle sue opere sono a disposizione del pubblico italiano. Da Concetti morali fondamentali (1993), a Per la critica dell’utopia politica (1994), a Felicità e benevolenza, (1998), per arrivare al magistrale studio su De Bonald, L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione. Studi su L.G.A. de Bonald, proposta da Laterza nel 2002, insieme a Persone. Sulla differenza tra ‘qualcosa’ e ‘qualcuno’, il suo capolavoro, nel 2006. Nello stesso anno appare Natura e ragione. Saggi di antropologia (Edizioni della Pusc). Nel 2008 è la volta de La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità e nell’anno seguente Rousseau. Cittadino senza patria. Dalla ‘polis’ alla natura. Nel 2013 è la volta di un altro grande suo capolavoro: Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico (memorabili le pagine dedicate alla filosofia di S.Tommaso). Assai utili anche le Tre lezioni sulla dignità umana, del 2011, soprattutto per l’approfondimento del concetto equivoco di “morte cerebrale”. Nel 2014 la sua Autobiografia: Dio e il mondo. Un’autobiografia in forma di dialogo.

I due volumi delle Meditationen eines Christen, sul Libro dei Salmi, di cui la casa editrice tedesca Klett-Cotta ha completato la pubblicazione nel 2016, insieme a Beten bei Nebel (Herder, 2018), letteralmente: ‘Pregare nella nebbia”, un dialogo con Hans Joas sul futuro della fede, costituiscono gli ultimi straordinari doni che Robert Spaemann ci ha lasciato prima di salire al Cielo. Un ultimo lascito che rappresenta assai bene i due grandi ambiti tematici entro i quali si è sviluppata la sua riflessione: Dio e il mondo, fede e ragione, cristianesimo e filosofia.

Non tradotto resta un altro capolavoro: lo studio su Reflexion und Spontaneität. Studien über Fénelon, riproposto recentemente da Klett-Cotta, e nel quale sono approfonditi temi decisivi per quella comprensione e ricostruzione critica della filosofia moderna che resta una direttrice fondamentale della ricerca storico-filosofica di Robert Spaemann: etica borghese e ontologia non teleologica, la dottrina dell’amore puro riletta a partire dalla dottrina di Tommaso sull’amor perfectus, il tema spirituale dello “spirito d’infanzia” e quello del rapporto fra fanatismo e ubbidienza.

Nel profilo che Henning Klingen gli ha dedicato per i suoi 90 anni si legge: “Sono le discipline bandite dal dibattito filosofico contemporaneo – la metafisica, il diritto naturale classico e la teleologia – ovvero la ricostruzione di un finalismo che permea l’essere – che resero Spaemann sempre un eccentrico, ma che pure gli hanno fruttato ripetutamente inviti a Colloqui con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI a Castel Gandolfo. E sempre in cerchie di alto livello – ad esempio con il cardinal Christoph Schönborn , ma anche con Emmanuel Levinas, Ernst-Wolfgang Böckenförde e altri…..”[1]. Spaemann, aggiunge Klingen, è stato sempre “un viandante fra mondi diversi. Partì dalla casa paterna, cattolica, e si mise in viaggio – dall’estrema sinistra e dal marxismo, passando per i classici della Scolastica medievale e per l’Illuminismo, fino a lambire il pericoloso estremismo di destra di un Carl Schmitt. E’ sempre stato attirato dalle speculazioni spirituali ardite, sul filo del rasoio. Spaemann non sarebbe tuttavia uno dei più importanti filosofi viventi se mai si potesse ragionevolmente accusarlo di superficiale disfattismo circa la ragione”[2].

Il suo pensiero copre una molteplicità di ambiti che vanno dalla cosiddetta Wirkungsgeschichte (la storia delle idee) fino alla speculazione teoretica e alla filosofia pratica. Ė nota la sua personale amicizia con Benedetto XVI, il quale, nel lontano 1987, in occasione dei suoi sessant’anni, dedica a Spaemann il volume Kirche, Ökumene und Politik. Secondo quanto riferisce la Casa editrice Klett-Cotta, il Papa emerito ha di recente utilizzato le spaemanniane Meditazioni di un cristiano come testo di meditazione.

La riflessione di Robert Spaemann prende le mosse dal problema del rapporto adeguato con la realtà, da cui deriva l’esperienza del bene, la possibilità di una vita riuscita, il rifiuto del fanatismo, del cinismo e dell’utilitarismo. Buona è l’azione politica che tratta ogni uomo come un fine in sé stesso: da qui la riproposizione del diritto naturale classico e il rifiuto del normativismo astratto che caratterizza il diritto naturale moderno. Da qui anche la riscoperta del concetto classico di ‘natura’ e del pensiero finalistico. La riaffermazione del principio liberale dello Stato di diritto si accompagna alla consapevolezza che l’Illuminismo è condizione necessaria ma non sufficiente per il riconoscimento di una sfera di diritti personali indisponibili. Le convinzioni morali che sostengono lo Stato democratico sono infatti frammenti di contesti il cui centro non è di natura politico-giuridica ma religiosa. Questo non significa assecondare, dice Spaemann, l’errore tradizionalista che sottovaluta - contro Tommaso – il ruolo della ragione naturale e che ha paradossalmente preparato la strada alla cosiddetta “funzionalizzazione” dell’idea di Dio, nella quale la teologia diventa ancella della politica e non viceversa. La morale politica consegue la forma più alta di razionalità soltanto se implica il riconoscimento reciproco fra i nemici, ma anche la capacità di porsi fini limitati e commensurabili e un calcolo responsabile dei costi dell’agire umano. Esattamente quello che non è accaduto in Europa e nel mondo con il ’68 e il suo cieco anti-istituzionalismo.

Per Spaemann la filosofia è ricerca della chiarezza e una sorta di “ingenuità istituzionalizzata”. Lo si comprende bene leggendo la sua Autobiografia. Che offre spunti indimenticabili: sedicenne, fermato alla fine della guerra perché senza documenti, scrisse il suo primo articolo di filosofia su ‘tempo ed eternità’ su un rotolo di carta igienica nel carcere di Neustadt. Qualche anno prima, pur di sottrarsi al giuramento di fedeltà a Hitler, era rimasto per ore sotto la pioggia nel giardino di casa, conseguendo lucidamente il risultato di procurarsi una crisi anginosa. Anche il racconto della settimana santa trascorsa sul Monte Athos con i suoi studenti è indimenticabile.

Chi volesse avvicinarsi per la prima volta all’opera di Robert Spaemann, dovrebbe iniziare proprio dalla sua Autobiografia. Capirebbe che cosa abbia significato, nel ‘900, vivere filosoficamente. Spaemann descrive episodi, esperienze e incontri che lo hanno segnato profondamente fin dall’infanzia. Traendone una essenziale conclusione: “L’uomo ha come alternativa la prigione in sé stesso o la Croce. Dalla prigione in sé stesso, dalla curvatio in se ipsum, come si dice nella tradizione agostiniana, egli può uscire soltanto inchiodandosi alla croce della realtà”[3]. Ad essa potrebbe aggiungere una delle migliori ricostruzioni del suo pensiero filosofico: P. Sabuy Sabangu, Persona, natura, ragione. Robert Spaemann e la dialettica del naturalismo e dello spiritualismo,  Armando editore, 2005.

La ‘croce della realtà’: ecco da dove deve iniziare l’interrogazione filosofica. Misurarsi con la realtà, accoglierla e riconoscerla per quello che è, senza infingimenti, senza sovrastrutture ideologiche, senza fanatismi utopistici, ma nella convinzione estrema che l’ “abbandono fiducioso” a “ciò che non possiamo mutare”, costituisce la premessa di ogni azione sensata umana ma anche sociale. Il fanatismo, il cinismo, l’utilitarismo sono soluzioni sbagliate e incongruenti che, anche a livello sociale, hanno aperto la strada a quello gnosticismo di massa così ben approfondito da pensatori come E. Voegelin, A. Del Noce, Emanuele Samek Lodovici. Uno gnosticismo di massa i cui esiti ultimi non sono soltanto i sistemi totalitari del Novecento ma anche l’edonismo e narcisismo dell’uomo-massa post-sessantottino. L’abbandono fiducioso non è fatalismo né rassegnazione: l’agire buono, dice Spaemann “comporta la fiducia che…il bene porta al bene, per lo meno in generale e a lungo termine”. Abbandono fiducioso corrisponde ad un agire che abbi comunque tentato di raggiungere i propri limiti (per allargare i confini del possibile). Due momenti, dice Spaemann, nei quali la religione vede un unico principio: “La peculiarità della religione sta nel fatto di vedere in entrambi questi momenti la stessa causa. Dio è da una parte l’origine e il garante degli imperativi morali. D’altra parte, però, è visto come il Signore della storia, cioè come Colui la cui divinità può essere riconosciuta anche dal fallimento delle nostre buone intenzioni e colui che inoltre garantisce – e questa è la cosa più importante – che le buone intenzioni e il corso del mondo siano ultimamente in accordo”[4].

Al tempo della contestazione sessantottesca Spaemann mostrò uno straordinario coraggio (e distacco anche rispetto a decisioni che avrebbero danneggiato la sua carriera accademica) contro l’arrendevolezza dei colleghi di Heidelberg nei confronti del movimento studentesco. E così, dopo soli due anni di insegnamento ad Heidelberg, rinunciò alla Cattedra che era stata di Karl Jaspers e H.G. Gadamer, sconvolto dal suicidio di un Collega lasciato solo dai colleghi a fronteggiare studenti che ricordavano più i rebarbariserte Menschen del nazismo che non maturi cittadini democratici.  

È alla ricostruzione critica della storia dei concetti di natura e di persona, Robert Spaemann ha dedicato una riflessione fondamentale. Spaemann vuole comprendere l’inversione semantica del concetto di natura che si è prodotta nell’epoca moderna. Se fino al Medioevo la nozione di natura si definisce in base al fine, anche in virtù dell’apporto essenziale della nozione biblica di creazione, con la modernità essa perde la sua connotazione teleologica e normativa. Il fine diventa esclusivamente il principio dell’autoconservazione. Qualcosa che avrà conseguenze decisive sullo stesso concetto di dignità della persona. Natura non significa più costituzione originaria ricevuta da ogni ente nell’atto creatore ma solo pura esteriorità. La natura umana diventa in tal modo nient’altro che un materiale disponibile a servizio di una logica di dominio e controllo[5]. Evidenti sono le conseguenze che in campo bioetico derivano da una tale trasformazione e svuotamento del concetto di natura e di dignità della persona. Ma si pensi anche all’ambito dell’ecologia. Anche la crescente coscienza ecologica ci suggerisce – dice Spaemann - i limiti del radicale antropocentrismo, che nella natura non coglie più alcuna somiglianza con l’uomo stesso. Nella filosofia greca physis non significava pura oggettività di una materia passiva, ma identità pensata in analogia con l’esperienza che l’uomo fa di se stesso. E‘ in tale contesto che è nata quella idea di "giusto per natura" che secondo Spaemann oggi occorre recuperare, contestando l’equazione che il pensiero contemporaneo (non diversamente dai Sofisti antichi) stabilisce fra normalità sociale e convenzione. Ciò che è buono, quando si svela, è comune a tutti, è koinon: e proprio questo è il principio che il relativismo odierno rigetta[6].

Solo ricercando il fine più proprio della sua natura, e cioè "acquisire la somiglianza divina", l’uomo può "destarsi alla realtà" e cogliere in ogni persona la "rappresentazione tutta particolare dell’Assoluto, la sua eminente rappresentazione". Per questo ogni persona non ha semplicemente un valore (commensurabile), ma una dignità (incommensurabile). La dignità, dice Spaemann, è un segno di sacralità ed è un concetto fondamentalmente religioso: “E’ un errore del nostro tempo credere che si possa abbandonare una visione religiosa della realtà senza perdere anche qualcos’altro, qualcosa a cui non saremmo molto disposti a rinunciare”[7].

Quello che oggi rischiamo di perdere, è sotto gli occhi di tutti: in campo morale, nel diritto, nella politica. In particolare l’incapacità di vedere nei "non nati, nei moribondi, negli incoscienti, nei malati mentali, nei subnormali" i portatori di una dignità che resta altissima. Esattamente come quella di ogni creatura umana per il solo fatto di appartenere al genere umano.

La “croce” della realtà contemporanea, dice Spaemann, si chiama nichilismo: “L’ultimo uomo di Nietzsche: ecco la personificazione del nichilismo banale. Oggi si chiama anche “liberalismo” e per tutto ciò che non si rassegna ad esso si ha già a disposizione il termine intimidatorio di “fondamentalismo”.[8]

 



[1] H. Klingen, Il controrivoluzionario: Robert Spaemann compie novant’anni, 29 gennaio 2018 (Nuova Citeaux, Consigli di lettura).

[2] Ivi.

[3] R. Spaemann,  Wahrheit und Freiheit  (2009), in: Robert Spaemann, Schritte ueber uns hinaus. Gesammelte Reden und Aufsaetze I, Klett-Cotta, 2010, pp. 310-331.

[4] R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 123-124

[5] Cfr. P. Sabuy-Sabangu, Persona, natura e ragione: Robert Spaemann e la dialettica del naturalismo e dello spiritualismo, Armando, Roma 2015, p. 82 e sgg.

[6] Cfr. P. Sabuy-Sabangu, Ivi.

[7] R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, Lindau, Torino 2011.

[8] R. Spaemann, L’Europa e il nichilismo banale, in Studi cattolici, gennaio 2013