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Fragili e finiti, ma interdipendenti

Dicembre 2020
Giulia Maria Cattaneo Piacentini
già docente di Algebra all’Università di Roma Tor Vergata

In questo periodo di pandemia, in cui ci siamo trovati e ancora in parte ci troviamo in una situazione di forzata inattività, ho pensato a lungo alla posizione dell’uomo nell’universo. Le stanze in cui siamo stati confinati per alcuni mesi ci hanno consentito, per dirla con Blaise Pascal, di cogliere quello che realmente siamo. Articoli di quotidiani e blog hanno fornito spesso uno spunto per le mie riflessioni. Su tre concetti ho riflettuto in modo speciale e vorrei qui adesso soffermarmi: fragilità, interdipendenza e morte.

In primo luogo, fragilità. L’essere umano, in questo frangente, ha scoperto di non essere il dominatore del mondo, il forte per eccellenza, ma si è improvvisamente scoperto impotente, fragile. Di questo virus non conoscevamo nulla, i virologi andavano a tentoni. La natura sembrava essersi imposta per prendere il sopravvento sull’umanità. Leggendo alcuni editoriali pubblicati tra marzo e aprile sull’inserto del Corriere della Sera, mi sono imbattuta in alcune citazioni di grandi autori del passato. Ho ripensato, così, all’Edipo Re di Sofocle: nella città di Tebe imperversa la peste e la popolazione chiede al suo Re Edipo di trovare un modo per farla cessare. Il re è convinto di riuscirci e accetta questa sfida per poter salvare la città: Edipo è metafora dell’uomo che crede di essere dominatore della natura e degli eventi. Ma sappiamo bene come il racconto finisce: Edipo scopre in realtà di essere lui la causa di questi eventi perché la pestilenza è iniziata a causa dell’uccisione di Laio, ed Edipo scopre a poco a poco di essere lui l’assassino. Il re, scopertosi soltanto uomo, si dispera, non riesce a guardare la realtà, e così si acceca e va in esilio. L’uomo non è il padrone della natura; egli ne è il custode e il responsabile.

A proposito di natura, mi sovvengono i versi di Giacomo Leopardi nella Ginestra: «Così, dell'uomo ignara e dell'etadi / ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno / dopo gli avi i nepoti, / sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star. Caggiono i regni intanto passan genti e linguaggi: ella nol vede: e l'uom d'eternità s'arroga il vanto».

Riguardo questo vanto, quello di credersi al centro e dominatore dell’universo, Blaise Pascal affermava nei Pensieri: «La grandezza dell’uomo consiste nell’avere coscienza della propria miseria. Conoscere di essere miserabile è un segno di miseria, ma in pari tempo un segno di grandezza».

Questa pandemia, con le restrizioni alle quali siamo stati e siamo tuttora sottoposti, sembra in apparenza averci tolto la libertà. Questa libertà, che pensiamo di aver perduto, va invece riscoperta. Essa ci ha rivelato interdipendenti. È divenuta in realtà un nuovo tipo di libertà, trasformandosi in solidarietà. In seguito all’epidemia da coronavirus l’umanità ha preso coscienza dell’interdipendenza e della comunione di destino che intercorre tra tutti gli esseri umani. Abbiamo capito che ciascuno di noi dipende da tutti gli altri, che ognuno ha bisogno degli altri. Negli scorsi mesi abbiamo scoperto reti di solidarietà impensabili in altri momenti e comunione di risorse materiali e umane che non vedevamo da decenni.

In un passo del Libro I della Lettera a Lucilio, il filosofo stoico Seneca afferma che «se vuoi vivere per te stesso, bisogna vivere per l’altro». In un articolo dell’aprile 2020 pubblicato sul Corriere della Sera, Mauro Bonazzi commentava che in passato sia i Greci che i Latini avevano detto da sempre che l’uomo ha un naturale bisogno degli altri. Scriveva: «Senza gli altri saremo incompleti, privi di qualcosa, anche se possedessimo tutto. Solo gli dei e gli animali possono vivere (o sopravvivere?) da soli: senza uno specchio in cui rifletterci e trovarci, noi non possiamo vivere. Per questo l’amicizia è fondamentale». Abbiamo quindi bisogno, come ha affermato il filosofo e sociologo francese Edgar Morin, di un “umanesimo rigenerato”, che attinga alle radici di un’etica fatta di solidarietà e responsabilità: essenzialmente un umanesimo planetario.

Non posso fare a meno di pensare alla visione di Teilhard de Chardin, quando ipotizza che la nostra umanità attuale rappresenti uno stadio ancora embrionale — di quella creazione che “geme e soffre le doglie del parto”, Rm 8,22 — di un nuovo stato superiore che lui definisce l’ultra-umano. Con questo termine egli intende una collettività o stato superiore, dove le coscienze si illuminano attraverso la loro convergenza, raggiungendo degli stati superiori di pensiero e di libertà. Un nuovo “senso della specie” che porti alla fede e allo slancio verso Qualcosa in avanti, che non sembra si possa ottenere senza combinarsi con un’altra aspirazione, ancora più fondamentale, questa volta discendente dall’alto e da Qualcuno. Questo Qualcuno, come ben sanno i lettori di Teilhard, è per lui il punto Omega.

Questa pandemia, infine, ci ha fatto riflettere sulla nostra finitezza, sulla nostra morte. Un concetto spesso considerato un po’ lontano da noi, come accantonato: i disastri erano lontani, riguardavano altre persone: anche all’inizio della pandemia, quando era limitata alla Cina, molti abbiamo pensato che riguardasse soltanto loro, e quindi non eravamo particolarmente preoccupati: riguardava altri. Adesso abbiamo compreso che non ci sono altri nel nostro destino, siamo tutti coinvolti e destinati a morire. Finora non c’era la “paura della morte”. Tutto questo adesso è cambiato: la morte, come ha scritto in un articolo su Civiltà Cattolica Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo, è tornata al centro del palcoscenico. La finitezza della nostra esistenza solleva radicalmente la questione del senso della nostra vita. E l’isolamento di questi mesi ha aiutato ad approfondire questi interrogativi. Ho pensato al dolore di chi ha visto morire i propri cari senza poterli accompagnare né durante la malattia né accompagnarli per l’ultimo saluto. In un articolo di Mauro Bonazzi ho trovato interessante il riferimento ai funerali nell’Iliade: Achille non accetta la morte di Patroclo, e comincia ad uccidere tutti; uccide anche Ettore e il corpo di questi viene da lui massacrato, finché, nell’ultimo canto dell’Iliade, Achille incontra Priamo. Di fronte al dolore del padre, Achille accetta la sua condizione di mortale, capisce che i funerali sono importanti: rendono umano il fatto tremendo di un corpo che si decompone. E restituisce a Priamo la salma del figlio. E il poema termina con i versi: Così onorarono la sepoltura di Ettore, domatore di cavalli.

Concludo rifacendomi all’ultima enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, appena pubblicata. Riprendendo quel memorabile momento di preghiera in tempo di epidemia del 27 marzo 2020, che rimarrà per sempre impresso nei nostri cuori, egli scrive: «Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che “la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. [...] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ‘ego’ sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”» (n. 32).