Cinquant’anni fa, precisamente il 2 febbraio del 1970, quasi novantottenne, moriva Bertrand Russell, uno degli intellettuali più famosi, popolari e influenti del XX secolo, premio Nobel per la letteratura nel 1950. I suoi studi spaziarono in vari campi e molto significativa fu anche la sua attività di polemista. A questo riguardo, non casuale risulta il fatto che Albert Einstein abbia voluto affidare a lui il proprio testamento spirituale, imperniato sulla denuncia del rischio di un’irreparabile guerra nucleare e su di un conseguente appello alla pace; non casuale, dicevo, perché in Russell l’impegno più squisitamente scientifico e speculativo si fuse con quello sociale e filantropico. Paragonato a Voltaire per la mordace critica della religione, del conformismo culturale e di ogni forma di dogmatismo e autoritarismo, Russell si presenta come uno scettico sempre alla ricerca della verità, seppur ritenuta inesistente o comunque introvabile, un pensatore che problematizza ogni certezza considerata tale, ma che, nel medesimo tempo, non vuole farsi paralizzare da questa inclinazione del pensiero, caratterizzata dal dubbio e da una sorta di invincibile non conclusività.
Russell nacque il 18 maggio del 1872 nel villaggio gallese di Trellech, in una prestigiosa famiglia dell’aristocrazia britannica. Rimasto presto orfano di ambedue i genitori, fu educato in un ambiente molto legato alla tradizione puritana e contemporaneamente permeato di ideali progressisti. Già in età adolescenziale cominciò a sottoporre la fede religiosa, in particolare quella cristiana, a una forte critica: rimarrà, questa, una delle caratteristiche salienti della sua cultura, e su di essa torneremo più avanti. Ben presto cominciò ad appassionarsi alla matematica e alla logica e, quando iniziò gli studi al Trinity College di Cambridge, si legò di amicizia a studiosi quali il filosofo anti-idealista George Moore e il matematico Alfred Whitehead, avvicinandosi alle posizioni del realismo legato alle evidenze del senso comune. Nel 1895 fece un viaggio a Berlino per conoscere direttamente la socialdemocrazia tedesca, manifestando quell’interesse per la vita sociale e politica che lo accompagnerà per tutta la vita. Quando, nel 1898, iniziò la sua carriera di docente, dedicò i primi corsi ai grandi protagonisti della storia della matematica e della logica. Poi i suoi sforzi si orientarono verso la costruzione di una logica delle relazioni, dalla quale poter dedurre le basi stesse della matematica: il risultato più importante di questo impegno è rappresentato dai Principia matematica, un’opera molto complessa scritta insieme a Whitehead negli anni 1910-13. Nel frattempo si consolidarono anche le sue idee politiche improntate al pacifismo, al progressismo e al laburismo. Il tentativo di creare una scuola ove educare i bambini a questi ideali non andò in porto e due divorzi segnarono il suo percorso esistenziale: sul matrimonio egli scrisse un libro, nel quale sostenne idee non convenzionali che vennero aspramente contestate, in specie negli Stati Uniti, ove si era stabilito al tempo della seconda guerra mondiale. Negli anni successivi, Russell assunse posizioni molto critiche sia nei confronti dell’Unione Sovietica che dei paesi occidentali, maturando, per sua stessa ammissione, convinzioni sempre più radicali, che non gli permisero di condividere né la politica comunista dell’URSS, né, soprattutto, quella statunitense (netta fu la sua dissociazione dalle scelte operate dal presidente Kennedy nei confronti del regime cubano di Fidel Castro e anche dall’intervento americano in Vietnam), che mise letteralmente sotto processo, dando vita a un tribunale internazionale, che prese il suo nome, per condannare i crimini compiuti dagli americani nel sud est asiatico. L’empirismo, che fu una delle cifre fondamentali del suo pensiero filosofico-scientifico, contraddistinse pure le sue concezioni etiche e politiche e, come si è accennato, lo tenne lontano dal marxismo, viziato ai suoi occhi da una coloritura metafisica ereditata dall’hegelismo. Inoltre, l’apprezzamento per gli ideali illuministici e liberali lo fece propendere verso un individualismo che cercò tuttavia di stemperare in una sorta di socialismo umanitario e non violento, ostile alla proprietà privata e proiettato verso la costruzione di una società non competitiva, pacifica e solidale.
In un primo momento, Russell sostenne l’esistenza di valori etici oggettivi, ma poi cambiò idea e si convinse dell’impossibilità di fondare la morale su basi scientifiche: a suo giudizio, le scelte etiche possono rispondere soltanto a valutazioni individuali legate all’universo delle emozioni. Quello di Russell si presenta, dunque, come un relativismo che non accetta l’esistenza di valori universali, in particolare di quelli ispirati alla fede cristiana, e approda a posizioni libertarie le quali comunque, a suo giudizio, non avrebbero implicato necessariamente una totale e incontrollabile anarchia dei comportamenti. Proprio riguardo al cristianesimo, Russell prese una posizione netta e il 6 marzo 1927 pronunciò a Londra un discorso dal titolo “Why I Am not a Christian”, che è rimasto famoso e che, tradotto con “Perché non sono cristiano”, costituisce il titolo di un volume, pubblicato in Italia nel 1960, che raccoglie quindici saggi aventi per argomento la fede e la morale, e rappresenta una delle sue opere più note, in cui egli esprime, in forma fortemente polemica, il suo pensiero vigorosamente avverso a ogni dogma e a ogni forma di rinuncia. Il volume produsse subito una eco significativa negli ambienti intellettuali europei e, a motivo della statura scientifica del suo autore, esercitò una notevole influenza fra gli uomini di scienza, nonché sul loro modo di giudicare i rapporti con la religione, quella cristiana in modo particolare. L’opera contiene vari saggi nei quali l’autore presenta molte sue convinzioni in materia religiosa e discute criticamente le verità del cristianesimo. Egli non crede nella possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio e ritiene che l’adesione alla religione sia spesso frutto di emotività e di timore. Molte altre sono le accuse che Russell muove nei confronti della Chiesa, e tra queste spiccano quelle di oscurantismo e di sessuofobia. Egli contesta inoltre la credenza nella vita oltre la morte, considerandola frutto dell’irrazionalità e della paura, mentre ritiene necessario che anche nel campo della vita interiore l’uomo segua i dettami della scienza. Agli occhi del pensatore inglese, la religione richiede sempre un immotivato atteggiamento di sottomissione nei confronti di Dio e della Chiesa. Nel libro si trova poi una critica serrata e costante di ogni morale fondata sulla fede religiosa, considerata triste e persecutoria, soprattutto per quanto riguarda la vita sessuale.
Non è difficile identificare, almeno nelle sue linee generali, la tradizione filosofica che fa da sfondo all’opera di Bertrand Russell qui presa in considerazione: tale tradizione è quella dello scetticismo che, coniugandosi con l’empirismo, di cui rappresenta l’esito pressoché obbligato, ha conosciuto un notevole successo specialmente in Inghilterra; i nomi di Guglielmo di Ockham, Francesco Bacone, John Locke e, soprattutto, David Hume appaiono a tale proposito estremamente eloquenti. Di una parte della tradizione scettica Russell eredita il tono volutamente lieve, ma non per questo meno distruttivo, il ricorso al cosiddetto senso comune e l’atteggiamento critico apparentemente fondato sul buon senso e sulla saggezza dell’uomo della strada. In realtà, tutto ciò conduce spesso il nostro autore a prendere posizioni vaghe e superficiali, da cui derivano molte delle obiezioni mosse al cristianesimo, le quali fanno leva sull’antimetafisica, sulla presunta impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, su di una lettura affrettata e semplicistica della storia, che conduce Russell a vedere nella religione cristiana e nella Chiesa cattolica, secondo uno schema affermatosi durante il periodo dell’Illuminismo, due forze oscure e reazionarie, nemiche del progresso e della libertà. Accanto allo scetticismo, è facile ravvisare in Russell l’eredità del positivismo ottocentesco, interprete di una visione emancipatrice del progresso scientifico, capace di far uscire l’uomo dalla fase infantile e mitologica, dovuta, rispettivamente, al ruolo della religione e della metafisica. È al progresso scientifico e alle forze della ragione, spesso coniugate con una visione dell’uomo istintiva e riduttiva, che va dunque affidato il compito di condurre l’umanità verso un futuro più felice. La smisurata fiducia nella razionalità della scienza non ha permesso a Russell di considerare con la dovuta attenzione e con il dovuto rispetto alcune fondamentali componenti dell’esperienza umana, prima fra tutte quella religiosa. Questa gli è apparsa soltanto frutto di arretratezza e di superstizione: di qui anche il gusto della dissacrazione e della provocazione, assai frequente in molte pagine di Perché non sono cristiano, dissacrazione e provocazione che si sostituiscono quasi sempre a una critica ben costruita e opportunamente argomentata. L’etica di Russell contiene pertanto solamente un generico appello umanitario e filantropico alla convivenza basata sulla tolleranza e sul rispetto del proprio simile (vivo interesse suscitarono le sue sincere convinzioni pacifiste), senza che tale appello venga giustificato sulla base di criteri universalmente e oggettivamente validi.
L’uomo di scienza, in particolare chi pone la logica alla base delle formulazioni e del linguaggio rigoroso, perciò anche di quello che afferma o nega che si possa parlare di Dio, non è obbligato certamente a seguire, per restare fedele al suo metodo, le orme di Russell nella critica alla religione. Ne offrirà una dimostrazione puntuale Wittgenstein, il quale, partendo dal medesimo contesto scientifico, giungerà, in specie nel “secondo periodo”, a conclusioni ben diverse da quelle proposte dal matematico inglese. Per Wittgenstein, la logica può giungere ad avere una forte valenza etico-esistenziale, fino ad aprirsi alla rivelazione della Trascendenza e al senso che oltrepassa la sintassi della logica, al contrario di quanto dettato dall’atteggiamento laico e neutrale di Russell e dei neopositivisti. Tornando alla dimensione più decisamente teoretica della filosofia russelliana, è opportuno ribadire che il contributo più importante presente in essa è quello relativo alla formalizzazione logica della matematica, compiuta, sulla scia di Frege, in collaborazione con Whitehead. La mentalità di Russell fu quella di un positivista critico della metafisica: in realtà, egli mutò più volte i suoi convincimenti, ma rimase sempre sostanzialmente fedele all’empirismo e al realismo maturati in gioventù, sebbene li ripensò costantemente e li rielaborò a più riprese.
Cosa può suggerirci oggi, a 50 dalla sua morte, questo sguardo retrospettivo alla vita e al pensiero di Russell? Condividiamo quanto ebbe a scrivere anni fa un suo contemporaneo, Alan Wood: “Bertrand Russell è un filosofo senza una filosofia. La stessa cosa potrebbe essere detta dicendo che egli è un filosofo di tutte le filosofie. È difficile che ci sia oggi un punto di vista filosofico di una certa importanza che non possa trovarsi riflesso nei suoi scritti di un qualche periodo […]. Nonostante tutti gli enunciati visibilmente in conflitto che si trovano nel totale degli scritti filosofici di Russell e nonostante il numero dei casi in cui egli sostiene opinioni diverse in tempi diversi, c’è dal principio alla fine una coerenza d’intenti e di direzione e una coerenza di metodo. “Volevo la certezza – scrisse Russell in un esame retrospettivo – allo stesso modo in cui la gente vuole la fede religiosa”. Credo che lo scopo latente di tutta l’opera di Russell sia stata una passione quasi religiosa per una qualche verità che fosse più che umana, indipendente dalla mente degli uomini ed anche dalla loro esistenza». (A. Wood, Russell’s Philosophy, Appendice a B. Russell, My Philosophical Development, G. Allen and Unwin, London 1959, p. 260). Uno “scettico appassionato”, dunque, come ebbe a definirlo ancora Wood in un altro suo volume. Sebbene legata alla sua critica inflessibile, è proprio la passione l’eredità più importante che Russell ci lascia. Ai grandi temi della vita non ci si può accostare con indifferenza o superficialità, ma solo con passione. Qualunque ne sia l’esito, l’umano si misura sulla sincerità di questa ricerca.