Nel 2013 Melissa restò incinta di Gemma, all’età di 36 anni, già mamma di altri 4 figli. La conduzione della famiglia era quasi totalmente affidata a lei; suo marito, per motivi di lavoro, doveva assentarsi spesso da Chicago, dove abitavano. La gravidanza si era presentata, fin dall’inizio, ad alto rischio. Un distacco parziale della placenta e varie emorragie avevano spinto i medici a prescrivere a Melissa riposo assoluto, a letto, cosa che la giovane mamma non riusciva a fare dovendosi necessariamente occupare di quattro bambini. Il 15 maggio di quell’anno Melissa, sola in casa con i quattro figli, il più grande dei quali aveva all’epoca solo 6 anni, soffre una fortissima emorragia che le fa subito capire la gravità della situazione e il pericolo di vita in cui sia lei, sia la bimba che porta in grembo, adesso si trovano. Nel tentativo di spostarsi a fatica verso il bagno, subisce un collasso e cade a terra semisvenuta, mentre l’emorragia continuava senza sosta. Qualche anno prima, nel 2011, aveva ricevuto da suo marito una immaginetta del Beato John Henry Newman e, custodendola con sé, si rivolgeva di tanto in tanto, nella preghiera, al cardinale di Oxford. In quel frangente Melissa ha appena le forze per pronunciare un’accorata richiesta: «Per favore, cardinal Newman, ferma le perdite di sangue». All’istante le perdite si bloccano e la giovane donna sente tornare gradatamente le forze. Il resto della vicenda e gli eventi che la seguirono sono raccolti nella documentazione che i coniugi Villalobos produssero a Chicago e che diede origine al processo di riconoscimento canonico del secondo miracolo attribuito all’intercessione di John Henry Newman. La piccola Gemma nacque il 27 dicembre, sana, con un peso di 3,9 kg, mentre del distacco della placenta e delle conseguenze delle emorragie non vi fu più traccia.
È questo il miracolo, approvato dalla Congregazione per le Cause dei Santi il 13 febbraio 2019, che consentirà alla Chiesa cattolica di proclamare santo il teologo e pastore inglese, il prossimo 13 ottobre, in piazza san Pietro a Roma. Benedetto XVI lo aveva proclamato Beato il 19 settembre 2010, durate il suo viaggio nel Regno Unito. Tommaso Moro e John Fisher, che subirono il martirio a Londra nel 1535 durante le note vicende relative alla separazione della Chiesa anglicana da Roma, erano stati gli ultimi inglesi ad essere proclamati santi. A farlo fu Pio XI nel 1935, a 400 anni di distanza dalla loro esecuzione capitale. Singolare, forse, che gli ultimi tre santi donati dall’Inghilterra alla Chiesa cattolica siano stati tre intellettuali, due umanisti (Moro e Fisher) e uno storico, teologo e filosofo (Newman). Pare quasi di ascoltare, attraverso di essi, l’eco del prestigio delle grandi università medievali di Oxford e Cambridge. Proprio la dimensione intellettuale della vita di Newman, la sua attività ad Oxford e poi a Birmingham, fanno sì che la canonizzazione del Fellow dell’Oriel College, la cui opera omnia supera i 50 volumi, sia un evento non solo ecclesiale, ma in un certo qual senso anche universitario.
Uno sguardo alla produzione filosofica e teologica di Newman, ma anche alle sue opere storiche e letterarie, pone subito in evidenza due parole impegnative, importanti, che attraversano come un ritornello ricorrente i suoi scritti e le sue riflessioni: verità e coscienza. È la ricerca della verità che muoverà la sua ricerca storica de Gli Ariani del IV secolo (1833), che lo condurrà gradatamente ad apprezzare il cattolicesimo e a dubitare delle convinzioni anglicane; il desiderio di riconoscere come la verità può esplicitarsi e svilupparsi lungo il corso della storia gli suggerisce lo studio raccolto ne Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845); sarà l’amore alla verità, cercata nella formazione universitaria e nell’integrazione fra le varie discipline, ad ispirare la sua Idea di Università (1852); ed è, ancora, lo studio dei modi con cui l’intelletto può accostarsi alla verità, facendo dialogare fra loro logica ed esperienza di vita, che guiderà la redazione paziente e geniale della sua La grammatica dell’assenso (1870). Amore per la ricerca della verità, in ogni circostanza e comunque, nonostante tutto, assumendosene con coraggio le relative conseguenze. Sono un inno al valore della coscienza L’apologia pro vita sua (1864), nella quale Newman difende le sue scelte e la coerenza del suo itinerario intellettuale e religioso; la Lettera al Duca di Norfolk (1874), ben nota per il primato della coscienza su ogni autorità ad essa estrinseca; ma anche i commuoventi romanzi Callista e Perdita e guadagno, che presentano protagonisti disposti ad obbedire alla legge incisa da Dio nel cuore dell’essere umano, nonostante questo implichi la perdita dei privilegi e della stessa vita.
Qui sorge allora una domanda. Come mai due parole così poco di moda, sospette e spesso bistrattate, sono quelle che portano un universitario agli altari? Non sarà forse che, nonostante tutto, non possiamo proprio farne a meno? Non sarà che, anche di fronte ai cambiamenti epocali ai quali stiamo assistendo, nel sentire e nel ragionare, siamo ancora maledettamente interessati a dividere il vero dal falso, a separare ciò che ci convince e può determinare le nostre scelte, da ciò che, al contrario non è in grado di farlo? La scienza continua ad essere interessata a riconoscere ciò che è vero e, anche se si occupa di certezze penultime, ciò che organizza e dà valore a tali certezze è il loro tendere verso ciò che è vero e diviene conoscenza irreformabile, sulla quale si potranno poi poggiare nuovi studi. La storia è ancora interessata a segnalare ciò che è accaduto, i fatti davvero avvenuti, distinguendoli da ciò che invece è falso e non è stato. Così fa il diritto nelle sue procedure, quando si sforza di ricostruire eventi, testimonianze, affermazioni, per giustificare la condanna o l’assoluzione di un imputato. E la verità cerchiamo ancora noi tutti quando ci impegniamo ad estrarre dalle informazioni della rete quelle che corrispondono al vero, distinguendole da quelle che sono invece fakes. In molti di questi processi la verità resta certamente un obiettivo verso il quale tendere, una direzione verso la quale dirigersi, senza mai possederla del tutto, ma un obiettivo e una direzione che, se non esistessero, ci impedirebbero di agire, di pensare, di vivere. La verità ci rende umani.
Ma è anche alla coscienza che ci sentiamo di dover obbedire, sempre e comunque, come ha insegnato per tutta la sua vita Newman. Una coscienza che potrebbe restare anche a lungo sopita, ma prima o poi non tarderà a far sentire la sua voce, spingendoci a fare ciò che, in coscienza, ci sembra giusto, rifiutando invece ciò che risulta ingiusto, ciò che ci indigna, ciò che non vorremmo altri facessero a noi. Anche la coscienza, come la verità, ci rende umani. Come mai, ci chiediamo allora, verità e coscienza possono essere difese e amate allo stesso tempo, come lo furono nella vita di Newman? Il clima postmoderno nel quale tutti ormai ci muoviamo ce le mostre spesso in opposizione. Liberarci da una verità oggettiva potrebbe finalmente consentirci di agire secondo coscienza; affermare la verità o darle troppo peso ci costringerebbe a perdere la nostra libertà. Eppure, l’autore della Lettera al Duca di Norfolk non la pensava così. Se abbiamo il dovere di seguire sempre e comunque la coscienza, sostiene Newman, è perché essa ci mostra la verità del nostro essere, il nostro essere immagine di Dio, comune a tutti gli uomini. E la giovane pagana Callista parla della sua coscienza come di una voce che ascolta nel profondo del proprio cuore, una voce di cui non siamo noi l’origine, ma i destinatari. Ed è per ascoltare questa voce che ella, non ancora cristiana, rifiuterà di adorare l’imperatore, perché uomo e non Dio. La coscienza non si oppone alla verità perché la custodisce, ce la fa ascoltare, ci pone in contatto con il suo fondamento increato. Grande ottimismo quello di Newman, paragonabile a quello di Agostino e di Tommaso d’Aquino, che spingeva tutti questi autori a credere, sul serio, che cercando tutti gli uomini nel profondo del cuore la verità non sarebbero giunti a conclusioni diverse, ma alle medesime certezze di vita. Noli foras ire, in teipsum redi: in interiore homine habitat veritas, esortava Agostino (De vera religione, XXXIX, 72).
E se fosse proprio questo il regalo che la canonizzazione di John Henry Newman riserva per la nostra epoca? Ricordare a ciascuno di noi che verità e coscienza possono richiamarsi a vicenda e nutrirsi della stessa linfa. Difenderle e amarle non ci conduce lungo sentieri diversi, non ci lacera, ma al contrario rivela a noi stessi la nostra condizione creaturale, di uditori di una Parola di verità che non siamo noi a pronunciare, ma Ella ha pronunciato, chiamandoci all’esistenza. Guardando Newman, che sarà riconosciuto santo il prossimo 13 ottobre, forse capiamo che verità e coscienza fanno entrambe rima con santità e che tutte insieme formano una straordinaria armonia, senza stonature. Un’armonia capace di restituirci l’umano, la sua bellezza, il suo profumo. Forse quel profumo di rose che Melissa Villalobos percepì quando, il 15 maggio del 2013, le si fermarono improvvisamente le emorragie che avrebbero portato lei e la sua bimba a morte sicura. Stupita ebbe la forza di chiedersi: «Cardinal Newman, mai sei stato tu a creare questo profumo? E subito dopo —racconta Melissa— arrivò una seconda ondata di profumo e capii che era stato lui».